Il film di Morten Tyldum è di quelli perfetti per trascorrere una domenica pomeriggio piacevole e senza pretese al cinema. La storia cattura, il protagonista è interessante, i co-protagonisti sono accattivanti, gli attori sono bravi. Per chi - come me - sa poco o niente della storia vera di Alan Turing, che in questo film è raccontata, la visione è anche decisamente istruttiva.
In questo senso, The imitation game mi ha ricordato certi film per la televisione realizzati dalla BBC, composti sul piano cinematografico, ben recitati, molto attenti ai contenuti conoscitivi da trasmettere, ma senza guizzi autoriali, senza invenzioni, cosa che - beninteso - non è necessariamente un dato negativo.
E dunque se avessi visto il film a casa in televisione o su DVD credo che l'avrei apprezzato enormemente, ma, messa lì in una sala cinematografica, sinceramente finisco per aspettarmi qualcosa di più. Un cambio di velocità, uno spunto, una sfida che mi ricordino che il cinema non è solo un piacevole esercizio educativo, ma anche un'arte affascinante.
La storia è presto detta. Alan Turing (Benedict Cumberbatch) è un genio della matematica, ma un inetto sul piano delle relazioni sociali. Diventato giovanissimo professore a Cambridge, negli anni della seconda guerra viene arruolato in una segretissima missione del Governo britannico per decifrare Enigma, una macchina in uso ai tedeschi per trasmettere messaggi e informazioni militari con un complesso codice crittato le cui impostazioni vengono cambiate ogni giorno. Turing riuscirà a decifrare il codice realizzando una macchina programmata per poter fare in tempi impossibili per un essere umano i calcoli e le verifiche necessarie per scoprire la chiave interpretativa, sostanzialmente una versione prototipale di quello che diventerà il computer.
Tutto il film è giocato sul rapporto tra contenuto e forma della comunicazione. In questi giorni ho finito di leggere un libro, The economics of attention di Richard A. Lanham, che parla appunto di questo, dell'oscillazione costante che nella comunicazione si realizza tra la sostanza e lo stile, i contenuti e la loro organizzazione, il messaggio e il portatore di messaggio. Ebbene Alan Turing viene presentato come un disadattato sociale perché non è in grado di muoversi su questo asse secondo le regole della comunicazione sociale, fatte spesso di sottintesi, di non detto o di espressioni che portano messaggi diversi da quelli apparenti. Per di più, costretto lui stesso a una vita di nascondimento da diversi punti di vista, e a sua volta costantemente teso a comprendere i travestimenti altrui. Ed è forse proprio per questo che tutta la sua vita è in qualche modo dedicata alla decrittazione, a trovare un modo razionale e programmabile per tradurre messaggi in codice, trovare il significato nascosto in comunicazioni apparentemente innocue.
Il tutto però appare alla fine un po' didascalico, direi quasi telecomandato, irrigidito come nei comportamenti un po' meccanici di Cumberbatch/Turing. Ed anche la struttura del film, caratterizzata da continui flashback e forward, non sempre funziona alla perfezione.
Sembra insomma di aver assistito a una bella lezione divulgativa, ma in cui buona parte dei contenuti non strettamente informativi appaiono sostanzialmente prevedibili.
Ciò detto, se metà dei film che escono al cinema e di quelli che passano nella nostra televisione potessero contare sul mestiere e la pulizia di questo probabilmente vivremmo comunque in un mondo migliore ;-)
Voto: 3/5
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