Devo confessarlo: non avevo mai visto una mostra dedicata interamente ad Henri Cartier Bresson. Ovviamente, conoscevo il grande fotografo francese, ma la mia conoscenza della sua fotografia era sostanzialmente riferita all'aspetto più noto, quello che l'ha reso un fotografo famoso in tutto il mondo, ossia la capacità di cogliere l'attimo, quello che lui chiamava "il momento decisivo".
Ma - mea culpa - non avevo idea della vastità, varietà e complessità della sua produzione fotografica, e non solo fotografica, visto che la mostra fa emergere anche la sua vena di pittore e disegnatore e le sue esperienze nel mondo del cinema, in particolare accanto a Jean Renoir.
Del resto, un fotografo che con le sue fotografie ha attraversato quasi sessant'anni della storia culturale, politica e sociale del mondo sarebbe del tutto riduttivo associarlo a quelle dieci foto che tutti conosciamo, e che - tra l'altro - si illuminano, grazie a questa grande retrospettiva (oltre 400 foto), di nuovi significati e valori.
Così veniamo a sapere che il primo Cartier Bresson è molto influenzato dalla corrente del surrealismo e dai lavori di Atget, e lavora moltissimo sulla composizione e sulla modalità di ripresa fotografica. Solo successivamente sviluppa la sua poetica relativa alla dinamicità dell'immagine fotografica e alla ricerca da parte del fotografo della casualità come risultato della perseveranza e dell'accumulo di esperienze. Verranno poi l'impegno politico e sociale, il lavoro di reportage per le grandi riviste, la partecipazione alla nascita della Magnum, gli studi antropologici e l'intimismo dell'ultimo periodo.
La cosa straordinaria che una retrospettiva di queste dimensioni consente è quella di seguire il processo di arricchimento dell'universo artistico e visivo del fotografo, che evolve e in parte rinnega il passato, ma si porta dietro la vastità e la complessità del bagaglio costruito.
È dunque sorprendente riconoscere, nella sua vastissima produzione, la ricorrenza di alcuni elementi, sia dal punto di vista dei soggetti, sia dal punto di vista della composizione e delle inquadrature. L'occhio di un fotografo di questa qualità si arricchisce nel tempo diventando sempre più denso e moltiplicando le possibilità.
Persino le sue fotografie a colori (presentate come slide show su uno schermo), che Bresson dice di aver fatto solo per motivi commerciali e contrattuali in quanto non amava il colore, acquistano significato e valore all'interno di una mostra così ampia.
Il dato negativo della mostra è la location e la sua gestione. Gli spazi espositivi dell'Ara Pacis sono infatti piuttosto labirintici e in alcuni passaggi stretti e inadatti soprattutto ai flussi di gente che una mostra del genere richiama. A questo proposito, personalmente credo non sia pensabile che si possa fare entrare contemporaneamente tutta la gente che acquista il biglietto. Forse una scansione degli ingressi consentirebbe allo spettatore una visione più rilassata e in alcuni casi semplicemente possibile.
Voto: 4/5
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