David Fincher è uno che ha idee e intuizioni, come ha già dimostrato in molti dei suoi film precedenti tra cui i miei preferiti restano Seven, Fight club e The social network. Ma ha anche molto mestiere e dunque è capace di trasformare le idee in puro spettacolo cinematografico, capace di avvincere lo spettatore (anche quando la visione - come nel mio caso - avviene alle 22,15 dopo una lunga giornata di lavoro e il film dura 2 ore e un quarto).
Nel caso di Gone girl (per il quale il regista ha riadattato per il grande schermo il romanzo di Gillian Flynn) di idee dentro ce ne sono molte, nonché di spunti cui il regista non vuole rinunciare. E probabilmente - alla fine - è proprio questo il limite del nuovo lavoro di Fincher.
Gone girl è principalmente la storia di due persone, quella di Nick (Ben Affleck) ed Amy (Rosamund Pike), che si sono innamorati, sposati e poi trasferiti da New York al Missouri per stare vicini alla madre morente di lui. Il racconto inizia quando Amy scompare nel giorno dell'anniversario del loro matrimonio. Quando si capisce che la sparizione è l'esito di un evento traumatico i sospetti cominciano a concentrarsi sul marito Nick, man mano che viene fuori l'immagine di un matrimonio ormai all'ultimo stadio. Ma non tutto è come appare.
Nel film di Fincher c'è sicuramente un'amara riflessione sul matrimonio e su certe sue inevitabili conseguenze. C'è anche una "straordinaria" protagonista femminile che è il vero motore dell'intero ordito narrativo, "the amazing Amy" (e chi vedrà il film capirà il riferimento), una donna brillante, simpatica e intelligente, capace di manipolare le persone e confezionare verità e soprattutto percezioni della verità.
Dal mio punto di vista, però, il cuore del film sta nella contrapposizione e nel confronto tra la realtà e la sua rappresentazione. L'estremizzazione del personaggio di Amy (decisamente sopra le righe e verso la fine del film non del tutto realistico) serve a rendere palese che la narrazione di sé è un'arma potentissima che può addomesticare la realtà agli occhi del mondo esterno. Fincher sembra volerci comunicare che la possibilità di ricostruire la realtà come ci piacerebbe - cosa che l'uomo ha sempre fatto attraverso la parola scritta e orale (e che nel film è in qualche modo rappresentata dai racconti per bambini scritti dalla madre di Amy ispirandosi alla figlia) - è stata potentemente amplificata dai media, quelli tradizionali ovviamente (la televisione, la radio ecc.), ma ancora di più quelli di nuova generazione che la rete ci mette a disposizione. Un uso sapiente e spietato di questi strumenti è in grado di manipolare le coscienze, di suscitare reazioni, di produrre convincimenti in buona parte determinati da suggestioni emotive.
Nessuno può sottrarsi alla spettacolarizzazione delle esistenze e alla loro riscrittura ad uso e consumo di un pubblico che è affamato di storie. Non a caso - e sempre più spesso - non è alla nostra coscienza e al nostro privato che dobbiamo rendere conto, bensì a un intorno sempre più ampio, a quei veri e propri fan e seguaci delle nostre vite cui noi stessi ci siamo volontariamente dati in pasto.
Il confine tra i personaggi pubblici e le persone "comuni" si fa sempre più labile, così come il confine tra la sfera pubblica e quella privata. La costruzione della propria immagine pubblica - molto spesso a scapito della verità - è ormai uno sport mondiale.
Mi è tornato in mente l'esperimento di una ragazza che quest'estate ha costruito attraverso Facebook una finta vacanza in Thailandia, Cambogia e Laos, ma in realtà non si è mai mossa da casa, ingannando praticamente tutti.
C'è molto da riflettere.
Voto: 4/5
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