Nei 3/4 giorni in cui ci fermiamo nella zona di Toroni (qui la prima puntata del resoconto di viaggio) i nostri posti del cuore per fare il bagno sono una spiaggia di ciottoli dopo Aretes (di cui non sappiamo il nome, ma dove non c'è nessuno e possiamo costruire il nostro primo tepee), quella di Azapico (che ha alle spalle delle belle casette abitate da greci ricchi: esistono anche quelli!), quella di Toroni (che - anche se abbastanza affollata e piuttosto vicina alla strada - ha un mare davvero molto bello), quella di Klimataria (nella bellissima baia di Sykia) ed anche quella di Kalamitsi con l'isoletta davanti (anche se è parecchio affollata).
Sul fronte gastronomico ci resta un ottimo ricordo della cena alla taverna "Tzitzikas" a Porto Koufo (direi meglio del più affollato "O Psaras") e sulla spiaggia di Pigadaki (nella baia di Sykia) la taverna "To limanaki" (dove infatti torniamo due volte, perché l'atmosfera è familiare e il pesce è buonissimo). Il plurititolato "5 steps on the sand" è buono, ma caro e forse un po' sopravvalutato. Da segnalare anche la pasticceria Yannis di Toroni, dove compriamo una buonissima bougatza, una pasta sfoglia ripiena, dolce o salata.
La nostra tappa successiva ci porta a esplorare la costa orientale di Sithonia. Passiamo attraverso Sarti e arriviamo fino a Vourvourou. Quest'ultima si presenta molto più elegante e curata di quanto abbiamo visto fin qui, ma di un posto libero dove dormire non c'è neppure l'ombra. Così torniamo a Sarti e dopo ore e ore di giri e telefonate, quando stiamo per rassegnarci a dormire in macchina, troviamo posto al Vergina Pension, un alberghetto gestito da due fratelli greci che dopo aver lavorato in Germania sono tornati in Grecia e hanno investito i loro soldi in questo posto, che si rivela molto piacevole.
Durante i giorni di permanenza a Sarti, continuiamo le bostre esplorazioni di spiagge. Stiamo splendidamente nella spiaggia di Valti (sempre nella zona di Sykia) dove c'è una meravigliosa atmosfera rilassante e un mare molto bello. Ovviamente ci innamoriamo della baia di Kavourotripes dove c'è la famosa Orange Beach e dove gli scogli sono stati scolpiti a rappresentare miti greci e figure umane e animali. Tra la bellissima pineta e un incredibile colore del mare sembra di stare in paradiso. Certo il campeggio selvaggio e la quantità di gente non permettono di godere appieno della meraviglia di questo posto, dove infatti torneremo un tardo pomeriggio per vederlo un po' più deserto. Belle anche la spiaggia di Koutloumousiou, preceduta dal camping La Cara, e le calette prima di Karidi beach (andando verso Vorvourou). Noi ci fermiamo in una che probabilmente è Fava Beach, dove un rapido cambiamento del tempo mi permette di fare delle foto bellissime!
Le serate a Sarti sono abbastanza deliranti. Al centro del paese sembra di stare a Stazione Termini durante l'ora di punta, in una costante atmosfera da sagra paesana. Diciamo che va bene, se presa a piccole dosi. Comunque la taverna "Kivotos" (Arche Noah) è buona, così come è eccellente il giros pita che mangiamo da Avlogyros una sera in cui volevamo stare leggere dopo l'aperitivo casalingo e abbiamo mangiato nell'ordine mezzo litro di vino con le olive del contadino, una crepe alla nutella e un giros pita appunto ;-)
Questa costa resta memorabile anche per la vista sul maestoso Monte Athos che domina la scena quasi su tutte le spiagge.
Mentre andiamo via (abbiamo deciso di fare un giro alla terza gamba, Monte Athos appunto, dove però si può arrivare solo fino alla città di Ouranopoli perché oltre ci possono entrare solo gli uomini e comunque facendo una trafila burocratica pazzesca) scopriamo la meravigliosa spiaggetta dal fondale basso prima di Ormos Panagias dove non possiamo non fermarci per un bagno.
Sulla strada per Ierissos compriamo del formaggio di capra in un caseificio vincitore di un premio per il più grande formaggio di capra mai realizzato e poi facciamo un tuffo (letteralmente, perché qui c'è un piccolo molo che lo consente) alla spiaggia del paese (carina!). Segue visita a un capannone, dove un signore costruisce barche, e poi gita fino al cartello di interdizione all'accesso nella zona dei monasteri del Monte Athos. Paesaggi bellissimi. Silenzio irreale.
Gli ultimi due giorni torniamo a Potamos, vicino Epanomi, e un giorno in cui il mare davanti a noi è sporco e non ci attira facciamo una lunga passeggiata fino al faro, nel punto in cui la spiaggia di Potamos si incontra a triangolo con quella di Palouria (la cosiddetta spiaggia di Thessaloniki). In questa lingua di terra dove due mari si incontrano creando strane correnti e strani effetti ci capitano diverse cose bellissime: incontriamo l'architetto Dimitri che tutti i giorni viene qui da Thessaloniki con il suo ombrellone (e ci racconta in un italiano perfetto, imparato a Torino ai tempi dell'università, della sua vita avventurosa), ammiriamo il monte Olimpo davanti a noi (lo vedremo anche al tramonto dal ristorante "Agnanti" dove Dimitri ci consiglia di andare) e vediamo due delfini che giocano e saltano in mare. L'acqua è bellissima. Il primo giorno la festa viene rovinata da centinaia di meduse bianche che ci fanno scappare dall'acqua, salvo poi renderci conto che sono meduse inoffensive e persino i bambini stanno facendo il bagno. Il secondo giorno l'acqua è a dir poco da urlo.
Non poteva esserci modo migliore per chiudere la nostra splendida vacanza!
mercoledì 24 settembre 2014
lunedì 22 settembre 2014
Si alza il vento
Quello che parrebbe essere l'ultimo film di Hayao Miyazaki (speriamo di no!) è forse il più adulto e giapponese tra i numerosi del maestro.
Adulto non perché i precedenti fossero film per bambini (anzi!), ma perché questo ha il ritmo e la struttura narrativa di un vero melodramma (per quanto animato) e gli inserti che potrebbero catturare la curiosità di un bambino mi paiono davvero pochi (oltre al fatto che il film dura più di due ore!).
Giapponese perché è ambientato in un'epoca storica importante per il Giappone (gli anni '20, segnati dal forte terremoto che distrusse la città di Tokio e della recessione economica prima del rilancio industriale del paese) e perché è profondamente intriso della cultura e dei valori giapponesi (una fortissima etica del lavoro, la dignità personale, la levità dei rapporti interpersonali, il rispetto verso gli altri).
Complessivamente il film sembra distaccarsi dai suoi precedenti, per quanto non manchino al suo interno i temi cari al regista e che attraversano tutta la sua produzione: la potenza della natura, la vocazione umana all'autodistruzione, il sogno. Volendolo collocare, personalmente lo definirei come il punto di incontro tra il melodramma de Il mio vicino Totoro e il desiderio di libertà e avventura di Porco rosso (quest'ultimo - tra l'altro - anch'esso pervaso dalla grande passione di Miyazaki per aerei e macchine volanti).
Jiro Horikoshi, il protagonista nonché alter ego di Miyazaki, è affascinato dagli aerei. Fin dall'infanzia il suo sogno è progettarli e questo sogno sarà portato avanti con straordinaria dedizione fino all'età adulta, quando - lavorando presso l'azienda Mitsubishi - progetterà e farà realizzare un aereo innovativo, leggero e veloce, che - suo malgrado - sarà utilizzato come aereo militare per i kamikaze. Nel mentre Jiro si innamora e sposa una giovane ragazza di Tokio, dal destino sfortunato.
Dal mio punto di vista, il film si nutre di contraddizioni. Da un lato, la costanza e la pervicacia con cui Jiro persegue ostinatamente la realizzazione del proprio sogno, dall'altro l'incostanza e la fuggevolezza del vento che spinge a non lasciarsi sfuggire il momento ("Le vent se lève; il faut tenter de vivre" è il mantra - tratto da Paul Valéry - che accompagna l'intera storia).
Da un lato il processo creativo messo a servizio della bellezza e dell'evoluzione umana, dall'altro l'uso distorto dei mezzi e lo stravolgimento delle relative finalità.
Da un lato la vitalità straordinaria con cui Jiro affronta le sfide e le difficoltà della vita per mettere a frutto quel "decennio" nel quale dare il suo contributo e lasciare il segno, dall'altro la malinconia di un destino che va al di là della nostra volontà.
So che è piuttosto scontato, ma Si alza il vento assomiglia un po' a un testamento, che fa risplendere ancora di più tutte le straordinarie perle che Miyazaki ci ha regalato durante la sua carriera.
Voto: 3,5/5
Adulto non perché i precedenti fossero film per bambini (anzi!), ma perché questo ha il ritmo e la struttura narrativa di un vero melodramma (per quanto animato) e gli inserti che potrebbero catturare la curiosità di un bambino mi paiono davvero pochi (oltre al fatto che il film dura più di due ore!).
Giapponese perché è ambientato in un'epoca storica importante per il Giappone (gli anni '20, segnati dal forte terremoto che distrusse la città di Tokio e della recessione economica prima del rilancio industriale del paese) e perché è profondamente intriso della cultura e dei valori giapponesi (una fortissima etica del lavoro, la dignità personale, la levità dei rapporti interpersonali, il rispetto verso gli altri).
Complessivamente il film sembra distaccarsi dai suoi precedenti, per quanto non manchino al suo interno i temi cari al regista e che attraversano tutta la sua produzione: la potenza della natura, la vocazione umana all'autodistruzione, il sogno. Volendolo collocare, personalmente lo definirei come il punto di incontro tra il melodramma de Il mio vicino Totoro e il desiderio di libertà e avventura di Porco rosso (quest'ultimo - tra l'altro - anch'esso pervaso dalla grande passione di Miyazaki per aerei e macchine volanti).
Jiro Horikoshi, il protagonista nonché alter ego di Miyazaki, è affascinato dagli aerei. Fin dall'infanzia il suo sogno è progettarli e questo sogno sarà portato avanti con straordinaria dedizione fino all'età adulta, quando - lavorando presso l'azienda Mitsubishi - progetterà e farà realizzare un aereo innovativo, leggero e veloce, che - suo malgrado - sarà utilizzato come aereo militare per i kamikaze. Nel mentre Jiro si innamora e sposa una giovane ragazza di Tokio, dal destino sfortunato.
Dal mio punto di vista, il film si nutre di contraddizioni. Da un lato, la costanza e la pervicacia con cui Jiro persegue ostinatamente la realizzazione del proprio sogno, dall'altro l'incostanza e la fuggevolezza del vento che spinge a non lasciarsi sfuggire il momento ("Le vent se lève; il faut tenter de vivre" è il mantra - tratto da Paul Valéry - che accompagna l'intera storia).
Da un lato il processo creativo messo a servizio della bellezza e dell'evoluzione umana, dall'altro l'uso distorto dei mezzi e lo stravolgimento delle relative finalità.
Da un lato la vitalità straordinaria con cui Jiro affronta le sfide e le difficoltà della vita per mettere a frutto quel "decennio" nel quale dare il suo contributo e lasciare il segno, dall'altro la malinconia di un destino che va al di là della nostra volontà.
So che è piuttosto scontato, ma Si alza il vento assomiglia un po' a un testamento, che fa risplendere ancora di più tutte le straordinarie perle che Miyazaki ci ha regalato durante la sua carriera.
Voto: 3,5/5
mercoledì 17 settembre 2014
Molto rumore per nulla, Silvano Toti Globe Theatre, Roma, 7 settembre 2014
Una delle mie tante prime volte a Roma. Quella al Silvano Toti Globe Theatre di Villa Borghese.
Innanzitutto, va detto che il posto ha di suo un fascino tutto particolare. Si tratta di un teatro di legno realizzato nello stile dei teatri elisabettiani e non a caso interamente dedicato alla rappresentazione delle opere di Shakespeare.
Il palco è organizzato su due livelli, e il pubblico si divide tra le gallerie e il parterre, dove in questo caso il nome corrisponde alla sostanza, visto che qui ci si siede per terra.
Decido di iniziare il mio rapporto con il Globe Theatre da una commedia frizzante qual è Molto rumore per nulla. In realtà ci arrivo avendo in mente la trama de La dodicesima notte, salvo poi accorgermi invece di non ricordare affatto la trama di questa commedia. Tra l'altro, come spesso accade per le commedie shakespeariane, tutte giocate su equivoci e ribaltamenti, non è una trama semplice da riassumere.
Il principe Pedro e le sue truppe di ritorno dalla guerra si fermano a casa del signor Leonato, che ha una figlia di nome Ero e una nipote bisbetica di nome Beatrice.
Mentre il conte Claudio si innamora di Ero, Beatrice e il duca Benedetto battibeccano, entrambi convinti che il matrimonio sia una trappola nella quale loro non cadranno.
Il tutto sarà complicato dall'intervento del fratello del principe, don Juan, che vuole creare zizzania e mettere in cattiva luce suo fratello.
Alla fine per una serie di fortunate coincidenze quella che poteva diventare una tragedia si risolve in un esito positivo per tutti, persino per Beatrice e Benedetto.
La commedia di per se stessa è allegra e gioiosa, ma devo dire che la compagnia che la porta in scena al Globe per la regia di Loredana Scaramella la rende ancora più godibile, accentuandone gli elementi caricaturali e i toni sopra le righe. L'ambientazione salentina (che sostituisce quella originaria siciliana) colora ulteriormente l'atmosfera sulle note della pizzica e della musica popolare.
L'effetto è in parte straniante, ma Shakespeare si presta a tanto, proprio grazie alla sua statura e immortalità. Bella anche la scenografia, minimale, ma molto suggestiva.
Bravi gli attori. Ovazione per il commissario sciroccato dal forte accento napoletano (Carlo Ragone).
Al Globe ci tornerò. Magari questa volta per una tragedia.
Voto: 3,5/5
Innanzitutto, va detto che il posto ha di suo un fascino tutto particolare. Si tratta di un teatro di legno realizzato nello stile dei teatri elisabettiani e non a caso interamente dedicato alla rappresentazione delle opere di Shakespeare.
Il palco è organizzato su due livelli, e il pubblico si divide tra le gallerie e il parterre, dove in questo caso il nome corrisponde alla sostanza, visto che qui ci si siede per terra.
Decido di iniziare il mio rapporto con il Globe Theatre da una commedia frizzante qual è Molto rumore per nulla. In realtà ci arrivo avendo in mente la trama de La dodicesima notte, salvo poi accorgermi invece di non ricordare affatto la trama di questa commedia. Tra l'altro, come spesso accade per le commedie shakespeariane, tutte giocate su equivoci e ribaltamenti, non è una trama semplice da riassumere.
Il principe Pedro e le sue truppe di ritorno dalla guerra si fermano a casa del signor Leonato, che ha una figlia di nome Ero e una nipote bisbetica di nome Beatrice.
Mentre il conte Claudio si innamora di Ero, Beatrice e il duca Benedetto battibeccano, entrambi convinti che il matrimonio sia una trappola nella quale loro non cadranno.
Il tutto sarà complicato dall'intervento del fratello del principe, don Juan, che vuole creare zizzania e mettere in cattiva luce suo fratello.
Alla fine per una serie di fortunate coincidenze quella che poteva diventare una tragedia si risolve in un esito positivo per tutti, persino per Beatrice e Benedetto.
La commedia di per se stessa è allegra e gioiosa, ma devo dire che la compagnia che la porta in scena al Globe per la regia di Loredana Scaramella la rende ancora più godibile, accentuandone gli elementi caricaturali e i toni sopra le righe. L'ambientazione salentina (che sostituisce quella originaria siciliana) colora ulteriormente l'atmosfera sulle note della pizzica e della musica popolare.
L'effetto è in parte straniante, ma Shakespeare si presta a tanto, proprio grazie alla sua statura e immortalità. Bella anche la scenografia, minimale, ma molto suggestiva.
Bravi gli attori. Ovazione per il commissario sciroccato dal forte accento napoletano (Carlo Ragone).
Al Globe ci tornerò. Magari questa volta per una tragedia.
Voto: 3,5/5
lunedì 15 settembre 2014
I nostri ragazzi
Il film mi è piaciuto; e il finale è un colpo di genio (e non posso dire altro). È bene che io lo premetta perché non si pensi il contrario.
L’adattamento della sceneggiatura, ispirata al romanzo dello scrittore olandese Herman Koch, La cena, funziona adeguatamente. La regia di Ivano De Matteo è raffinata ed efficace. Roma fa da perfetta scenografia a questa storia. Gli attori assecondano complessivamente bene le ondulazioni emotive del racconto.
Eppure in tutti questi aspetti c’è anche qualcosa di poco convincente.
Nella sceneggiatura appare un po’ debole la parte che riguarda i personaggi dei ragazzi, tutto sommato un po’ superficiale e un po’ troppo schiava della vulgata, così come sullo schermo appare in qualche modo poco fluida e dunque poco comprensibile l’evoluzione del personaggio di Paolo (Luigi Lo Cascio), di cui si comprende il tormento interiore senza poterlo realmente leggere.
La regia risulta un po’ troppo innamorata di se stessa nei piani sequenza, in alcune inquadrature un po’ troppo insistite e nelle messe a fuoco lentissime, quasi interminabili.
Roma è vera e in qualche modo finta al contempo, quasi da risultare parzialmente estranea a chi come me ci vive tutti i giorni.
Del gruppo di attori, selezionato tra i migliori della loro generazione (Alessandro Gassmann e Barbora Bobulova, Luigi Lo Cascio e Giovanna Mezzogiorno), questi ultimi non riescono a togliere quella sensazione di un po’ forzato che probabilmente nasce da qualche sbavatura nella sceneggiatura.
Tutto ciò detto, il tentativo di indagare le trame oscure di quella specie di doppia morale che i genitori applicano agli estranei e ai loro figli è interessante e piuttosto inquietante, e si trascina dietro tutta una serie di altri interrogativi che in qualche modo chiamano in causa ognuno di noi: la superficialità con cui siamo pronti a emettere giudizi su vicende che non conosciamo, la difficoltà di scegliere da che parte stare, le interferenze emotive che condizionano le nostre scelte.
Si esce dal cinema piuttosto turbati e un po’ disorientati.
Nota di colore: curioso arrivare al cinema e vedere sedersi alla fila davanti Margherita Buy, abituati a vederla dall’altro lato dello schermo!
Voto: 3/5
L’adattamento della sceneggiatura, ispirata al romanzo dello scrittore olandese Herman Koch, La cena, funziona adeguatamente. La regia di Ivano De Matteo è raffinata ed efficace. Roma fa da perfetta scenografia a questa storia. Gli attori assecondano complessivamente bene le ondulazioni emotive del racconto.
Eppure in tutti questi aspetti c’è anche qualcosa di poco convincente.
Nella sceneggiatura appare un po’ debole la parte che riguarda i personaggi dei ragazzi, tutto sommato un po’ superficiale e un po’ troppo schiava della vulgata, così come sullo schermo appare in qualche modo poco fluida e dunque poco comprensibile l’evoluzione del personaggio di Paolo (Luigi Lo Cascio), di cui si comprende il tormento interiore senza poterlo realmente leggere.
La regia risulta un po’ troppo innamorata di se stessa nei piani sequenza, in alcune inquadrature un po’ troppo insistite e nelle messe a fuoco lentissime, quasi interminabili.
Roma è vera e in qualche modo finta al contempo, quasi da risultare parzialmente estranea a chi come me ci vive tutti i giorni.
Del gruppo di attori, selezionato tra i migliori della loro generazione (Alessandro Gassmann e Barbora Bobulova, Luigi Lo Cascio e Giovanna Mezzogiorno), questi ultimi non riescono a togliere quella sensazione di un po’ forzato che probabilmente nasce da qualche sbavatura nella sceneggiatura.
Tutto ciò detto, il tentativo di indagare le trame oscure di quella specie di doppia morale che i genitori applicano agli estranei e ai loro figli è interessante e piuttosto inquietante, e si trascina dietro tutta una serie di altri interrogativi che in qualche modo chiamano in causa ognuno di noi: la superficialità con cui siamo pronti a emettere giudizi su vicende che non conosciamo, la difficoltà di scegliere da che parte stare, le interferenze emotive che condizionano le nostre scelte.
Si esce dal cinema piuttosto turbati e un po’ disorientati.
Nota di colore: curioso arrivare al cinema e vedere sedersi alla fila davanti Margherita Buy, abituati a vederla dall’altro lato dello schermo!
Voto: 3/5
venerdì 12 settembre 2014
La Grecia non è un'isola - I parte
Di solito quando si pensa alle vacanze al mare in Grecia si pensa alle isole. E anch'io fin qui l'avevo pensata così. Invece vi posso dire che in Grecia non ci sono solo le isole ;-)
Quest'anno, su suggerimento di A., io e C. abbiamo esplorato la penisola Calcidica e in particolare la seconda delle tre gambe che la compongono, Sithonia.
Volo Easyjet su Thessaloniki, dove dormiamo al Little Big House, un ostello/albergo delizioso nel cuore della città vecchia (Ano Poli), la parte decisamente più bella della città a quanto abbiamo visto ed anche quella dove si respira un'aria di maggiore fermento e movimento da diversi punti di vista, anche gastronomico. A pochi passi dal nostro ostello ottima la taverna Igglis e non molto lontano la taverna Tsinari, dove ceniamo la nostra prima sera greca.
La passeggiata del giorno dopo ci metterà sotto gli occhi non solo una città fortemente cementificata (quasi senza verde), ma anche una città (la seconda più grande della Grecia) fortemente segnata dalla crisi economica: intere strade con negozi chiusi in vendita o in affitto e una generale aria di dismissione. Che tristezza e che enorme dispiacere!
Di ciò che abbiamo potuto vedere, il porto è la zona dove - mi sembra - sono stati fatti dei tentativi di creare un polo culturale. E infatti proprio al porto vediamo una bella mostra della Photo Biennale al Museum of Photography.
A Thessaloniki incontriamo E., un'amica greca conosciuta in una vacanza precedente che, come un ciclone, ci travolge con la sua vitalità. Ci accompagna all'aeroporto a ritirare la macchina e ci dà un sacco di consigli per i giorni successivi!
Con la nostra Peugeot 107 bianca facciamo la prima tappa a Epanomi, o meglio alla spiaggia di Potamos. Nonostante E. avesse disapprovato questa nostra scelta, noi ci troviamo benissimo ad Akti Retzika (a parte la musica del bar sottostante fino a tarda notte) e facciamo un bellissimo primo bagno sulla spiaggia a pochi metri dall'albergo/camping, tanto che a distanza di un paio di giorni decideremo di prenotare le ultime due notti nello stesso posto.
Eccoci dunque alla volta di Sithonia. L'idea iniziale è di fermarsi per i primi giorni nella zona di Nikiti (perché abbiamo immaginato un viaggio in senso antiorario con 3/4 tappe), ma quando ci arriviamo non ci attira molto e dunque proseguiamo oltre. Ci inoltriamo nella zona di Castri, a sud di Nikiti dove ci sono delle case molto belle e una vista mozzafiato ma non troviamo nulla di libero e dunque proseguiamo.
In realtà ci rendiamo conto a poco a poco che non sarà facile trovare un appartamentino o una stanza libera e così dopo un tot di soste e quando siamo praticamente arrivate a Neos Marmaras ci fermiamo ad Aleka Studios, un posto assurdo (parzialmente non finito), gestito da Spiros (un vecchietto con stampella che dopo una vita in Germania è tornato a casa e ha investito i soldi in questa casa, lasciando a metà i lavori quando i soldi sono finiti). La casa ha però una posizione invidiabile; è collocata sul fianco di una collina con una vista strepitosa sul mare e sul tramonto.
La spiaggia sotto di noi, molto bella, è presumibilmente quella di Mitari ed è la nostra meta preferita per il bagno serale e mattutino!
La serata a Neos Marmaras ci fa capire che questa zona non solo è meta privilegiata delle vacanze di slavi e popoli dei paesi dell'Est Europa, ma che bulgari, russi, serbi e albanesi - che certamente non stanno vivendo la crisi economica della Grecia - stanno anche comprando molte case ed esercizi commerciali qui. Purtroppo. Perché non si può dire che al momento stiano portando buon gusto e bellezza.
Per fortuna l'ambiente naturale è bellissimo (Sithonia è una penisola verdissima e - a parte alcuni tratti di costa - per il resto è selvaggia e in buona parte disabitata nell'interno). Così nei giorni in cui soggiorniamo ad Aleka Studios - durante i nostri giri esplorativi - incontriamo e ci fermiamo in spiagge stupende e tutto sommato poco affollate per essere in pieno agosto (quelle più famose e più affollate le evitiamo accuratamente). Degne di nota - secondo noi - in particolare Elia Beach e Koviou Beach (con colori dell'acqua davvero spettacolari).
Dopo due notti ci spostiamo verso sud rimanendo sempre sulla costa ovest (non senza aver prima visitato Parthenonas, un paesino nell'interno che è un vero gioiellino!), ma di nuovo si ripete la situazione già vissuta. Dovunque chiediamo è pieno e non troviamo posto da nessuna parte, e così passiamo attraverso Toroni, Porto Koufo e Kalamitsi senza successo. Alla fine torniando indietro a Toroni troviamo posto in una casa piuttosto cadente (la proprietaria la chiama "la casa vecchia"!), gestita probabilmente da albanesi, ma almeno è grande e costa poc, e soprattutto anche stavolta abbiamo scampato la notte in macchina! ;-)
A presto con la seconda puntata del viaggio!
Quest'anno, su suggerimento di A., io e C. abbiamo esplorato la penisola Calcidica e in particolare la seconda delle tre gambe che la compongono, Sithonia.
Volo Easyjet su Thessaloniki, dove dormiamo al Little Big House, un ostello/albergo delizioso nel cuore della città vecchia (Ano Poli), la parte decisamente più bella della città a quanto abbiamo visto ed anche quella dove si respira un'aria di maggiore fermento e movimento da diversi punti di vista, anche gastronomico. A pochi passi dal nostro ostello ottima la taverna Igglis e non molto lontano la taverna Tsinari, dove ceniamo la nostra prima sera greca.
La passeggiata del giorno dopo ci metterà sotto gli occhi non solo una città fortemente cementificata (quasi senza verde), ma anche una città (la seconda più grande della Grecia) fortemente segnata dalla crisi economica: intere strade con negozi chiusi in vendita o in affitto e una generale aria di dismissione. Che tristezza e che enorme dispiacere!
Di ciò che abbiamo potuto vedere, il porto è la zona dove - mi sembra - sono stati fatti dei tentativi di creare un polo culturale. E infatti proprio al porto vediamo una bella mostra della Photo Biennale al Museum of Photography.
A Thessaloniki incontriamo E., un'amica greca conosciuta in una vacanza precedente che, come un ciclone, ci travolge con la sua vitalità. Ci accompagna all'aeroporto a ritirare la macchina e ci dà un sacco di consigli per i giorni successivi!
Con la nostra Peugeot 107 bianca facciamo la prima tappa a Epanomi, o meglio alla spiaggia di Potamos. Nonostante E. avesse disapprovato questa nostra scelta, noi ci troviamo benissimo ad Akti Retzika (a parte la musica del bar sottostante fino a tarda notte) e facciamo un bellissimo primo bagno sulla spiaggia a pochi metri dall'albergo/camping, tanto che a distanza di un paio di giorni decideremo di prenotare le ultime due notti nello stesso posto.
Eccoci dunque alla volta di Sithonia. L'idea iniziale è di fermarsi per i primi giorni nella zona di Nikiti (perché abbiamo immaginato un viaggio in senso antiorario con 3/4 tappe), ma quando ci arriviamo non ci attira molto e dunque proseguiamo oltre. Ci inoltriamo nella zona di Castri, a sud di Nikiti dove ci sono delle case molto belle e una vista mozzafiato ma non troviamo nulla di libero e dunque proseguiamo.
In realtà ci rendiamo conto a poco a poco che non sarà facile trovare un appartamentino o una stanza libera e così dopo un tot di soste e quando siamo praticamente arrivate a Neos Marmaras ci fermiamo ad Aleka Studios, un posto assurdo (parzialmente non finito), gestito da Spiros (un vecchietto con stampella che dopo una vita in Germania è tornato a casa e ha investito i soldi in questa casa, lasciando a metà i lavori quando i soldi sono finiti). La casa ha però una posizione invidiabile; è collocata sul fianco di una collina con una vista strepitosa sul mare e sul tramonto.
La spiaggia sotto di noi, molto bella, è presumibilmente quella di Mitari ed è la nostra meta preferita per il bagno serale e mattutino!
La serata a Neos Marmaras ci fa capire che questa zona non solo è meta privilegiata delle vacanze di slavi e popoli dei paesi dell'Est Europa, ma che bulgari, russi, serbi e albanesi - che certamente non stanno vivendo la crisi economica della Grecia - stanno anche comprando molte case ed esercizi commerciali qui. Purtroppo. Perché non si può dire che al momento stiano portando buon gusto e bellezza.
Per fortuna l'ambiente naturale è bellissimo (Sithonia è una penisola verdissima e - a parte alcuni tratti di costa - per il resto è selvaggia e in buona parte disabitata nell'interno). Così nei giorni in cui soggiorniamo ad Aleka Studios - durante i nostri giri esplorativi - incontriamo e ci fermiamo in spiagge stupende e tutto sommato poco affollate per essere in pieno agosto (quelle più famose e più affollate le evitiamo accuratamente). Degne di nota - secondo noi - in particolare Elia Beach e Koviou Beach (con colori dell'acqua davvero spettacolari).
Dopo due notti ci spostiamo verso sud rimanendo sempre sulla costa ovest (non senza aver prima visitato Parthenonas, un paesino nell'interno che è un vero gioiellino!), ma di nuovo si ripete la situazione già vissuta. Dovunque chiediamo è pieno e non troviamo posto da nessuna parte, e così passiamo attraverso Toroni, Porto Koufo e Kalamitsi senza successo. Alla fine torniando indietro a Toroni troviamo posto in una casa piuttosto cadente (la proprietaria la chiama "la casa vecchia"!), gestita probabilmente da albanesi, ma almeno è grande e costa poc, e soprattutto anche stavolta abbiamo scampato la notte in macchina! ;-)
A presto con la seconda puntata del viaggio!
lunedì 8 settembre 2014
Pazza idea (Xenia)
In un mondo cinematografico e letterario in cui proliferano i romanzi di formazione, i coming of age di adolescenti che si affacciano all’età adulta affrontando prove che li fanno crescere, Pazza idea del greco Panos H. Koutras in qualche modo ci propone un racconto in controtendenza.
Dani (Kostas Nikouli) ha 16 anni ed è un ragazzo al contempo cresciuto troppo in fretta e rimasto ancora bambino. Da un lato non fa che succhiare lecca lecca portandosi dietro il suo coniglietto Dido, dall’altro vive liberamente la propria sessualità gay e porta con sé una pistola.
Dall’altro lato, suo fratello Odisseas (Nikos Gelia), che lui chiama Ody e che ha circa due anni in più, già lavora e vive per conto proprio ad Atene, cercando di sbarcare il lunario, ma forse ha perso la spensieratezza e la voglia di giocare che la sua età meriterebbe.
Dani parte in traghetto da Creta, dopo la morte della madre, per raggiungere il fratello ad Atene e convincerlo ad andare insieme a Salonicco con un duplice obiettivo: far partecipare Ody a un talent show per cantanti in cui dovrà cantare una canzone di Patti Pravo e ritrovare il loro padre che li ha abbandonati da piccoli per chiedergli di riconoscerli.
La loro sarà una piccola odissea nella quale i due fratelli, che partono da posizioni molto distanti, da un profondo senso di estraneità tra di loro e con il mondo che li circonda, ritroveranno la loro confidenza e quel patrimonio familiare che li accomuna e che la madre gli ha lasciato in eredità: le canzoni di Patti Pravo e di Raffaella Carrà, le coreografie, l’affetto di Tassos (Aggelos Papadimotriou).
La loro xenia (il loro essere stranieri: sono di nazionalità albanese anche se nati in Grecia) dovrà fare i conti con una società in disfacimento in cui l’accoglienza è in rovina, come l’albergo abbandonato dove i due fratelli trovano rifugio durante il viaggio.
Pazza idea mescola generi e toni diversi, ma mantiene dall’inizio alla fine quella capacità di sdrammatizzare anche i momenti più tragici, grazie alle fughe oniriche, ai siparietti musicali e al “sopra le righe” che lo caratterizzano. Il regista ha certamente imparato la lezione di Almodovar (e forse anche di Ozpetek) – che in qualche momento rivive sullo schermo in salsa greca – e cita il coniglio gigante di Donnie Darko, ma dimostra di essere interprete di un percorso cinematografico del tutto personale e originale.
Certo, in lingua originale sarebbe stato tutto un’altra cosa. E così il senso di continuità con le vacanze appena concluse (e che hanno avuto proprio Salonicco come tappa) sarebbe stato pieno!
Voto: 3,5/5
sabato 6 settembre 2014
La verità sul caso Harry Quebert / Joël Dicker
La verità sul caso Harry Quebert / Joël Dicker; trad. di Vincenzo Vega. Milano: Bompiani, 2013.
Ed eccolo qua, il perfetto libro da leggere durante la vacanza estiva. Di quelli che quando hai finito di leggerli, dopo poco ti accorgi che non sono poi questo gran capolavoro, ma mentre leggi ti tengono incollata alle pagine trascinandoti nel loro mondo e incuriosendoti con la loro capacità di creare aspettative e colpi di scena.
Innanzitutto colpisce che uno scrittore svizzero qual è Joël Dicker ci porti nella provincia americana dei giorni nostri e degli anni Settanta con tale maestria letteraria. Effettivamente le atmosfere potrebbero tranquillamente ricordare quelle di scrittori genuinamente americani. Potere della letteratura!
E del resto proprio con la letteratura il nostro scrittore gioca la partita principale di questo libro.
Prima di tutto perché protagonisti sono due scrittori, Marcus Goldman, che è alle prese con il blocco dello scrittore dopo aver scritto un primo libro di successo, e Harry Quebert, il suo maestro e mentore, nonché principale indiziato dell’omicidio di Nola Kellergan avvenuto nel 1975 ma il cui caso viene riaperto dopo che i resti del suo corpo sono rinvenuti nel giardino della casa di Quebert.
In secondo luogo perché molte parti del romanzo sono presentate come estratti del libro che Goldman sta scrivendo, nonché del romanzo che ha reso famoso Quebert, Le origini del male.
Infine, ciascun capitolo (per un totale di 31, numerati al contrario) è introdotto da un consiglio sulla scrittura dato da Quebert al giovane Marcus subito dopo l’università.
E così il lettore si trova imprigionato in questo gioco meta letterario durante il quale sa benissimo che lo scrittore gli sta costellando il percorso di indizi a vari livelli, ma sa anche di essere in una posizione di inferiorità, in questo condividendo la sorte di Marcus Goldman che a sua volta sta cercando di ricostruire il puzzle che spiegherà la vicenda di Nola Kellergan e forse dell’intera cittadina di Aurora dove si sono svolti gli avvenimenti.
Alla fine si ha l’impressione che l’autore si innamori troppo della sua storia e calchi un po’ troppo la mano con i colpi di scena e le ricostruzioni rivelatorie, ma la suspence regge fino in fondo.
Decisamente consigliato a chi vuole una lettura appassionante e avvincente come una serie tv all’ombra dell’ombrellone o sulla veranda di casa.
Voto: 3,5/5
giovedì 4 settembre 2014
Tra due cuori: Alice, Charlotte & Renaud / Bastien Vivès
Tra due cuori: Alice, Charlotte & Renaud / Bastien Vivès; trad. di Raffaella Garruccio. Bologna: The Box Edizioni, 2014.
Si può dire che ormai punto a possedere (e ovviamente anche a leggere) la bibliografia completa di Bastien Vivès, anche perché da quando questo ragazzone francese ha conquistato il pubblico italiano con lavori quali Il gusto del cloro e Polina gli editori italiani hanno capito che pubblicare in italiano anche i suoi lavori precedenti sarebbe stato molto gradito.
E dunque possiamo ora anche leggere uno dei primi graphic novel (forse il primo in assoluto: è del 2007) di Bastien Vivès, che – come spesso accade nelle sue opere – racconta una storia piccola ma invece complessa sul piano dei sentimenti e delle emozioni.
Charlotte e Alice sono molto amiche. Charlotte è molto bella ed estroversa, solare e sostanzialmente sicura di sé. Alice è una ragazza di buona famiglia, ha tutto quello che si può desiderare dalla vita, ma non è felice e passa da un fidanzato all’altro, alla ricerca di un uomo che la ami veramente e non sia solo interessato al suo corpo.
Renaud si imbatte apparentemente per caso sulla loro strada numerose volte al punto che Alice ne è quasi infastidita, mentre Charlotte finisce per trascinare il ragazzo alle loro feste e nei loro fine settimana fuori Parigi.
Renaud è certamente un ragazzo diverso da quelli che Alice e Charlotte frequentano abitualmente. È riservato, tendenzialmente taciturno, osservatore, legge di continuo e ascolta musica un po’ demodé. Per questo eserciterà su entrambe le ragazze un’attrazione forte, sebbene declinata in maniere diverse, e suscitando reazioni differenti e in parte inaspettate anche da parte del ragazzo.
Ancora una volta Vivès ci tiene a ricordarci che le relazioni sono sfuggenti e imprevedibili, che siamo tutti nudi e senza pelle di fronte ai nostri simili ogni volta che siamo coinvolti emotivamente. Non sappiamo cosa accadrà di Alice, di Charlotte e di Renaud. Numerose domande restano sospese e senza risposta; d’altra parte, tutta la nostra quotidianità si colora continuamente di interrogativi sul nostro futuro destinati a rimanere tali finché la prova della realtà non offra esiti che nella maggior parte dei casi sono solo tangenti ai nostri desideri.
I personaggi di Bastien Vivès sono sempre profondamente sinceri e veri e per questo non sono né banali né consolatori. Ma – per quanto mi riguarda – è proprio per questo che amo i suoi lavori, graficamente e narrativamente molto belli ed empatici.
Ci vuole sensibilità, molta, per produrre graphic novel come quelli di Vivès. Certo, in questi primi lavori si percepisce qualcosa di acerbo, la sensazione che siamo di fronte ai primi abbozzi di quelle che diventeranno le caratteristiche qualificanti di questo fumettista. Eppure, le sue storie arrivano al cuore, silenziose e potenti.
Voto: 3,5/5
Si può dire che ormai punto a possedere (e ovviamente anche a leggere) la bibliografia completa di Bastien Vivès, anche perché da quando questo ragazzone francese ha conquistato il pubblico italiano con lavori quali Il gusto del cloro e Polina gli editori italiani hanno capito che pubblicare in italiano anche i suoi lavori precedenti sarebbe stato molto gradito.
E dunque possiamo ora anche leggere uno dei primi graphic novel (forse il primo in assoluto: è del 2007) di Bastien Vivès, che – come spesso accade nelle sue opere – racconta una storia piccola ma invece complessa sul piano dei sentimenti e delle emozioni.
Charlotte e Alice sono molto amiche. Charlotte è molto bella ed estroversa, solare e sostanzialmente sicura di sé. Alice è una ragazza di buona famiglia, ha tutto quello che si può desiderare dalla vita, ma non è felice e passa da un fidanzato all’altro, alla ricerca di un uomo che la ami veramente e non sia solo interessato al suo corpo.
Renaud si imbatte apparentemente per caso sulla loro strada numerose volte al punto che Alice ne è quasi infastidita, mentre Charlotte finisce per trascinare il ragazzo alle loro feste e nei loro fine settimana fuori Parigi.
Renaud è certamente un ragazzo diverso da quelli che Alice e Charlotte frequentano abitualmente. È riservato, tendenzialmente taciturno, osservatore, legge di continuo e ascolta musica un po’ demodé. Per questo eserciterà su entrambe le ragazze un’attrazione forte, sebbene declinata in maniere diverse, e suscitando reazioni differenti e in parte inaspettate anche da parte del ragazzo.
Ancora una volta Vivès ci tiene a ricordarci che le relazioni sono sfuggenti e imprevedibili, che siamo tutti nudi e senza pelle di fronte ai nostri simili ogni volta che siamo coinvolti emotivamente. Non sappiamo cosa accadrà di Alice, di Charlotte e di Renaud. Numerose domande restano sospese e senza risposta; d’altra parte, tutta la nostra quotidianità si colora continuamente di interrogativi sul nostro futuro destinati a rimanere tali finché la prova della realtà non offra esiti che nella maggior parte dei casi sono solo tangenti ai nostri desideri.
I personaggi di Bastien Vivès sono sempre profondamente sinceri e veri e per questo non sono né banali né consolatori. Ma – per quanto mi riguarda – è proprio per questo che amo i suoi lavori, graficamente e narrativamente molto belli ed empatici.
Ci vuole sensibilità, molta, per produrre graphic novel come quelli di Vivès. Certo, in questi primi lavori si percepisce qualcosa di acerbo, la sensazione che siamo di fronte ai primi abbozzi di quelle che diventeranno le caratteristiche qualificanti di questo fumettista. Eppure, le sue storie arrivano al cuore, silenziose e potenti.
Voto: 3,5/5
martedì 2 settembre 2014
La nostalgia felice / Amélie Nothomb
La nostalgia felice / Amélie Nothomb; trad. di Monica Capuani. Roma: Voland, 2013.
La lettura dei libri di Amélie Nothomb può provocare le reazioni più disparate da persona a persona. Avevo comprato questo libro, La nostalgia felice, sulla base di un passaparola che mi aveva riportato il giudizio di lettori rimasti affascinati dal racconto, letto tutto d’un fiato senza mai potersi staccare dalle sue pagine.
Ebbene, non posso dire che la mia reazione sia stata questa. Anzi, dirò di più, praticamente una situazione del genere non mi è mai capitata con i libri di questa scrittrice, nonostante abbia amato moltissimo alcuni di essi, in particolare Metafisica dei tubi e Sabotaggio d’amore. Non posso però dire che quella della Nothomb sia una scrittura giocata principalmente sulla componente emotiva, tanto forte è al loro interno l’analisi – diciamo così – intellettualistica e - per questo - a volte cinica degli avvenimenti.
Probabilmente in questo caso molto ha contato anche il fatto che La nostalgia felice racconta del ritorno di Amélie in Giappone dopo moltissimi anni, allo scopo di ripercorrere le tappe della sua infanzia e della sua giovinezza, quelle in buona parte raccontate nei suoi romanzi precedenti, in particolare in Metafisica dei tubi, Stupore e tremori e Né di Adamo né di Eva. A me mancano all’appello questi ultimi due che non ho ancora letto, e forse questo mi ha almeno parzialmente impedito di cogliere non solo alcuni riferimenti ma soprattutto di rievocare le sensazioni e le impressioni sollevate dalla lettura di questi romanzi.
Così, personaggi come Rinri (l’ex fidanzato giapponese di Amélie) e la stessa Nishio-San (la tata della scrittrice, pur presente in Metafisica dei tubi) mi sono risultati privi di alcune dimensioni che probabilmente sarebbe stato possibile completare solo ricollegandosi ai racconti precedenti.
Devo anche aggiungere una cosa: questo romanzo è molto centrato sul rapporto tra Amélie e il Giappone, un rapporto evidentemente complesso per effetto non solo dell’esperienza particolare che la scrittrice ne ha fatto, ma anche dell’unicità e per certi versi dell’incomprensibilità della cultura giapponese, totalmente lontana da quella occidentale.
Io non conosco il Giappone (per quanto ne sia affascinata e speri un giorno di poterci entrare in contatto), e dunque faccio fatica a comprendere alcune riflessioni che Amélie propone in questo romanzo. Inoltre, personalmente la Nothomb mi intriga molto di più quando i suoi racconti diventano un pretesto per l’autoanalisi o per l’indagine di dinamiche relazionali che in qualche modo prescindono dalla specificità del contesto geografico e culturale. In quei casi mi risulta molto più facile l’identificazione e riesco a seguire la scrittrice nei meandri tortuosi di una mente non certo lineare ma decisamente capace di guardare le cose e la nostra umanità da un punto di vista non convenzionale.
Voto: 3/5
La lettura dei libri di Amélie Nothomb può provocare le reazioni più disparate da persona a persona. Avevo comprato questo libro, La nostalgia felice, sulla base di un passaparola che mi aveva riportato il giudizio di lettori rimasti affascinati dal racconto, letto tutto d’un fiato senza mai potersi staccare dalle sue pagine.
Ebbene, non posso dire che la mia reazione sia stata questa. Anzi, dirò di più, praticamente una situazione del genere non mi è mai capitata con i libri di questa scrittrice, nonostante abbia amato moltissimo alcuni di essi, in particolare Metafisica dei tubi e Sabotaggio d’amore. Non posso però dire che quella della Nothomb sia una scrittura giocata principalmente sulla componente emotiva, tanto forte è al loro interno l’analisi – diciamo così – intellettualistica e - per questo - a volte cinica degli avvenimenti.
Probabilmente in questo caso molto ha contato anche il fatto che La nostalgia felice racconta del ritorno di Amélie in Giappone dopo moltissimi anni, allo scopo di ripercorrere le tappe della sua infanzia e della sua giovinezza, quelle in buona parte raccontate nei suoi romanzi precedenti, in particolare in Metafisica dei tubi, Stupore e tremori e Né di Adamo né di Eva. A me mancano all’appello questi ultimi due che non ho ancora letto, e forse questo mi ha almeno parzialmente impedito di cogliere non solo alcuni riferimenti ma soprattutto di rievocare le sensazioni e le impressioni sollevate dalla lettura di questi romanzi.
Così, personaggi come Rinri (l’ex fidanzato giapponese di Amélie) e la stessa Nishio-San (la tata della scrittrice, pur presente in Metafisica dei tubi) mi sono risultati privi di alcune dimensioni che probabilmente sarebbe stato possibile completare solo ricollegandosi ai racconti precedenti.
Devo anche aggiungere una cosa: questo romanzo è molto centrato sul rapporto tra Amélie e il Giappone, un rapporto evidentemente complesso per effetto non solo dell’esperienza particolare che la scrittrice ne ha fatto, ma anche dell’unicità e per certi versi dell’incomprensibilità della cultura giapponese, totalmente lontana da quella occidentale.
Io non conosco il Giappone (per quanto ne sia affascinata e speri un giorno di poterci entrare in contatto), e dunque faccio fatica a comprendere alcune riflessioni che Amélie propone in questo romanzo. Inoltre, personalmente la Nothomb mi intriga molto di più quando i suoi racconti diventano un pretesto per l’autoanalisi o per l’indagine di dinamiche relazionali che in qualche modo prescindono dalla specificità del contesto geografico e culturale. In quei casi mi risulta molto più facile l’identificazione e riesco a seguire la scrittrice nei meandri tortuosi di una mente non certo lineare ma decisamente capace di guardare le cose e la nostra umanità da un punto di vista non convenzionale.
Voto: 3/5