In una memorabile due giorni il Circolo degli Artisti ha ospitato i concerti di due dei più importanti rappresentati dell'indie folk internazionale, l'inglese Neal Halstead, già animatore degli Slowdive e dei Mojave 3 e ora lanciato nella carriera da solista, e l'americano Mark Kozelek, anch'egli in passato leader dei Red House Painters e ora dei Sun Kil Moon, nonché solista incline a collaborazioni con altri artisti (si vedano gli album con Jimmy Lavalle e i Desert Shore).
Nel caso di Neil Halstead l'ultimo lavoro, Palindrome Hunches, risale ormai già a un paio di anni fa, mentre per quanto riguarda Mark Kozelek è appena uscito Benji a firma dei Sun Kil Moon, un album da molti considerato il capolavoro della sua carriera.
La vicinanza temporale tra questi due concerti, quasi certamente casuale, è in realtà provvidenziale nella misura in cui ricostruisce una specie di ideale continuità o quanto meno di contatto tra questi due artisti; Neal Halstead infatti, pur affondando le proprie radici nel cantautorato di Nick Drake, con la sua musica si muove al di fuori dei confini del folk britannico rievocando scenari americani, che trovano totale compimento nelle sonorità di Mark Kozelek.
Le due serate sono per me – mio malgrado – molto diverse, sebbene invece l’atmosfera dei due concerti sia parecchio somigliante. Alla serata con Neal Halstead arrivo piena di energia con la mia macchina fotografica e il mio nuovo obiettivo al collo e sono – come di consueto – nelle primissime file. Dopo l’apertura degli strumentali Junkfood, in pochi minuti il palco è pronto per Halstead che ha con sé solo la chitarra, l’armonica da bocca e i pedali per gli effetti alla chitarra.
Neil ha il suo ormai inseparabile cappellino di lana con pon pon, e capelli e barba tali che sembrano non aver visto un barbiere da mesi. La sua voce e la sua musica sono però come sempre suadenti e rapidamente conquistano un pubblico attento e competente. Neal suona molto dal suo vastissimo repertorio di canzoni, attingendo parecchio ai suoi album da solista, ma anche qualcosa al repertorio degli Slowdive e dei Mojave 3, anche su richiesta di alcune persone del pubblico.
La chitarra gli dà qualche problema nell’accordatura e Neal scherza con il pubblico di questo e altro. Il concerto scivola via emozionante e fluido, fino alla sua ultima canzone, cui segue un immancabile bis in cui il cantautore ci regala ancora 2-3 pezzi. La ciliegina sulla torta per me è la possibilità di una foto con lui dopo il concerto, che chiude una serata quasi perfetta.
Ben diversa la situazione con Kozelek. Il pomeriggio di venerdì mi assale un virus intestinale che mi abbatte fino quasi alle dieci di sera, tanto che sto per rinunciare. Poi una fugace sensazione di recupero mi fa prendere il motorino per correre ad ascoltare quello che resta del concerto. La sala è piena, non gremita (più della sera precedente, ma meno che in altre circostanze), ma inevitabilmente sono confinata un po’ indietro e nonostante io tenti di sfruttare i passaggi che mi si parano dinanzi riesco ad arrivare circa a mezza sala. D’altra parte numerosi cartelli avvisano che su richiesta del cantante non è consentito scattare fotografie e girare video, cosicché non avrei neppure potuto godere di una posizione più ravvicinata per fare le mie fotografie (motivo per cui in questo post non c'è neppure una foto di questo secondo concerto!).
La sala è piena della voce di Mark, e delle sue melodie un po’ cantilenanti, che – se non si comprendono le parole – si fa fatica ad apprezzare in pieno. Kozelek è infatti un cultore della parole e delle storie da raccontare, e la sua musica sostanzialmente non esiste sganciata dai suoi contenuti, spesso tristi, ma raccontati in maniera non depressa bensì fatalistica, consci dell’inevitabilità dei dolori della vita umana.
Il cantautore chiacchiera e scherza - un po' cinicamente - con il pubblico, che nella prima metà della sala è fatto soprattutto di appassionati conoscitori, mentre si fa più generico e disattento, quasi annoiato nella seconda metà. Certo quella di Kozelek non è una musica facile, tanto più quando è tenuta in piedi solo da una chitarra e dal fiume di parole con cui l’autore ci sommerge.
Alla fine, personalmente sono molto contenta di aver sfidato il virus intestinale per essere presente al Circolo anche oggi. E senza dubbio mi porterò dietro la memoria sonora e visiva delle atmosfere malinconiche di questi due cantanti, nonché le suggestioni che aprono nella mente l’immagine dei grandi paesaggi americani e anche delle province tristi, e di società rimaste ferme nel tempo, di cui per qualche ora sono diventate protagoniste le storie raccontate da Neal Halstead e Mark Kozelek.
Voto: 4/5
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