Un film perfetto nella misura, senza sbavature, in cui niente appare di troppo, ma neppure il minimalismo risulta insoddisfacente.
Nel titolo, Still life, tutto è racchiuso. Ma non lasciatevi confondere dalla traduzione italiana "natura morta", perché - pur ruotando tutto intorno al tema della solitudine e della morte - non c'è niente di morto in questo film, bensì c'è - come dice il titolo originale - una vita immobile, congelata, nella quale però a ben guardare ci sono moltissime tracce del suo divenire, del suo movimento incessante, quello che continua, anche dopo la sua fine, nei ricordi e nei pensieri di chi rimane.
È su queste tracce che si muove il protagonista del film, John May (l'eccellente Eddie Marsan), che per lavoro si occupa di cercare i parenti di coloro che muoiono in solitudine e di allestire le relative esequie. E lo fa con una pietas e un'empatia straordinarie, che si perpetuano nello sguardo commosso con cui John ogni sera sfoglia l'album in cui ha incollato le fotografie di tutti questi uomini e donne che la vita - per caso, per volontà o per sfortuna - ha un po' lasciato per strada.
Il mondo intorno al protagonista è tutto fotografato come una sequenza di still lives: la sua scrivania, il tavolo dove cena, la strada che percorre tutti i giorni, il posto che occupa nel treno.
La stessa figura di May appare come la quintessenza di una vita congelata in abitudini maniacali.
Sarà la notizia del suo licenziamento per effetto del ridimensionamento del personale dell'ufficio dove lavora ad incrinare - seppure sommessamente - l'immobilità del suo mondo.
John decide di dedicarsi con tutto se stesso al suo ultimo caso, quello di Billy Stoke, forse perché Billy abitava in un appartamento identico al suo, la cui finestra si affaccia proprio di fronte alla finestra del suo appartamento.
Ripercorrere le tracce della vita di quest'uomo che a un certo punto si è perso, scoprirne l'energia vitale che lo ha accompagnato per buona parte di essa, riviverne la storia attraverso i ricordi commossi di un suo collega di lavoro, della sua ex compagna, dei due amici alcolisti, di un ex commilitone, della figlia Kelly (Joanne Froggatt), farà fluire in John una linfa vitale nuova e calda, capace di scongelare lo spesso strato di ghiaccio da cui è rivestito. La missione si potrà dire compiuta quando ognuno di loro avrà compreso l'importanza di non lasciar andare i ricordi, che sono i segni che ognuno di noi lascia dietro di sé.
La nostra still life continua a prendere vita ogni volta che qualcuno dà senso alle tracce che abbiamo disseminato intorno a noi. Nessuna solitudine è veramente tale se si lavora con passione a non far spezzare e a ricostruire continuamente la tela - anche esile - delle connessioni che invisibilmente uniscono le persone nel significato e nel valore profondo della loro natura umana.
Pura poesia e commozione. Non facile, ma profonda.
Bravissimo Uberto Pasolini.
Voto, 4,5/5
martedì 28 gennaio 2014
domenica 26 gennaio 2014
Fratto X / Antonio Rezza
Gli spettacoli di Antonio Rezza non sono facili da spiegare a parole, né è veramente possibile farsene un’idea senza vederli. Sì, perché in questi spettacoli non c’è una storia di cui parlare, non ci sono personaggi principali da descrivere e neppure la scenografia e le luci (che sono parte integrante e direi fondante di questi lavori teatrali grazie a Flavia Mastrella) sono impossibili da descrivere, perché sono elementi informi che prendono forma solo quando Rezza gli dà vita.
Inoltre, Antonio Rezza non è un tipico attore di teatro con la voce impostata e le movenze studiate a tavolino. È piuttosto un saltimbanco, un giullare di corte, una specie di cantastorie senza storie, ma solo sensazioni. È un caratterista, un mimo, uno capace di modellare il suo corpo e i muscoli della sua faccia nelle maniere più incredibili.
E come un giullare di corte, Rezza può parlare di qualunque cosa e può farlo con i toni che preferisce. La cifra del suo racconto è fondamentalmente comica, ma può andare da un tono semi-serio e semi-drammatico ad uno apertamente insolente ed irriverente. Può giocare sul palcoscenico, ma anche fuori dal palcoscenico tirando in ballo i suoi spettatori.
Di cosa parla Antonio Rezza? Apparentemente di cose senza senso, squarci sconclusionati su vite surreali di sconosciuti cui lui stesso (e la spalla Ivan Bellavista) danno il volto. In realtà, Rezza ci parla del nostro essere umani e fragili, ci parla della finzione delle relazioni, svela l’assurdità delle nostre convinzioni, il non senso che è parte integrante della nostra esistenza come singoli e come gruppi.
La sua bravura è al di là di ogni ragionevole dubbio. E dopo aver visto questo unico spettacolo, Fratto X, riesco a capire perché negli anni i suoi spettacoli si sono costruiti una folta schiera di fedeli seguaci che vanno ad ogni nuova messa in scena e ridono fin dalla prima battuta. E lo fanno perché sanno benissimo che cosa li aspetta.
Ah, dimenticavo. Se decidete di andare a vedere uno spettacolo di Rezza preparatevi psicologicamente: potrebbe mettervi alla berlina di fronte a tutto il pubblico del teatro! ;-))
Voto: 3,5/5
Inoltre, Antonio Rezza non è un tipico attore di teatro con la voce impostata e le movenze studiate a tavolino. È piuttosto un saltimbanco, un giullare di corte, una specie di cantastorie senza storie, ma solo sensazioni. È un caratterista, un mimo, uno capace di modellare il suo corpo e i muscoli della sua faccia nelle maniere più incredibili.
E come un giullare di corte, Rezza può parlare di qualunque cosa e può farlo con i toni che preferisce. La cifra del suo racconto è fondamentalmente comica, ma può andare da un tono semi-serio e semi-drammatico ad uno apertamente insolente ed irriverente. Può giocare sul palcoscenico, ma anche fuori dal palcoscenico tirando in ballo i suoi spettatori.
Di cosa parla Antonio Rezza? Apparentemente di cose senza senso, squarci sconclusionati su vite surreali di sconosciuti cui lui stesso (e la spalla Ivan Bellavista) danno il volto. In realtà, Rezza ci parla del nostro essere umani e fragili, ci parla della finzione delle relazioni, svela l’assurdità delle nostre convinzioni, il non senso che è parte integrante della nostra esistenza come singoli e come gruppi.
La sua bravura è al di là di ogni ragionevole dubbio. E dopo aver visto questo unico spettacolo, Fratto X, riesco a capire perché negli anni i suoi spettacoli si sono costruiti una folta schiera di fedeli seguaci che vanno ad ogni nuova messa in scena e ridono fin dalla prima battuta. E lo fanno perché sanno benissimo che cosa li aspetta.
Ah, dimenticavo. Se decidete di andare a vedere uno spettacolo di Rezza preparatevi psicologicamente: potrebbe mettervi alla berlina di fronte a tutto il pubblico del teatro! ;-))
Voto: 3,5/5
mercoledì 22 gennaio 2014
Le cose belle
Grazie a L., scopro che alla Casa del Cinema di Roma è in corso una rassegna cinematografica dal titolo L’Europa che ride, che si incrocia con un’altra rassegna dedicata ai documentari (Il mese del documentario). Dando un’occhiata al programma sono subito attirata dal film di Agostino Ferrente (l’autore del documentario molto bello sull’Orchestra di piazza Vittorio) e Giovanni Piperno, dal titolo Le cose belle.
Il documentario racconta le vite di quattro ragazzi napoletani: Enzo, Fabio, Adele e Silvana, che i due registi hanno filmato in due fasi della loro vita e della loro città molto diverse: l’età dell’adolescenza alla fine degli anni Novanta, e undici anni dopo quando tutti sono ormai adulti e la città di Napoli ha compiuto la sua parabola.
Innanzitutto devo premettere che mi affascina infinitamente la natura del documentario per la sua impossibilità di comprimere i tempi, di condensare e tagliare la vita come fanno le finzioni cinematografiche. In questo caso gli undici anni sono trascorsi sul serio. E lo vediamo dalla qualità del girato cinematografico che è molto scarsa alla fine degli anni Novanta (forse parliamo ancora di pellicola) ed è invece elevata per gli anni Duemila (sicuramente ormai in digitale). Ma lo vediamo anche dai volti e dai corpi dei protagonisti che hanno subito "solo" le trasformazioni prodotte su di loro dal passare del tempo, senza nessun intervento e nessuna finzione.
In secondo luogo, ho trovato interessantissimo questo racconto moltiplicato, che offre il punto di vista di quattro adolescenti, poi quello di quattro giovani adulti, e contemporaneamente ci mostra quattro diversi spaccati della città di Napoli, che diventano otto in considerazione delle trasformazioni avvenute durante gli undici anni tra un girato e l’altro.
Enzo, Fabio, Adele e Silvana vengono da famiglie diverse, abitano in quartieri diversi della città, hanno storie familiari diverse, ma condividono tutti un’estrazione fortemente popolare che li inquadra in un vissuto tendenzialmente difficile.
La città di Napoli resta sullo sfondo: attraversata, vissuta, guardata dall’occhio dei protagonisti e dello spettatore, muta, di un silenzio assordante, pieno di significati inespressi.
Enzo è un bambino un po’ grassoccio, a cui piace cantare la canzone classica napoletana e va in giro per i ristoranti con il padre che suona la chitarra. Da grande vuole fare il cantante.
Fabio è un vero “scugnizzo” napoletano: senza peli sulla lingua, ha un’opinione su tutto, è allegro e sfrontato. Vuole fare il calciatore, peccato che sa – perché tutti gliel’hanno detto – che non ha la stoffa. Sua madre fa la pescivendola e ogni giorno va al mercato del pesce, unica donna in un universo solo maschile.
Silvana viene da un quartiere popolare (Scampia?), vive con il padre, perché i suoi genitori sono separati. Ha molti fratelli e sorelle da entrambi i genitori. La sua è un’allegria malinconica fin da piccola; si rabbuia quando le chiedono come immagina il suo futuro.
Adele ha un fratello più piccolo e uno più grande (che in realtà arrivato all’adolescenza ha deciso di cambiare sesso e ora è Jessica), una madre presente, ma in qualche modo ostile e anaffettiva nei suoi confronti. Il suo sogno è fare da grande la ballerina.
Ritroveremo Enzo che lavora porta a porta per un’azienda telefonica ed è innamorato di una ragazza nigeriana. Fabio che ha perso il fratello maggiore, vive con la madre ma non ha alcuna voglia di lavorare. Adele che ha una figlia ma non un compagno; fa le pulizie in un hotel e la sera si esibisce in un locale notturno, e continua ad avere un rapporto conflittuale con la madre. Silvana vive con la madre che entra ed esce dalla galera, così come un suo fratello e il suo compagno, e sembra non avere alcuna prospettiva di vita.
Dietro di loro si muove prima la Napoli bassoliniana della fine degli anni Novanta che ha evidentemente suscitato delle speranze il cui riflesso si percepisce perfino nelle parole di questi adolescenti, per quanto il più disinibito di loro ripete una frase forse sentita dagli adulti, ossia che Bassolino ha fatto tante cose ma non ha pensato al futuro di quelli come loro, dei ragazzi. Negli anni Duemila la Napoli di questi giovani è una città invasa dall’immondizia, che sembra ormai rassegnata al proprio destino, all’incapacità di un vero e proprio riscatto, esattamente come Enzo, Fabio, Adele e Silvana.
Come dice la voce narrante, a Napoli è molto diffuso l’augurio “Belle cose”. Anche a Bari, dove diciamo “Tante belle cose”, cioè, pur sapendo che le cose brutte della vita toccano a tutti, l’augurio è che quelle belle le superino nel numero e nell’intensità.
E in fondo nei volti un po’ spenti e rassegnati, malinconici e tristi di questi giovani ormai entrati nella vita adulta (che fanno fortemente contrasto con le risate e l’allegria della loro prima adolescenza) non mancano momenti di distensione, se non proprio di felicità: un caffè con la persona che si ama, una partitella di calcio per strada, un ballo improvvisato in casa insieme alla propria bimba, il racconto di un sogno in abito da sposa che porta numeri da giocare al lotto.
Napoli – si sa – è una città strana, un mondo a parte, che funziona secondo regole in buona parte incomprensibili al resto del mondo. Per questo fa paura a quanti non riescono a coglierne lo spirito, ad entrare nella sua dinamica profonda. La mia amica V. dice che Napoli è una città che si ama e si odia, ma sempre in maniera “feroce”.
E, pur comprendendo che la realtà sociale rappresentata da questo documentario è solo una parte della società napoletana, a me colpisce profondamente lo spirito di un popolo che è in grado di riassorbire, per così dire di “normalizzare”, quasi qualunque cosa, nel bene e nel male. La tranquillità e la comprensione con cui la madre di Silvana parla di sua figlia Jessica che ha deciso di diventare donna, ovvero quelle con cui il padre di Enzo accoglie la notizia che suo figlio è innamorato di una donna di colore sono sorprendenti; dall’altro lato, la stessa serenità, la stessa totale accettazione della realtà e di tutto quello che ne fa parte vede queste famiglie accettare disgregazione familiare, illegalità, parassitismo e ignoranza.
Ci vuole l’occhio dell’antropologo sociale per capire un mondo così complesso senza esserne completamente sopraffatti.
Voto: 4/5
lunedì 20 gennaio 2014
Il capitale umano
L'ultima opera di Paolo Virzì è in qualche modo sorprendente rispetto alla filmografia precedente del regista, fors'anche perché la sceneggiatura si ispira all'opera di Stephen Amidon e su questa, oltre al regista, ci hanno messo le mani Francesco Bruni e Francesco Piccolo.
In ogni caso, Virzì ci stupisce proponendoci un'opera drammatica, a metà strada tra un giallo e un saggio sociologico. Una storia costruita a cerchi concentrici, i cui dettagli vengono raccontati attraverso i punti di vista di tre personaggi, Dino (Fabrizio Bentivoglio), Carla (Valeria Bruni Tedeschi) e Serena (Matilde Gioli), e che ci svela poco a poco i tasselli di un puzzle le cui tinte si fanno sempre più fosche sul piano emotivo.
Tale struttura narrativa si stringe come un cappio intorno al collo del povero spettatore che, dopo un inizio che strizza l'occhio alla commedia grazie al personaggio un po' macchiettistico di Dino, si trova di fronte a un intreccio in cui nessuno è innocente, ciascuno è portatore - sebbene in maniera differente - di una parte di responsabilità. Alla fine la gola è secca e lo stomaco attorcigliato, perché neppure chi guarda può veramente sentirsi estraneo rispetto al disfacimento morale di un paese.
La vicenda ruota intorno a una brutta sera durante la quale un SUV su una strada di collina, con una manovra brusca, fa andare fuori strada un ciclista provocandone la caduta. L'autista non si ferma a prestare soccorso. Il ciclista (un cameriere) qualche tempo dopo muore.
Intorno a questo SUV le storie di due famiglie: quella dei Bernaschi, finanzieri di alto profilo (Giovanni e Carla e il figlio Massimiliano) e quella dell'immobiliarista Dino (con la seconda moglie Roberta e la figlia di primo letto, Serena).
Ne viene fuori quasi un capitolo del "ciclo dei vinti" di verghiana memoria, con una triste morale che sembra confermare l'immutabilità di dinamiche sociali nelle quali ognuno paga o si avvantaggia in base alla posizione che il destino gli ha riservato, accettandone aspetti positivi e negativi, cui si aggiunge un interessante scandaglio psicologico sulla vastità dei compromessi che ognuno fa con se stesso per ottenere quello che vuole.
Da questo punto di vista il personaggio di Carla è emblematico, e forse anche quello psicologicamente più interessante, perché è un personaggio dolente, che sembra avere spirito critico e insofferenza per gli aspetti deteriori del mondo cui appartiene, ma la cui sofferenza si rivela poco a poco frutto delle sovrastrutture di finzione che attua persino rispetto a se stessa.
Chiuderei con un unico appunto: se dramma doveva essere, allora mi sarei aspettata che Virzì lo portasse fino in fondo, alle sue estreme conseguenze. Le immagini finali su cui si chiude il film ci comunicano che persino la tragedia non appartiene più a un mondo in cui in qualche modo tutti riescono a rimanere a galla, ciascuno in proporzione ai mezzi di cui dispone.
Voto: 3,5/5
In ogni caso, Virzì ci stupisce proponendoci un'opera drammatica, a metà strada tra un giallo e un saggio sociologico. Una storia costruita a cerchi concentrici, i cui dettagli vengono raccontati attraverso i punti di vista di tre personaggi, Dino (Fabrizio Bentivoglio), Carla (Valeria Bruni Tedeschi) e Serena (Matilde Gioli), e che ci svela poco a poco i tasselli di un puzzle le cui tinte si fanno sempre più fosche sul piano emotivo.
Tale struttura narrativa si stringe come un cappio intorno al collo del povero spettatore che, dopo un inizio che strizza l'occhio alla commedia grazie al personaggio un po' macchiettistico di Dino, si trova di fronte a un intreccio in cui nessuno è innocente, ciascuno è portatore - sebbene in maniera differente - di una parte di responsabilità. Alla fine la gola è secca e lo stomaco attorcigliato, perché neppure chi guarda può veramente sentirsi estraneo rispetto al disfacimento morale di un paese.
La vicenda ruota intorno a una brutta sera durante la quale un SUV su una strada di collina, con una manovra brusca, fa andare fuori strada un ciclista provocandone la caduta. L'autista non si ferma a prestare soccorso. Il ciclista (un cameriere) qualche tempo dopo muore.
Intorno a questo SUV le storie di due famiglie: quella dei Bernaschi, finanzieri di alto profilo (Giovanni e Carla e il figlio Massimiliano) e quella dell'immobiliarista Dino (con la seconda moglie Roberta e la figlia di primo letto, Serena).
Ne viene fuori quasi un capitolo del "ciclo dei vinti" di verghiana memoria, con una triste morale che sembra confermare l'immutabilità di dinamiche sociali nelle quali ognuno paga o si avvantaggia in base alla posizione che il destino gli ha riservato, accettandone aspetti positivi e negativi, cui si aggiunge un interessante scandaglio psicologico sulla vastità dei compromessi che ognuno fa con se stesso per ottenere quello che vuole.
Da questo punto di vista il personaggio di Carla è emblematico, e forse anche quello psicologicamente più interessante, perché è un personaggio dolente, che sembra avere spirito critico e insofferenza per gli aspetti deteriori del mondo cui appartiene, ma la cui sofferenza si rivela poco a poco frutto delle sovrastrutture di finzione che attua persino rispetto a se stessa.
Chiuderei con un unico appunto: se dramma doveva essere, allora mi sarei aspettata che Virzì lo portasse fino in fondo, alle sue estreme conseguenze. Le immagini finali su cui si chiude il film ci comunicano che persino la tragedia non appartiene più a un mondo in cui in qualche modo tutti riescono a rimanere a galla, ciascuno in proporzione ai mezzi di cui dispone.
Voto: 3,5/5
sabato 18 gennaio 2014
Lungo la via Flaminia
Negli ultimi tempi, dopo la lettura del libro Pompei è viva di Eva Cantarella e Luciana Jacobelli, C. ha sviluppato un’insana passione per la storia romana che si è – tra le altre cose – concentrata sulla storia delle strade consolari romane.
Così, la nostra gitarella post-natalizia in Umbria si è trasformata in una specie di percorso sulle tracce degli antichi romani lungo il tratto umbro della via Flaminia.
La prima tappa – sulla strada di avvicinamento al nostro bed & breakfast – è stata la città di Narni, il cui centro storico abbiamo girato in lungo e in largo, soffermandoci particolarmente sulla chiesa di Santa Maria Impensole, una chiesetta buia e spoglia, con affreschi antichi alle pareti, un capitello di matrice barbara a interrompere la sequenza ordinata delle colonne e bellissimi grifoni in bassorilievo sulla facciata. Da qui, dopo una breve sosta a San Gemini, scorgiamo un cartello turistico che segnala le rovine romane di Carsulae e C. insiste per andarci. E fa benissimo.
Quella di Carsulae è una città romana di una certa importanza che sorgeva proprio sulla via Flaminia e di cui sono state scoperte le rovine in tempi relativamente recenti (gli scavi sono in parte ancora in corso). La cosa straordinaria di Carsulae è che la città sembra essere stata quasi completamente abbandonata dopo il periodo romano (l’unica testimonianza di insediamento successivo è una chiesetta cristiana realizzata sulle rovine di un tempietto) e soprattutto nei duemila anni successivi nessuno ha pensato di costruire un’altra città nello stesso luogo. Cosicché Carsulae è rimasta lì, quasi intatta, coperta solo da un sottile strato di terra e oggi si presenta a noi in tutta la sua antica coerenza, con il cardo (la stessa via Flaminia con il suo antico basolato) e il decumano, gli edifici pubblici, le case e le taverne, la basilica e l’area degli spettacoli con un anfiteatro e un teatro di considerevoli dimensioni, nonché il grande arco di ingresso alla città e i mausolei funerari subito fuori dalle mura della città. Il tutto circondato da colline e campagne. Andare a Carsulae significa fare un emozionante viaggio nel tempo, come sinceramente poche volte mi era capitato in passato.
Si sta facendo buio, così ci dirigiamo verso il nostro agriturismo, il Rustichino, che prende il nome dall’omonima località, i cui proprietari ci accolgono calorosamente e ci mostrano la nostra camera. Ci sarà tempo per raccontarci poi la storia di questo casale che ha origini molto antiche di cui si scorge ancora qua e là qualche traccia.
Per cena andiamo a mangiare a Montefalco (a pochi km dal Rustichino) e dopo una passeggiata in centro decidiamo di seguire il consiglio di A. e P. e di andare a mangiare a Il Postaccio, poco fuori delle mura della città. La trattoria è gestita da ragazzi giovani, ha un’atmosfera informale e rilassata. La cena è molto buona e la successiva chiacchierata con il cuoco è una miniera di suggerimenti per i nostri acquisti enogastronomici che rappresenteranno una parte importante della nostra vacanza.
Il giorno dopo, dopo una breve sosta a Gualdo Cattaneo – dove vorremmo visitare la cosiddetta Rocca sonora, che però è chiusa -, ci dirigiamo verso Bevagna, non senza prima esserci fermate alle cantine Tiburzi e aver fatto il pieno di bottiglie di vino.
Bevagna ci affascina, ci passiamo praticamente la mattina e parte del pomeriggio. Giriamo per il centro, visitiamo le chiese della piazza principale, ci fermiamo per una sosta in norcineria, poi facciamo la visita guida ai resti dell’anfiteatro romano dell’antica città di Mevagna e alla ricostruzione di una casa medievale simile a quelle che furono costruite sui resti dell’anfiteatro. Riusciamo anche a visitare i resti delle antiche terme con i pavimenti a mosaico raffiguranti animali marini veri e fantastici. La città è un gioiellino che meriterebbe certamente una seconda visita, magari durante una delle manifestazioni che ospita in primavera-estate.
Ed eccoci dirette verso Spello. Ci arriviamo che è già buio, ma facciamo in tempo a fare il giro del centro storico, ancora più affascinante nella penombra di certe strade. Visitiamo la chiesa di Santa Maria Maggiore con la strepitosa cappella Baglioni. Poi, quasi fortunosamente ci imbattiamo nel negozietto di Simona Felicioni, di cui avevamo assaggiato l’olio al Postaccio, quello che il cuoco chiamava il “diamante”. Effettivamente il costo giustifica il nome, ma è talmente buono (in particolare quello che si chiama Brio) che facciamo il pieno anche di bottiglie di olio.
Felici ci dirigiamo verso la nostra cena alla Cantina di Spello, un’osteria slow food che si rivelerà all’altezza delle aspettative: ambiente bellissimo e curatissimo, cibo eccellente (peccato che non abbiamo moltissima fame!).
Il giorno dopo il tempo è sempre più brutto, però non ci diamo per vinte e ci dirigiamo verso le fonti del Clitunno, cantate nella famosa poesia di Giosuè Carducci. Il laghetto originato dalle fonti del Clitunno già conosciuto in epoca romana e poi sistemato nel periodo ottocentesco come lo vediamo oggi emana effettivamente un suo fascino per il gioco di riflessi degli alberi e del cielo nell’acqua limpidissima. Da qui facciamo un salto a visitare anche il tempietto del Clitunno, poco distante, al di sotto del quale sorge anche un antico mulino, diventato poi residence e ristorante e ora apparentemente abbandonato.
La nostra tappa successiva è Spoleto. Da lontano vediamo la rocca albornoziana e individuiamo le lunghe scale mobili che ci porteranno fino in cima alla collina su cui sorge la città. Da lì inizierà la nostra visita per il centro storico che ci condurrà al duomo, ai resti romani (la casa romana e l’arco di Augusto) e all’anfiteatro romano. Nel duomo restiamo a bocca aperta in particolare di fronte agli affreschi di Filippo Lippi che rappresentano le storie della Vergine. Poi scendiamo lungo le scivolosissime scale che costeggiano le mura. Spoleto ci piace moltissimo, peccato per le troppe tracce del passaggio di “Don Matteo” ;-)
Per cena torniamo a Montefalco, ma questa volta siamo diretti in un’altra osteria slow food, L’alchimista, che avevamo notato la prima sera. La cena è altamente soddisfacente e merita di essere ricordata: antipasto di prosciutto crudo tagliato a mano con torta al testo (una specie di piadina un po’ alta), strangozzi al tartufo (veramente fatti a mano), lu padellacciu (un misto di carni stufate, maiale e manzo, nel sagrantino) e l’agnello al forno con contorno di fave e cicoria. Infine una crostata di marmellata semplicemente perfetta. Il tutto innaffiato prima da un bicchiere di Grechetto, poi da un ottimo Sagrantino. E visto che ho dato prova al padrone di casa di capirne di vino, mi offre con l’agnello un bicchiere di Sagrantino passito perché mi dice che tradizione vuole che con l’agnello si beva quello perché ci sta meglio. E non posso che confermare.
Non paghe torneremo al Postaccio per un dopocena a base di Sagrantino passito e buonissimi tozzetti.
Il giorno dopo sulla strada del ritorno facciamo tappa a Foligno, che però ci lascia alquanto indifferenti, e mentre comincia a piovere non poco, ci dirigiamo verso l’abbazia di Sassovivo dove possiamo ammirare il bellissimo chiostro in un’atmosfera un po’ inquietante e un po’ magica. Infine, prima di tornare a casa e visto che C. non ci è mai stata, facciamo una sosta alla cascata delle Marmore senza farci mancare né le foto dal Belvedere superiore, né il “quasi bagno” dal Belvedere inferiore.
Per un po’ (ma solo per poco) il nostro desiderio di romanità antica e di norcineria si può dire saziato! ;-))
mercoledì 15 gennaio 2014
Lunchbox
Chi si aspettasse di vedere rappresentato in questo film il roboante e rutilante mondo di Bollywood resterebbe totalmente deluso. Perché Lunchbox è stato girato in India da un regista indiano con attori indiani, ma ha scelto di rappresentare l’India vera, quella di una Mumbai straripante di gente e malinconicamente e grigiamente operosa nel sostenere un’economia in fase di crescita.
La storia è a dir poco minimale: Ila (Nimrat Kaur) prepara ogni giorno il pranzo per suo marito e consegna il lunchbox all’efficientissimo sistema indiano che consente a tutti i lavoratori in città di avere il loro lunch box sulla scrivania all’ora di pranzo. Un giorno il lunchbox di Ila finisce sulla scrivania di Saajan (Irrfan Kahn), che non solo apprezza il cibo al punto da ripulire tutte le scodelle ma decide di scrivere all’ignota donna che l’ha preparato.
Da lì inizia una conversazione epistolare che salterà completamente i preliminari della conoscenza per andare direttamente al disvelamento dei malesseri dell’anima, dei sentimenti nascosti nelle pieghe del cuore, del desiderio di cambiamento, del bisogno di trovare una vita nuova. Un disvelamento che non sarà banalmente destinato a un incontro, ma certamente cambierà entrambi i protagonisti. Un disvelamento che non disdegna il sorriso (garantito soprattutto dal controcanto costituito dalla voce della zia di Ila che dal piano di sopra commenta tutto quello che accade con straordinaria ironia), ma che si nutre soprattutto di malinconia di fronte a un mondo che cambia, dimenticando spesso la sua dimensione migliore, e a una vita personale che deve fare a suo volta i conti con la perdita degli affetti.
L’India di Ritesh Batra è un paese caratterizzato dalla ritualità, ossia dalla ripetizione lenta e instancabile di abitudini e modi di vivere, che trova il suo riflesso anche nella rappresentazione della storia di Ila e Saajan, nella quale le abitudini del quotidiano la fanno da padrone.
Quella di Ila e Saajan è un’India che si sente impotente - o forse non ancora pronta - di fronte alla lezione di Amartya Sen, ossia un’India per la quale il prodotto interno lordo ha completamente soffocato la felicità interna lorda, quella che i due protagonisti cercano nel vicino Buthan.
Non vi aspettate una commedia sentimentale brillante, un ritmo da commedia americana, una visione a cuor leggero. Lunchbox è certamente un prodotto cinematografico maturo e spendibile sul piano internazionale (e non a caso ha riscosso molti successi nel mondo occidentale), ma è anche un film che affonda profondamente le proprie radici nel terreno culturale e sociale dell’India contemporanea, con una strizzatina d’occhio certamente malinconica ai sapori del passato, rappresentati da una cucina indiana che è l’emblema stesso della ritualità e della lentezza.
Voto: 3/5
sabato 11 gennaio 2014
Un polpo alla gola / Zerocalcare
Un polpo alla gola / Zerocalcare. Milano: Bao Publishing, 2012.
I grandi successi editoriali, così come le mode del momento, mi creano sempre delle resistenze e delle perplessità. Ecco perché quando Zerocalcare è diventato una specie di fenomeno di costume, sulla bocca di chiunque, anche di chi i graphic novels non sa neppure cosa sono, mi sono un po' irrigidita.
Alcune delle storie brevi che Zerocalcare (alias Michele Rech) pubblica sul suo blog sono notevoli e davvero esilaranti (questa qui l'avevo trovata geniale: I vecchi che usano il pc), ma in generale il suo stile un po' tardo adolescenziale, il profluvio di parole che commentano i fumetti e il suo cinismo politicamente scorretto a tutti i costi spesso mi innervosiscono.
Avevo perciò quasi deciso di non comprare nessuno dei suoi recenti successi editoriali, ma non ho resistito. Mi sono detta che non posso parlare finché non tocco con mano. È così ho comprato Un polpo alla gola e mi appresto a comprare anche La profezia dell'armadillo.
Intanto ho letto il primo (che poi è il secondo di Zerocalcare) e non ho cambiato idea. Continuo a pensare che la componente tardo-adolescenziale dei racconti di Zero sia volutamente altissima (e la cosa può piacere ed essere molto divertente, oppure anche no). Zero ci bombarda di parole, nelle quali a volte si finisce per perdersi (soprattutto su una storia lunga come questa). Personalmente risento anche della differenza generazionale, visto che l'immaginario di riferimento di Zerocalcare e del se stesso protagonista del fumetto appartiene alla seconda metà degli anni Ottanta e prima metà dei Novanta e dunque decisamente successivo ai punti di riferimento della mia infanzia-adolescenza (sebbene alcune invenzioni nella rappresentazione della sua coscienza siano davvero straordinarie). Per esempio non ho mai visto una puntata di David Gnomo e sebbene le sue fattezze qualcosa mi ricordino non ho idea di che tipo di personaggio stiamo parlando...
La storia di Un polpo alla gola è una specie di giallo che attraversa tre fasi della vita di Zero: l'infanzia, l'adolescenza e la giovinezza, ed è una storia di sensi di colpa che si scioglieranno soltanto alla fine. La frase chiave sui cui si incentra il racconto è quella che la maestra Arbizzati dice ai suoi allievi: "Non si guarisce mai dalla propria infanzia", frase bellissima e in buona parte condivisibile che getta un'ombra obliqua sul fumetto.
Narrativamente si nota qualche sbavatura nel racconto - d'altra parte è la prima prova lunga di Zerocalcare - ma la lettura prende.
In conclusione, l'albo mi è piaciuto ma non mi ha entusiasmato, forse perché la vena un po' ca**ona di Zerocalcare non combacia del tutto con quella mia un po' malinconica che mi porta a preferire approcci diversi a tematiche tutto sommato simili.
Detto ciò ho deciso che leggerò anche La profezia dell'armadillo perché voglio vedere se sulle strisce brevi l'effetto finale è diverso.
Fans di Zerocalcare non me ne vogliate. De gustibus...
Voto: 3/5
lunedì 6 gennaio 2014
Veri amici / Bastien Vivès
Veri amici: Francesca & Bruno / Bastien Vivès; colori di Romain Trystram; trad. di Raffaella Garruccio. Bologna: The Box Edizioni, 2013.
Quando ho visto il nuovo graphic novel di Bastien Vivès (in realtà ad essere nuova è solo la versione italiana, visto che quella originale risale al 2009) sulla bancarella di Coconino Press all'edizione 2013 di "Più libri più liberi" avrei voluto comprarlo immediatamente. Peccato che avessi già finito i 100 euro in contanti che mi ero portata dietro e praticamente nessuno alla fiera accettasse bancomat o carte di credito! Ha rimediato però, il giorno dopo, il mio amico M. che non solo l'ha comprato ma me l'ha anche regalato (grazie, M.).
Ovviamente non ho resistito nemmeno 24 ore alla lettura.
Qui il giovane fumettista francese offre qualche elemento di novità rispetto ai suoi lavori precedenti: innanzitutto l'ambientazione italiana (il graphic novel è stato scritto durante un suo soggiorno di studio a Urbino), in secondo luogo la collaborazione di un altro artista (Romain Trystram) per i colori, che infatti in questo albo hanno una loro precisa identità, ma al contempo ben si sposano con il segno grafico di Vivès.
Come è tipico dei lavori di Vivès, anche qui il segno grafico è denso di espressività e di significati (una delle qualità migliori dell'autore) e le scelte sono sempre congruenti con i significati e mai fini a se stesse (si veda l'uso delle immagini sfocate nei ricordi un po' sognanti dei due protagonisti).
Per quanto riguarda i contenuti, questo lavoro si inserisce perfettamente nella poetica dell'autore. A Vivès piace scandagliare la complessità dei sentimenti, che rende appassionante anche la più minimale delle storie. Questo è il caso di Veri amici, la storia dell'amicizia tra Francesca e Bruno, due giovani che non potrebbero essere più diversi. Francesca bella, socievole, solare, molto apprezzata dagli uomini, Bruno introverso, solitario, appassionato di film, insicuro rispetto al proprio aspetto fisico e dunque in difficoltà con le donne.
Francesca e Bruno ci sono sempre l'uno per l'altra, provano reciprocamente sentimenti molto forti e sono legati in un modo a tratti inconciliabile con le loro storie d'amore. Come in tutti i rapporti "di coppia" anche in questo il legame non è del tutto equilibrato, in quanto Francesca appare la persona più forte, tiene in qualche modo Bruno legato a sé e in fondo non può accettare di perdere la sua presenza preziosa, mentre quest'ultimo accetta - quasi suo malgrado - il ruolo di confidente che colma solo in parte il suo profondo bisogno di essere amato.
L'esito è per certi versi scontato, ma anche in qualche modo violento sul piano dei sentimenti. E lascia un senso di tristezza, di ineluttabilità e al contempo di impossibilità che certo non rincuora, ma risulta straordinariamente vero e vicino all'esperienza di ognuno.
Vivès dimostra una volta ancora di possedere grandi doti di sensibilità e di saper raccontare attraverso piccole storie sentimenti universali.
Voto: 3,5/5
mercoledì 1 gennaio 2014
Blue Jasmine
Tutte le recensioni dell’ultimo film di Woody Allen parlano di un ritorno del regista alla sua migliore cinematografia dopo il passo falso rappresentato dal penultimo film, To Rome with love (che tra l’altro non ho visto per scelta).
Effettivamente, Blue Jasmine è nel pieno stile del regista newyorkese, sia dal punto di vista dei contenuti (con una protagonista nevrotica e verbosa magnificamente interpretata da Cate Blanchett) sia dal punto di vista dello stile con quel montaggio sincopato, quella giustapposizione di presente e passato, quelle ambientazioni metropolitane che lo hanno reso famoso.
Il film racconta la storia di Jeannette che ora si fa chiamare Jasmine, una bellissima donna che dopo il suicidio del marito milionario si trasferisce da New York a San Francisco a vivere dalla sorella Ginger (Sally Hawkins). Entrambe sono figlie adottive, ma Jasmine – come diceva la loro madre – è quella con i geni migliori. Tanto Ginger è semplice, un po’ spiantata, dalle prospettive di vita modeste, dai desideri poco elevati, che si accompagna a uomini un po’ truci e un po’ sfigati, quanto Jasmine è una donna raffinata, amante del lusso e delle cose belle, alla ricerca di persone di classe, capace di conquistare uomini affascinanti e pieni di soldi.
Delle due però la nevrotica è proprio Jasmine, segnata ormai a vita dal suo matrimonio con Hal (Alec Baldwin), da cui è uscita con le ossa rotte, ma forse senza aver imparato sostanzialmente niente di se stessa e della sua affettività autodistruttiva. Destinata a ripetere all’infinito gli stessi errori, incapace di scindere la propria felicità personale dalle proprie condizioni di vita e di accontentarsi di affetti sinceri ma di basso profilo.
Cate Blanchett è in grado di rendere straordinariamente realistica questa donna che parla da sola ripetendo all’infinito la storia di come è cominciato il suo amore con Hal, che appare eterea e fragilissima, ma anche incredibilmente calcolatrice e cinica, razionale ed istintiva al contempo.
E il film vale la pena di essere visto anche solo per ammirare la grande prova di quest’attrice. Resta però un film di Woody Allen e come tutti i film di Woody Allen – a parte qualche folgorante passaggio di sceneggiatura (“c’è un limite ai drammi che una donna può sopportare prima di mettersi a urlare da sola per strada”) - tutto il resto tende a scivolarmi addosso lasciando pochissimi segni.
Woody Allen continua a raccontarci un’unica storia declinata in mille modi diversi, quella di un’umanità che va in frantumi facilmente e si ricostruisce con un’impalcatura ancora più fragile, un involucro esterno incapace di proteggerci veramente da noi stessi.
Voto: 3/5