Cos'altro dire? Ken Loach è davvero un combattente, animato da un'energia che gli dà sempre la forza di non rassegnarsi. All'età di 77 anni ha ancora voglia di lottare per un futuro migliore, per una società nella quale non sia il profitto a farla da padrone né il mercato a dettare le regole, bensì la gente che lavora.
E lo fa mediante un film documentario molto bello, che mescola interviste, immagini di repertorio, notizie di stampa, per ricostruire la Gran Bretagna del dopoguerra, quella che, uscita vittoriosa dalle macerie della guerra, voleva a tutti i costi evitare di ricadere nella diffusa povertà prebellica e superare la profonda disuguaglianza sociale. E lo fece prima dando fiducia ai laburisti che registrarono una vittoria schiacciante alle elezioni, poi assecondando la politica del nuovo governo che nel giro di meno di 10 anni costruì le basi di un welfare diffuso e solido, toccando quasi tutti gli ambiti della vita dei suoi cittadini (la salute con la nascita del Servizio Sanitario Nazionale, i trasporti con la nazionalizzazione delle ferrovie, l'acqua, la luce, il gas con la nazionalizzazione della distribuzione, l'industria con interventi nei settori delle miniere di carbone e della produzione dell'acciaio, la casa con un vastissimo programma di case popolari).
Chi quegli anni li ha vissuti racconta di un tempo nel quale si percepiva uno spirito comunitario e una condivisione di finalità che rappresentarono il cuore del successo di questo modello e che poterono anche contare su politici dotati di un forte idealismo e profondamente convinti di portare avanti una politica socialista.
Il film di Loach ci racconta non solo come nacque la civile Inghilterra contemporanea, ma anche come tutto quello che fu costruito in quegli anni è stato più o meno gradualmente smantellato a partire dal governo della Thatcher in nome del profitto individuale e di una presunta efficienza del mercato, complice anche la crisi economica degli anni ’70.
Oggi, di fronte a una nuova crisi economica di portata mondiale, un ennesimo e forse definitivo attacco al welfare viene mosso in tutte le nazioni, compresa la Gran Bretagna. Ecco perché Ken Loach sembra suggerire, attraverso le parole degli intervistati, che è necessario un nuovo patto generazionale, che consenta ai giovani di oggi – che già dimostrano sensibilità a questi temi attraverso i vari movimenti Occupy che si stanno sviluppando a livello internazionale – di capire che oggi come allora è necessario credere in questi ideali, per evitare che quei bisogni che non producono profitto vengano trascurati definitivamente dal mercato.
Bisogna dunque recuperare lo spirito comunitario, di ricostruzione dal basso che caratterizzò la Gran Bretagna negli anni del secondo dopoguerra, per alzare baluardi contro l’avanzata inarrestabile del capitalismo e preservare i beni comuni.
La scelta del bianco e nero che accomuna le immagini di repertorio a quelle del presente sembra sancire anche visivamente questa continuità che Loach riconosce come essenziale per un dignitoso futuro. E le sequenze finali - che ripropongono la vittoria dei laburisti nelle elezioni del ’45 e le scene di gioia nelle strade - nel riacquistare improvvisamente colore ci trasmettono l’idea che esiste ancora una speranza.
Quello di Loach è uno di quei film che strappano l’applauso, anche se non si è a un festival. Di quelli che vorresti che tutti condividessero quello che hanno visto, che davvero ci fossero i margini per cambiare le tristi sorti dell’umanità.
Forse il problema sta proprio qui, nell’elevato grado di disillusione che caratterizza la contemporaneità e le giovani generazioni. Forse i giovani del ’45 erano per certi versi più ingenui e dunque anche più capaci di credere in ideali di cambiamento.
Oggi ci si sente schiacciati da una dinamica economica globale che va al di là non solo della volontà dei singoli, ma anche di quella dei governi. La lettura che Loach fa del dopoguerra del resto è essa stessa un po’ romantica. Gli storici contemporanei sostengono che in realtà in quegli anni si crearono le condizioni per un gioco win-win; ossia i governi avevano in qualche modo tutto l’interesse a costruire un sistema di welfare per la classe operaia, e non soltanto per consentirle condizioni di vita migliori, ma anche per traghettarla almeno in parte verso la classe media e per liberare risorse personali che ne facessero i clienti e acquirenti dei prodotti e dei servizi dell’industria manifatturiera, innescando così un circolo virtuoso di grande importanza per il sistema economico complessivo.
È dunque evidente che oggi di fronte a un’economia che non si alimenta attraverso il sistema manifatturiero e le altri componenti dell’economia reale, bensì attraverso le dinamiche volatili della finanza, e che travalica i confini nazionali rendendo i governi attori deboli, l’interesse a mantenere in piedi un sistema di welfare come quello degli anni ’50 e ’60 è molto basso, se non inesistente. E dunque le risorse investite nello stato sociale vengono considerate non più sostenibili, nella presunzione che il mercato è in grado di fornire gli stessi servizi meglio e a prezzi più bassi e che la classe media pur proletarizzandosi può accedere comunque ai beni e servizi grazie all’economia del low cost.
Ci hanno voluto convincere che il servizio pubblico è per sua natura il luogo degli sprechi e della bassa produttività per farci dimenticare che questo è il risultato del fatto che è stato ed è il luogo privilegiato degli scambi a fini elettorali e del ricatto istituzionale. Il pubblico potrebbe essere virtuoso quanto e direi più del privato in una valutazione di insieme, se solo non fosse pesantemente inquinato.
Dovremmo ricordare che l'umanità è la stessa ovunque e in qualunque contesto, e i suoi bassi istinti attendono solo l'occasione per potersi manifestare. Dall'altro lato, però, anche le sue idealità - come ci mostra Loach - possono trovare espressione se le condizioni lo favoriscono.
È chiaro, sono discorsi complessi e io non sono un’economista. Ma Loach fa benissimo a sollevarli e a ricordarci che esiste un’alternativa a quello che stiamo vivendo e che per questa alternativa vale ancora la pena lottare.
Grazie Ken.
Voto: 4/5
E lo fa mediante un film documentario molto bello, che mescola interviste, immagini di repertorio, notizie di stampa, per ricostruire la Gran Bretagna del dopoguerra, quella che, uscita vittoriosa dalle macerie della guerra, voleva a tutti i costi evitare di ricadere nella diffusa povertà prebellica e superare la profonda disuguaglianza sociale. E lo fece prima dando fiducia ai laburisti che registrarono una vittoria schiacciante alle elezioni, poi assecondando la politica del nuovo governo che nel giro di meno di 10 anni costruì le basi di un welfare diffuso e solido, toccando quasi tutti gli ambiti della vita dei suoi cittadini (la salute con la nascita del Servizio Sanitario Nazionale, i trasporti con la nazionalizzazione delle ferrovie, l'acqua, la luce, il gas con la nazionalizzazione della distribuzione, l'industria con interventi nei settori delle miniere di carbone e della produzione dell'acciaio, la casa con un vastissimo programma di case popolari).
Chi quegli anni li ha vissuti racconta di un tempo nel quale si percepiva uno spirito comunitario e una condivisione di finalità che rappresentarono il cuore del successo di questo modello e che poterono anche contare su politici dotati di un forte idealismo e profondamente convinti di portare avanti una politica socialista.
Il film di Loach ci racconta non solo come nacque la civile Inghilterra contemporanea, ma anche come tutto quello che fu costruito in quegli anni è stato più o meno gradualmente smantellato a partire dal governo della Thatcher in nome del profitto individuale e di una presunta efficienza del mercato, complice anche la crisi economica degli anni ’70.
Oggi, di fronte a una nuova crisi economica di portata mondiale, un ennesimo e forse definitivo attacco al welfare viene mosso in tutte le nazioni, compresa la Gran Bretagna. Ecco perché Ken Loach sembra suggerire, attraverso le parole degli intervistati, che è necessario un nuovo patto generazionale, che consenta ai giovani di oggi – che già dimostrano sensibilità a questi temi attraverso i vari movimenti Occupy che si stanno sviluppando a livello internazionale – di capire che oggi come allora è necessario credere in questi ideali, per evitare che quei bisogni che non producono profitto vengano trascurati definitivamente dal mercato.
Bisogna dunque recuperare lo spirito comunitario, di ricostruzione dal basso che caratterizzò la Gran Bretagna negli anni del secondo dopoguerra, per alzare baluardi contro l’avanzata inarrestabile del capitalismo e preservare i beni comuni.
La scelta del bianco e nero che accomuna le immagini di repertorio a quelle del presente sembra sancire anche visivamente questa continuità che Loach riconosce come essenziale per un dignitoso futuro. E le sequenze finali - che ripropongono la vittoria dei laburisti nelle elezioni del ’45 e le scene di gioia nelle strade - nel riacquistare improvvisamente colore ci trasmettono l’idea che esiste ancora una speranza.
Quello di Loach è uno di quei film che strappano l’applauso, anche se non si è a un festival. Di quelli che vorresti che tutti condividessero quello che hanno visto, che davvero ci fossero i margini per cambiare le tristi sorti dell’umanità.
Forse il problema sta proprio qui, nell’elevato grado di disillusione che caratterizza la contemporaneità e le giovani generazioni. Forse i giovani del ’45 erano per certi versi più ingenui e dunque anche più capaci di credere in ideali di cambiamento.
Oggi ci si sente schiacciati da una dinamica economica globale che va al di là non solo della volontà dei singoli, ma anche di quella dei governi. La lettura che Loach fa del dopoguerra del resto è essa stessa un po’ romantica. Gli storici contemporanei sostengono che in realtà in quegli anni si crearono le condizioni per un gioco win-win; ossia i governi avevano in qualche modo tutto l’interesse a costruire un sistema di welfare per la classe operaia, e non soltanto per consentirle condizioni di vita migliori, ma anche per traghettarla almeno in parte verso la classe media e per liberare risorse personali che ne facessero i clienti e acquirenti dei prodotti e dei servizi dell’industria manifatturiera, innescando così un circolo virtuoso di grande importanza per il sistema economico complessivo.
È dunque evidente che oggi di fronte a un’economia che non si alimenta attraverso il sistema manifatturiero e le altri componenti dell’economia reale, bensì attraverso le dinamiche volatili della finanza, e che travalica i confini nazionali rendendo i governi attori deboli, l’interesse a mantenere in piedi un sistema di welfare come quello degli anni ’50 e ’60 è molto basso, se non inesistente. E dunque le risorse investite nello stato sociale vengono considerate non più sostenibili, nella presunzione che il mercato è in grado di fornire gli stessi servizi meglio e a prezzi più bassi e che la classe media pur proletarizzandosi può accedere comunque ai beni e servizi grazie all’economia del low cost.
Ci hanno voluto convincere che il servizio pubblico è per sua natura il luogo degli sprechi e della bassa produttività per farci dimenticare che questo è il risultato del fatto che è stato ed è il luogo privilegiato degli scambi a fini elettorali e del ricatto istituzionale. Il pubblico potrebbe essere virtuoso quanto e direi più del privato in una valutazione di insieme, se solo non fosse pesantemente inquinato.
Dovremmo ricordare che l'umanità è la stessa ovunque e in qualunque contesto, e i suoi bassi istinti attendono solo l'occasione per potersi manifestare. Dall'altro lato, però, anche le sue idealità - come ci mostra Loach - possono trovare espressione se le condizioni lo favoriscono.
È chiaro, sono discorsi complessi e io non sono un’economista. Ma Loach fa benissimo a sollevarli e a ricordarci che esiste un’alternativa a quello che stiamo vivendo e che per questa alternativa vale ancora la pena lottare.
Grazie Ken.
Voto: 4/5
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