Il Clooney regista sceglie il richiamo all'assassinio di Giulio Cesare per ricordarci che da sempre potere e politica portano con sé ambizione, competizione, intrighi, assenza di scrupoli.
E così la congiura contro Cesare diventa il simbolo di tutti gli inevitabili complotti consumati in nome della scalata al potere (certo un riferimento culturale un po' banale, che però diventa elevato nel mondo hollywoodiano!).
Guardare il film di Clooney mi ha fatto tornare in mente un articolo letto recentemente che esplicitamente si intitola Perché emergono i peggiori? , in cui vengono spiegate le basi scientifiche - illustrate già in un testo di settant'anni fa di Von Hayek - per cui a certe posizioni di potere si arriva solo attraverso l'allargamento del consenso, l'accettazione del compromesso e dell'immoralità, la dinamica del conflitto, la propaganda.
Qui l'arena in cui si sviluppa il gioco di potere è rappresentata dalle primarie americane, in cui all'interno del partito democratico, il candidato Mike Morris (George Clooney) sta portando avanti una campagna nella quale è sostenuto da un giovane esperto di comunicazione, Stephen Meyers (Ryan Gosling), sotto la guida del più anziano Paul Zara (Philip Seymour Hoffman).
Nella prima metà del film sembra tutto piuttosto chiaro e lineare. Stephen è un ragazzo certamente ambizioso, ma crede veramente nel governatore Morris e nel fatto che questi rappresenti un'alternativa per l'America. E ci crede al punto tale che sostanzialmente ha sacrificato la sua vita personale per concentrare tutte le sue energie sull'obiettivo finale. Tutto ciò che non è campagna elettorale sembra nella vita di Stephen un contorno, un riempitivo, un vezzo che non lascia segni né sul suo volto né sulla sua quotidianità. Stephen è imperturbabile e determinato.
Mike Morris sembra davvero il candidato che tutti vorremmo. Bello e affascinante, ma anche portatore di un pensiero, di idee e contenuti che non sono la fotocopia di ciò che gli viene messo in bocca, ma l'elaborazione fatta congiuntamente con il suo staff. Un marito affettuoso e sinceramente innamorato di sua moglie. Pronto persino a rifiutare qualche compromesso in nome della trasparenza della sua immagine.
Paul è un habitué delle campagne elettorali, fisicamente e psicologicamente sfatto da un mondo difficile e da una tensione elevata, ma efficace, attento, capace di gestire le situazioni più delicate. Uomo che pur avendo accettato mille compromessi ha una sua, incrollabile, etica personale.
Alcuni eventi inaspettati faranno franare questo fragile castello di carta, mettendo a nudo le ambiguità di ciascuno e mostrando il vero volto di un mondo in cui le facce sono quasi sempre maschere, in cui la fedeltà alle idee è solo uno slogan.
Il governatore Morris non è il candidato senza macchia e senza paura che immaginavamo. E chissà se crede realmente in quello che va sbandierando durante i suoi discorsi pubblici.
Stephen compirà una vera e propria discesa agli inferi della propria anima, le cui premesse sono però tutte in una divorante ambizione e in una presunzione che forse si sono cinicamente servite fin dal principio del possibile cavallo vincente.
Lo stesso Paul, che a un certo punto appare l'agnello sacrificale, è disposto a dimenticare e mettere da parte tutto in cambio di un futuro sereno e pieno di soldi.
La mia amica G. ha visto un finale aperto in questo film. Io ci ho visto l'inevitabile epilogo di queste premesse che sarebbe stato ridondante esplicitare sullo schermo.
Un film ben fatto. Attori in splendida forma. I dialoghi sono a volte un po' ingessati (forse perché risentono un po' troppo dell'origine teatrale).
Il problema vero, però, è che niente ci scandalizza più sul serio. Tutto sembra già visto e conosciuto. E per questo il film risulta alla fine un po' scontato.
Forse la tragedia è proprio questa.
La crisi della democrazia per come l'abbiamo conosciuta è sotto gli occhi di tutti. Ma se i meccanismi perversi del potere sono insiti nella natura umana esistono dei correttivi che possono creare le condizioni di un buon governo?
Voto: 3/5
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