In una delle prime scene del film-documentario realizzato da Wim Wenders insieme a Pina Bausch e poi a lei dedicato dopo la sua morte - avvenuta prima della fine delle riprese -, quest’ultima dice che la danza inizia dove finiscono le parole.
A Wenders non deve essere costato molto restare fedele a questo assunto di base. Infatti, nel film di parole ce ne sono davvero poche, perché a farla da padrone sono appunto la danza, nell’incontrarsi dei corpi che si muovono all’interno di uno spazio, e la musica, che interpreta e viene interpretata da questi corpi in movimento.
Persino le interviste ai ballerini che hanno lavorato con Pina sono in realtà dei ritratti muti, in cui le parole fluttuano autonomamente come fossero pensieri. Ciascun ritratto introduce una coreografia, una performance, un racconto danzato, di cui il ballerino con cui abbiamo fatto conoscenza è il protagonista.
Alla fine a venir fuori è non tanto il ritratto di Pina, ma la vera immagine di sé che ciascun ballerino ha messo a fuoco proprio grazie all’insegnamento della coreografa tedesca, grazie al suo stimolo a fare della danza il proprio strumento di ricerca.
Così, ogni coreografia è umanizzata (e arricchita di significati) dalla conoscenza del suo protagonista, e al contempo acquista una natura rarefatta e leggera che le dà un respiro universale.
Il film ci investe con un profluvio di immagini e di emozioni, in cui l’intensità dei movimenti dei corpi viene amplificata dalla loro interazione con gli elementi naturali (la terra, l’acqua, la roccia…) e dalle straordinarie ambientazioni naturalistiche e metropolitane. I ballerini passano così da paesaggi brulli e desolati, quasi lunari a foreste rigogliose e corsi d’acqua, da architetture industriali abbandonate a spazi interamente vetrati, dalle strade cittadine alla metropolitana sospesa su monorotaia.
Questi veri e propri quadri in movimento non sono solo il risultato di una ricerca puramente estetica, bensì costituiscono la sintesi corporea di sentimenti che vanno dalla gioia alla solitudine, dalla fiducia all’inganno, dall’amore all’oppressione, dalla follia alla forza, dall'angoscia al divertimento.
Difficile isolare le singole parti di questo racconto che appare fondamentalmente unitario. Ciascuno spettatore sarà inevitabilmente attratto da ciò che più risuona con le corde della sua sensibilità, e di cui dunque conserverà più nitidamente il ricordo. Per quanto mi riguarda ho trovato toccante la coreografia che mette in relazione due uomini nella casa di vetro, sulla musica di Simon Diaz Luna de Margarita:
Così come ho sentito liberatorio il ballo collettivo con e nell’acqua:
Ma faccio davvero fatica a non citare qui tanti altri passaggi sorprendenti, divertenti, spiazzanti, sconcertanti, inquietanti, affrancanti. Pina di Wenders ci costringe a metterci in gioco lasciandoci andare alle emozioni, senza la pretesa di capire, di tradurre in parole, di razionalizzare.
In questo senso per la prima volta il 3D diventa davvero funzionale al film, perché conferisce rotondità, peso e leggerezza ai corpi. Forse però proprio per questo, esso finisce per risultare insoddisfacente perché crea un’illusione di fisicità senza in realtà realizzarla per davvero.
Che amiate o no la danza, correte a vedere Pina finché siete in tempo. E non lasciatevi scappare la colonna sonora.
Voto: 4/5
domenica 29 gennaio 2012
giovedì 26 gennaio 2012
Le idi di marzo
Il Clooney regista sceglie il richiamo all'assassinio di Giulio Cesare per ricordarci che da sempre potere e politica portano con sé ambizione, competizione, intrighi, assenza di scrupoli.
E così la congiura contro Cesare diventa il simbolo di tutti gli inevitabili complotti consumati in nome della scalata al potere (certo un riferimento culturale un po' banale, che però diventa elevato nel mondo hollywoodiano!).
Guardare il film di Clooney mi ha fatto tornare in mente un articolo letto recentemente che esplicitamente si intitola Perché emergono i peggiori? , in cui vengono spiegate le basi scientifiche - illustrate già in un testo di settant'anni fa di Von Hayek - per cui a certe posizioni di potere si arriva solo attraverso l'allargamento del consenso, l'accettazione del compromesso e dell'immoralità, la dinamica del conflitto, la propaganda.
Qui l'arena in cui si sviluppa il gioco di potere è rappresentata dalle primarie americane, in cui all'interno del partito democratico, il candidato Mike Morris (George Clooney) sta portando avanti una campagna nella quale è sostenuto da un giovane esperto di comunicazione, Stephen Meyers (Ryan Gosling), sotto la guida del più anziano Paul Zara (Philip Seymour Hoffman).
Nella prima metà del film sembra tutto piuttosto chiaro e lineare. Stephen è un ragazzo certamente ambizioso, ma crede veramente nel governatore Morris e nel fatto che questi rappresenti un'alternativa per l'America. E ci crede al punto tale che sostanzialmente ha sacrificato la sua vita personale per concentrare tutte le sue energie sull'obiettivo finale. Tutto ciò che non è campagna elettorale sembra nella vita di Stephen un contorno, un riempitivo, un vezzo che non lascia segni né sul suo volto né sulla sua quotidianità. Stephen è imperturbabile e determinato.
Mike Morris sembra davvero il candidato che tutti vorremmo. Bello e affascinante, ma anche portatore di un pensiero, di idee e contenuti che non sono la fotocopia di ciò che gli viene messo in bocca, ma l'elaborazione fatta congiuntamente con il suo staff. Un marito affettuoso e sinceramente innamorato di sua moglie. Pronto persino a rifiutare qualche compromesso in nome della trasparenza della sua immagine.
Paul è un habitué delle campagne elettorali, fisicamente e psicologicamente sfatto da un mondo difficile e da una tensione elevata, ma efficace, attento, capace di gestire le situazioni più delicate. Uomo che pur avendo accettato mille compromessi ha una sua, incrollabile, etica personale.
Alcuni eventi inaspettati faranno franare questo fragile castello di carta, mettendo a nudo le ambiguità di ciascuno e mostrando il vero volto di un mondo in cui le facce sono quasi sempre maschere, in cui la fedeltà alle idee è solo uno slogan.
Il governatore Morris non è il candidato senza macchia e senza paura che immaginavamo. E chissà se crede realmente in quello che va sbandierando durante i suoi discorsi pubblici.
Stephen compirà una vera e propria discesa agli inferi della propria anima, le cui premesse sono però tutte in una divorante ambizione e in una presunzione che forse si sono cinicamente servite fin dal principio del possibile cavallo vincente.
Lo stesso Paul, che a un certo punto appare l'agnello sacrificale, è disposto a dimenticare e mettere da parte tutto in cambio di un futuro sereno e pieno di soldi.
La mia amica G. ha visto un finale aperto in questo film. Io ci ho visto l'inevitabile epilogo di queste premesse che sarebbe stato ridondante esplicitare sullo schermo.
Un film ben fatto. Attori in splendida forma. I dialoghi sono a volte un po' ingessati (forse perché risentono un po' troppo dell'origine teatrale).
Il problema vero, però, è che niente ci scandalizza più sul serio. Tutto sembra già visto e conosciuto. E per questo il film risulta alla fine un po' scontato.
Forse la tragedia è proprio questa.
La crisi della democrazia per come l'abbiamo conosciuta è sotto gli occhi di tutti. Ma se i meccanismi perversi del potere sono insiti nella natura umana esistono dei correttivi che possono creare le condizioni di un buon governo?
Voto: 3/5
E così la congiura contro Cesare diventa il simbolo di tutti gli inevitabili complotti consumati in nome della scalata al potere (certo un riferimento culturale un po' banale, che però diventa elevato nel mondo hollywoodiano!).
Guardare il film di Clooney mi ha fatto tornare in mente un articolo letto recentemente che esplicitamente si intitola Perché emergono i peggiori? , in cui vengono spiegate le basi scientifiche - illustrate già in un testo di settant'anni fa di Von Hayek - per cui a certe posizioni di potere si arriva solo attraverso l'allargamento del consenso, l'accettazione del compromesso e dell'immoralità, la dinamica del conflitto, la propaganda.
Qui l'arena in cui si sviluppa il gioco di potere è rappresentata dalle primarie americane, in cui all'interno del partito democratico, il candidato Mike Morris (George Clooney) sta portando avanti una campagna nella quale è sostenuto da un giovane esperto di comunicazione, Stephen Meyers (Ryan Gosling), sotto la guida del più anziano Paul Zara (Philip Seymour Hoffman).
Nella prima metà del film sembra tutto piuttosto chiaro e lineare. Stephen è un ragazzo certamente ambizioso, ma crede veramente nel governatore Morris e nel fatto che questi rappresenti un'alternativa per l'America. E ci crede al punto tale che sostanzialmente ha sacrificato la sua vita personale per concentrare tutte le sue energie sull'obiettivo finale. Tutto ciò che non è campagna elettorale sembra nella vita di Stephen un contorno, un riempitivo, un vezzo che non lascia segni né sul suo volto né sulla sua quotidianità. Stephen è imperturbabile e determinato.
Mike Morris sembra davvero il candidato che tutti vorremmo. Bello e affascinante, ma anche portatore di un pensiero, di idee e contenuti che non sono la fotocopia di ciò che gli viene messo in bocca, ma l'elaborazione fatta congiuntamente con il suo staff. Un marito affettuoso e sinceramente innamorato di sua moglie. Pronto persino a rifiutare qualche compromesso in nome della trasparenza della sua immagine.
Paul è un habitué delle campagne elettorali, fisicamente e psicologicamente sfatto da un mondo difficile e da una tensione elevata, ma efficace, attento, capace di gestire le situazioni più delicate. Uomo che pur avendo accettato mille compromessi ha una sua, incrollabile, etica personale.
Alcuni eventi inaspettati faranno franare questo fragile castello di carta, mettendo a nudo le ambiguità di ciascuno e mostrando il vero volto di un mondo in cui le facce sono quasi sempre maschere, in cui la fedeltà alle idee è solo uno slogan.
Il governatore Morris non è il candidato senza macchia e senza paura che immaginavamo. E chissà se crede realmente in quello che va sbandierando durante i suoi discorsi pubblici.
Stephen compirà una vera e propria discesa agli inferi della propria anima, le cui premesse sono però tutte in una divorante ambizione e in una presunzione che forse si sono cinicamente servite fin dal principio del possibile cavallo vincente.
Lo stesso Paul, che a un certo punto appare l'agnello sacrificale, è disposto a dimenticare e mettere da parte tutto in cambio di un futuro sereno e pieno di soldi.
La mia amica G. ha visto un finale aperto in questo film. Io ci ho visto l'inevitabile epilogo di queste premesse che sarebbe stato ridondante esplicitare sullo schermo.
Un film ben fatto. Attori in splendida forma. I dialoghi sono a volte un po' ingessati (forse perché risentono un po' troppo dell'origine teatrale).
Il problema vero, però, è che niente ci scandalizza più sul serio. Tutto sembra già visto e conosciuto. E per questo il film risulta alla fine un po' scontato.
Forse la tragedia è proprio questa.
La crisi della democrazia per come l'abbiamo conosciuta è sotto gli occhi di tutti. Ma se i meccanismi perversi del potere sono insiti nella natura umana esistono dei correttivi che possono creare le condizioni di un buon governo?
Voto: 3/5
martedì 24 gennaio 2012
J. Edgar
Dopo essere riuscita a evitare Hereafter (che per fortuna mi sono rifiutata di andare a vedere) non sono riuscita invece a sfuggire a J. Edgar, perché come si fa a non andare a vedere un film di Eastwood che molta critica dice essere forse il suo migliore?
E ci sono andata cercando di liberare la mente del pregiudizio che mi attanaglia ormai da qualche anno nei confronti del Clint Eastwood regista.
Per questo inizierò col dire che questa passeggiata in cinquant'anni di storia americana (quelli durante i quali J. Edgar Hoover è stato a capo dell'FBI) è affascinante, perché sa rendere perfettamente non solo il clima di un paese in un preciso (per quanto lungo) momento storico, ma getta anche luce sulle origini e le modalità di costruzione di una cultura americana da sempre in bilico tra apertura e chiusura, libertà e paranoica ossessione per la sicurezza, rispetto della legalità e necessità dell'illegalità, forma e sostanza, essere e apparire.
Aggiungerò che la figura di J. Edgar Hoover è perfetta per rappresentare l'ambiguità di questi valori/disvalori e Leonardo Di Caprio è magistrale nel conferire complessità a questo personaggio che nelle intenzioni del regista dovrebbe essere difficile amare o odiare integralmente.
Bene. Dopo aver fatto contenti tutti gli amanti del cinema di Eastwood, credo di essere autorizzata a togliermi qualche sassolino dalla scarpa.
Vogliamo forse parlare del trucco utilizzato per invecchiare i personaggi e renderli credibili dopo quarant'anni? Il collaboratore e compagno di una vita di J. Edgar, Clyde Tolson (Armie Hammer), viene trasformato in una specie di manichino, con la faccia coperta di botox che rende impossibile al povero Armie qualunque espressione facciale lasciando solo ai suoi occhi la possibilità di esprimere il dolore, la delusione, la rabbia. Un po' meglio va con lo stesso Hoover e con la sua segreteria Helen Gandy (Naomi Watts), che - pur sottoposti allo stesso trattamento - risultano anche da vecchi un po' più credibili e naturali. E vabbè che la critica ha voluto vedere in questo un gioco di mascheramento/smascheramento, ma sinceramente questa spiegazione mi pare un po' tirata per i capelli. E il ridicolo resta lì, proprio dietro l'angolo.
Passiamo adesso al personaggio di Hoover. In sostanza un disadattato, vittima di una forma acuta di paranoia e ossessività, legato da un rapporto morboso con una madre autoritaria (Judi Dench), ambizioso quasi al limite del delirio di onnipotenza, votato anima e corpo alla missione di liberare l'America dai suoi nemici, costretto nelle maglie strette dell'irreprensibilità di un'immagine pubblica al punto da soffocare per una vita la propria natura e i propri sentimenti. A parte il fatto inquietante che tale personaggio mi ricorda qualcuno (evidentemente la realtà può addirittura superare la fantasia!), continuo a non riuscire a mandare giù l'estremismo senile di quel vecchio conservatore che è Clint Eastwood e che mi pare si ribalti integralmente sulla figura di Edgar.
Forse nella mente di Clint il tutto voleva essere sfaccettato e critico, ma alla fine per me non riesce a non risultare monodimensionale.
E poi, possibile che l'ossessione di Edgar per la catalogazione dei fascicoli dei criminali e degli uomini di potere debba essere messa in relazione con la sua presunta invenzione di un sistema di catalogazione/classificazione dei libri della Library of Congress, portando con sé l'inevitabile accoppiata bibliotecario/ossessività? Non sarò certo io a difendere una professione che ha contribuito a costruire il suo proprio stereotipo, però insomma... qualche bibliotecario/a non patologico esiste ;-)
E infine: insomma, cos'è che esattamente Eastwood voleva comunicarci con questo film? Una riflessione critica sull'America di oggi dimostrando la ricorrenza di una specie di difetto di fabbrica? La pietas umana per un uomo vanaglorioso e fragile fino a tramutare il disprezzo che suscita in compassione se non addirittura ammirazione? L'intreccio inestricabile tra la storia di una nazione e quella dei singoli individui che l'hanno fatta? La complessa dinamica pubblico/privato?
Ammetto di non essere in grado di fare una recensione seria di questo film. E non è la prima volta che mi capita con i film di Eastwood, in cui il l'involontario ridicolo e il nonsenso dell'eccesso di senso sono sempre un po' in agguato.
Scusate, il pregiudizio ha preso il sopravvento.
Voto: 2,5/5
E ci sono andata cercando di liberare la mente del pregiudizio che mi attanaglia ormai da qualche anno nei confronti del Clint Eastwood regista.
Per questo inizierò col dire che questa passeggiata in cinquant'anni di storia americana (quelli durante i quali J. Edgar Hoover è stato a capo dell'FBI) è affascinante, perché sa rendere perfettamente non solo il clima di un paese in un preciso (per quanto lungo) momento storico, ma getta anche luce sulle origini e le modalità di costruzione di una cultura americana da sempre in bilico tra apertura e chiusura, libertà e paranoica ossessione per la sicurezza, rispetto della legalità e necessità dell'illegalità, forma e sostanza, essere e apparire.
Aggiungerò che la figura di J. Edgar Hoover è perfetta per rappresentare l'ambiguità di questi valori/disvalori e Leonardo Di Caprio è magistrale nel conferire complessità a questo personaggio che nelle intenzioni del regista dovrebbe essere difficile amare o odiare integralmente.
Bene. Dopo aver fatto contenti tutti gli amanti del cinema di Eastwood, credo di essere autorizzata a togliermi qualche sassolino dalla scarpa.
Vogliamo forse parlare del trucco utilizzato per invecchiare i personaggi e renderli credibili dopo quarant'anni? Il collaboratore e compagno di una vita di J. Edgar, Clyde Tolson (Armie Hammer), viene trasformato in una specie di manichino, con la faccia coperta di botox che rende impossibile al povero Armie qualunque espressione facciale lasciando solo ai suoi occhi la possibilità di esprimere il dolore, la delusione, la rabbia. Un po' meglio va con lo stesso Hoover e con la sua segreteria Helen Gandy (Naomi Watts), che - pur sottoposti allo stesso trattamento - risultano anche da vecchi un po' più credibili e naturali. E vabbè che la critica ha voluto vedere in questo un gioco di mascheramento/smascheramento, ma sinceramente questa spiegazione mi pare un po' tirata per i capelli. E il ridicolo resta lì, proprio dietro l'angolo.
Passiamo adesso al personaggio di Hoover. In sostanza un disadattato, vittima di una forma acuta di paranoia e ossessività, legato da un rapporto morboso con una madre autoritaria (Judi Dench), ambizioso quasi al limite del delirio di onnipotenza, votato anima e corpo alla missione di liberare l'America dai suoi nemici, costretto nelle maglie strette dell'irreprensibilità di un'immagine pubblica al punto da soffocare per una vita la propria natura e i propri sentimenti. A parte il fatto inquietante che tale personaggio mi ricorda qualcuno (evidentemente la realtà può addirittura superare la fantasia!), continuo a non riuscire a mandare giù l'estremismo senile di quel vecchio conservatore che è Clint Eastwood e che mi pare si ribalti integralmente sulla figura di Edgar.
Forse nella mente di Clint il tutto voleva essere sfaccettato e critico, ma alla fine per me non riesce a non risultare monodimensionale.
E poi, possibile che l'ossessione di Edgar per la catalogazione dei fascicoli dei criminali e degli uomini di potere debba essere messa in relazione con la sua presunta invenzione di un sistema di catalogazione/classificazione dei libri della Library of Congress, portando con sé l'inevitabile accoppiata bibliotecario/ossessività? Non sarò certo io a difendere una professione che ha contribuito a costruire il suo proprio stereotipo, però insomma... qualche bibliotecario/a non patologico esiste ;-)
E infine: insomma, cos'è che esattamente Eastwood voleva comunicarci con questo film? Una riflessione critica sull'America di oggi dimostrando la ricorrenza di una specie di difetto di fabbrica? La pietas umana per un uomo vanaglorioso e fragile fino a tramutare il disprezzo che suscita in compassione se non addirittura ammirazione? L'intreccio inestricabile tra la storia di una nazione e quella dei singoli individui che l'hanno fatta? La complessa dinamica pubblico/privato?
Ammetto di non essere in grado di fare una recensione seria di questo film. E non è la prima volta che mi capita con i film di Eastwood, in cui il l'involontario ridicolo e il nonsenso dell'eccesso di senso sono sempre un po' in agguato.
Scusate, il pregiudizio ha preso il sopravvento.
Voto: 2,5/5
venerdì 20 gennaio 2012
Tu sei il male / Roberto Costantini
Tu sei il male / Roberto Costantini. Venezia: Marsilio, 2011.
Roberto Costantini dimostra di conoscere molto bene la città di Roma, i suoi abitanti e i suoi modi di vivere, come solo chi ci è nato ovvero chi ci è vissuto sufficientemente a lungo possono realmente sapere.
Dimostra inoltre di conoscere i rapporti inestricabili che – con particolare evidenza nella città di Roma - legano la politica nazionale e locale, il Vaticano, i servizi segreti e le forze dell’ordine, come solo chi frequenta ambienti e contesti molto vicini alle dinamiche di potere che stanno dietro questi rapporti inestricabili può sapere.
Il tutto però rende il suo romanzo d’esordio, Tu sei il male (il primo di una trilogia), un racconto molto realistico e coinvolgente. Nonostante le sue dimensioni, è uno di quei gialli che si leggono tutto d’un fiato (e tutto sommato è meglio leggere tutto d’un fiato per evitare di perdersi nella selva dei personaggi e nella ricostruzione di tutti i vari filoni dell’indagine).
La storia si svolge su un arco temporale piuttosto lungo, quello che va dall’estate del 1982, in particolare dai giorni della vittoria dell’Italia al mondiale spagnolo, all’estate del 2006, quella della vittoria dell’Italia al mondiale tedesco. Questo arco temporale si apre con la scomparsa e l’omicidio della giovane Elisa Sordi e si chiude con il suicidio della madre che riaprirà il caso collegandolo ad altri omicidi di giovani donne avvenuti nel frattempo.
Protagonista è il commissario Michele Balistreri che nel 1983 era un giovane commissario di polizia con un passato di militanza politica nell’estrema destra, scapestrato, donnaiolo, gran fumatore e bevitore, eccessivo nei comportamenti e nelle reazioni, ma ritroviamo all’inizio del 2000 depresso, solo, lacerato dai rimorsi del passato, ma anche più saggio, più equilibrato, dotato di maggiore onestà intellettuale.
Un personaggio dolente quello di Balistreri, che a volte vorresti consolare, a volte prenderesti volentieri a schiaffi.
Intorno a lui si muovono i personaggi vividissimi dell’amico Angelo, dei collaboratori Giulia Piccolo e Graziano Corvu, del questore Floris, della giornalista Linda Nardi e di tutta quella congerie di figure che popolano una storia molto articolata com’è quella che Costantini ci racconta.
La soluzione del giallo è almeno altrettanto complessa, perché nel mondo difficile e sfaccettato disegnato dall’autore non c’è un solo colpevole, un’unica responsabilità, un capro espiatorio, ma tutti vengono chiamati a fare i conti con la loro coscienza, anche gli uomini di Chiesa e il Vaticano.
La lettura di questo romanzo non lascia scampo. Ci cattura con una scrittura fluida, ma rigorosa, con una "sceneggiatura" estremamente ben studiata. Alla fine, qualche ripetizione potrà infastidire un po’, così come alcune piste in qualche modo non del tutto risolte potranno risultare volontariamente fuorvianti o poco funzionali. Però, il puzzle alla fine si compone, i pezzi vanno al loro posto, la figura si forma in ogni suo dettaglio, nessun elemento rimane veramente inutilizzato. E questo è un gran merito.
Così come è un gran merito averci fatto fare la conoscenza di Michele Balistreri, un personaggio così complesso ma reale che difficilmente si dimentica e che in qualche modo rappresenta il fulcro della storia, il suo vero protagonista, il quale per primo dovrà mettersi di fronte alla propria coscienza e alle scelte della propria vita.
Bravo Costantini. Che sia nato un vero, nuovo giallista italiano?
Voto: 4,5/5
Roberto Costantini dimostra di conoscere molto bene la città di Roma, i suoi abitanti e i suoi modi di vivere, come solo chi ci è nato ovvero chi ci è vissuto sufficientemente a lungo possono realmente sapere.
Dimostra inoltre di conoscere i rapporti inestricabili che – con particolare evidenza nella città di Roma - legano la politica nazionale e locale, il Vaticano, i servizi segreti e le forze dell’ordine, come solo chi frequenta ambienti e contesti molto vicini alle dinamiche di potere che stanno dietro questi rapporti inestricabili può sapere.
Il tutto però rende il suo romanzo d’esordio, Tu sei il male (il primo di una trilogia), un racconto molto realistico e coinvolgente. Nonostante le sue dimensioni, è uno di quei gialli che si leggono tutto d’un fiato (e tutto sommato è meglio leggere tutto d’un fiato per evitare di perdersi nella selva dei personaggi e nella ricostruzione di tutti i vari filoni dell’indagine).
La storia si svolge su un arco temporale piuttosto lungo, quello che va dall’estate del 1982, in particolare dai giorni della vittoria dell’Italia al mondiale spagnolo, all’estate del 2006, quella della vittoria dell’Italia al mondiale tedesco. Questo arco temporale si apre con la scomparsa e l’omicidio della giovane Elisa Sordi e si chiude con il suicidio della madre che riaprirà il caso collegandolo ad altri omicidi di giovani donne avvenuti nel frattempo.
Protagonista è il commissario Michele Balistreri che nel 1983 era un giovane commissario di polizia con un passato di militanza politica nell’estrema destra, scapestrato, donnaiolo, gran fumatore e bevitore, eccessivo nei comportamenti e nelle reazioni, ma ritroviamo all’inizio del 2000 depresso, solo, lacerato dai rimorsi del passato, ma anche più saggio, più equilibrato, dotato di maggiore onestà intellettuale.
Un personaggio dolente quello di Balistreri, che a volte vorresti consolare, a volte prenderesti volentieri a schiaffi.
Intorno a lui si muovono i personaggi vividissimi dell’amico Angelo, dei collaboratori Giulia Piccolo e Graziano Corvu, del questore Floris, della giornalista Linda Nardi e di tutta quella congerie di figure che popolano una storia molto articolata com’è quella che Costantini ci racconta.
La soluzione del giallo è almeno altrettanto complessa, perché nel mondo difficile e sfaccettato disegnato dall’autore non c’è un solo colpevole, un’unica responsabilità, un capro espiatorio, ma tutti vengono chiamati a fare i conti con la loro coscienza, anche gli uomini di Chiesa e il Vaticano.
La lettura di questo romanzo non lascia scampo. Ci cattura con una scrittura fluida, ma rigorosa, con una "sceneggiatura" estremamente ben studiata. Alla fine, qualche ripetizione potrà infastidire un po’, così come alcune piste in qualche modo non del tutto risolte potranno risultare volontariamente fuorvianti o poco funzionali. Però, il puzzle alla fine si compone, i pezzi vanno al loro posto, la figura si forma in ogni suo dettaglio, nessun elemento rimane veramente inutilizzato. E questo è un gran merito.
Così come è un gran merito averci fatto fare la conoscenza di Michele Balistreri, un personaggio così complesso ma reale che difficilmente si dimentica e che in qualche modo rappresenta il fulcro della storia, il suo vero protagonista, il quale per primo dovrà mettersi di fronte alla propria coscienza e alle scelte della propria vita.
Bravo Costantini. Che sia nato un vero, nuovo giallista italiano?
Voto: 4,5/5
martedì 17 gennaio 2012
Almanya: La mia famiglia va in Germania
Mescolate East is East con Little Miss Sunshine e avrete un’idea di Almanya, il cui sottotitolo in italiano è diventato La mia famiglia va in Germania forse perché la traduzione, dell’originale Benvenuti in Germania, sarebbe risultato inflazionato dopo il proliferare di film come Benvenuti al Sud e Benvenuti al Nord.
Di East is East ha il tema di fondo: il rapporto degli immigrati di generazioni diverse con la patria d’origine e quella acquisita. Di Little Miss Sunshine rispolvera il tema della famiglia allargata e delle sue dinamiche disfunzionali, in particolare insiste sul rapporto tra una meravigliosa figura di nonno e i suoi nipoti, in particolare il più piccolo, che è in un certo senso il depositario del suo spirito.
Almanya parla infatti della storia di Hüseyin Yilmaz (interpretato da Vedat Erincin da anziano e Fahri Ogün Yardim da giovane), un turco dell’Anatolia, che dopo aver sposato Fatma contro la volontà dei genitori di lei, per garantire alla moglie e ai suoi tre figli (due maschi e una femmina) un’esistenza dignitosa si trasferisce a lavorare in Germania (negli anni Cinquanta). Dopo qualche anno l’intera famiglia lo raggiunge in Germania e lì nasce un quarto figlio. Passano quarant’anni in cui i figli diventano grandi e si fanno le loro famiglie, mescolandosi con i tedeschi ed abituandosi sempre di più alla vita e alla cultura tedesche.
Hüseyin è ormai anziano. Ha il passaporto tedesco, come da tempo desidera sua moglie, e una famiglia allargata molto bella, in cui ai figli si sono aggiunti i nipoti, in particolare Canan (Aylin Tezel), la figlia di sua figlia in età universitaria (incinta di un ragazzo inglese), e Cenk (Rafael Koussouris), il figlio di suo figlio più piccolo, che ha non più di 7-8 anni, frequenta la scuola elementare e soffre del fatto che nella cartina che ha in classe l’Anatolia non c’è, perché i confini dell’Europa arrivano solo fino a Istanbul.
Il desiderio più grande di Hüseyin a questo punto della vita è di tornare in Anatolia, dove ha comprato una piccola casa. Così, organizza un viaggio che li porterà a Istanbul e di lì, con un pulmino, nel loro paese natio.
In questa famiglia di immigrati turchi ci sono almeno tre diverse generazioni.
I nonni che pur vivendo in Germania non hanno mai davvero perso il legame con le loro abitudini e la loro cultura d’origine e in qualche modo si sono sempre sentiti ospiti in Germania, i figli (in particolare i tre più grandi nati in Turchia) hanno vissuto tutte le difficoltà di essere la generazione di mezzo, né turchi né tedeschi, privi di veri riferimenti culturali , sospesi tra il passato e il presente; i nipoti sono tedeschi in tutto e per tutto, stanno perdendo anche la conoscenza della lingua di origine, eppure la consapevolezza di essere altro dai tedeschi rimane forte.
Almanya è un film leggero e malinconico, a tratti un po’ favolistico e surreale, in cui la rappresentazione del presente e del passato è distorta dal racconto che ne fa la nipote più grande (e che è certamente il risultato di una specie di tradizione orale) e dallo sguardo sproporzionato di Cenk.
Per tutti questi motivi, il film non si può certo definire realistico. Non si parla veramente di immigrazione e dei suoi problemi. Non si accenna minimamente alla difficile integrazione tra culture. I turchi sono sognatori e gran lavoratori, i tedeschi sono accoglienti e pieni di gratitudine.
Il tutto però riesce ad essere incredibilmente empatico, al punto che bisogna essere molto cinici per non farsi spuntare una lacrimuccia. In fondo si può dire che Almanya non è un film sull’immigrazione, bensì sul rapporto con le proprie origini. Perché chiunque abbia sperimentato l’allontanamento dal luogo dove è nato o da cui proviene la sua famiglia conosce perfettamente questo sentimento indefinito che è – allo stesso tempo - un legame indissolubile, un senso di spaesamento, un’appartenenza multipla, il bisogno della ricerca di un’identità, un rifiuto e un’attrazione difficili da governare. E soprattutto impara a capire la relatività delle proprie convinzioni e dei propri gusti, spesso risultato di situazioni contingenti piuttosto che di condizioni assolute e predeterminate.
Voto: 3,5/5
Di East is East ha il tema di fondo: il rapporto degli immigrati di generazioni diverse con la patria d’origine e quella acquisita. Di Little Miss Sunshine rispolvera il tema della famiglia allargata e delle sue dinamiche disfunzionali, in particolare insiste sul rapporto tra una meravigliosa figura di nonno e i suoi nipoti, in particolare il più piccolo, che è in un certo senso il depositario del suo spirito.
Almanya parla infatti della storia di Hüseyin Yilmaz (interpretato da Vedat Erincin da anziano e Fahri Ogün Yardim da giovane), un turco dell’Anatolia, che dopo aver sposato Fatma contro la volontà dei genitori di lei, per garantire alla moglie e ai suoi tre figli (due maschi e una femmina) un’esistenza dignitosa si trasferisce a lavorare in Germania (negli anni Cinquanta). Dopo qualche anno l’intera famiglia lo raggiunge in Germania e lì nasce un quarto figlio. Passano quarant’anni in cui i figli diventano grandi e si fanno le loro famiglie, mescolandosi con i tedeschi ed abituandosi sempre di più alla vita e alla cultura tedesche.
Hüseyin è ormai anziano. Ha il passaporto tedesco, come da tempo desidera sua moglie, e una famiglia allargata molto bella, in cui ai figli si sono aggiunti i nipoti, in particolare Canan (Aylin Tezel), la figlia di sua figlia in età universitaria (incinta di un ragazzo inglese), e Cenk (Rafael Koussouris), il figlio di suo figlio più piccolo, che ha non più di 7-8 anni, frequenta la scuola elementare e soffre del fatto che nella cartina che ha in classe l’Anatolia non c’è, perché i confini dell’Europa arrivano solo fino a Istanbul.
Il desiderio più grande di Hüseyin a questo punto della vita è di tornare in Anatolia, dove ha comprato una piccola casa. Così, organizza un viaggio che li porterà a Istanbul e di lì, con un pulmino, nel loro paese natio.
In questa famiglia di immigrati turchi ci sono almeno tre diverse generazioni.
I nonni che pur vivendo in Germania non hanno mai davvero perso il legame con le loro abitudini e la loro cultura d’origine e in qualche modo si sono sempre sentiti ospiti in Germania, i figli (in particolare i tre più grandi nati in Turchia) hanno vissuto tutte le difficoltà di essere la generazione di mezzo, né turchi né tedeschi, privi di veri riferimenti culturali , sospesi tra il passato e il presente; i nipoti sono tedeschi in tutto e per tutto, stanno perdendo anche la conoscenza della lingua di origine, eppure la consapevolezza di essere altro dai tedeschi rimane forte.
Almanya è un film leggero e malinconico, a tratti un po’ favolistico e surreale, in cui la rappresentazione del presente e del passato è distorta dal racconto che ne fa la nipote più grande (e che è certamente il risultato di una specie di tradizione orale) e dallo sguardo sproporzionato di Cenk.
Per tutti questi motivi, il film non si può certo definire realistico. Non si parla veramente di immigrazione e dei suoi problemi. Non si accenna minimamente alla difficile integrazione tra culture. I turchi sono sognatori e gran lavoratori, i tedeschi sono accoglienti e pieni di gratitudine.
Il tutto però riesce ad essere incredibilmente empatico, al punto che bisogna essere molto cinici per non farsi spuntare una lacrimuccia. In fondo si può dire che Almanya non è un film sull’immigrazione, bensì sul rapporto con le proprie origini. Perché chiunque abbia sperimentato l’allontanamento dal luogo dove è nato o da cui proviene la sua famiglia conosce perfettamente questo sentimento indefinito che è – allo stesso tempo - un legame indissolubile, un senso di spaesamento, un’appartenenza multipla, il bisogno della ricerca di un’identità, un rifiuto e un’attrazione difficili da governare. E soprattutto impara a capire la relatività delle proprie convinzioni e dei propri gusti, spesso risultato di situazioni contingenti piuttosto che di condizioni assolute e predeterminate.
Voto: 3,5/5
sabato 14 gennaio 2012
Italy: Love it or leave it
Luca Ragazzi e Gustav Hofer sono letteralmente adorabili.
Il primo è un vero “romano de Roma”, che dei romani ha quella specie di atteggiamento un po’ blasé rispetto alla vita che ne fa la principale forza e anche la principale debolezza; Luca però è un romano della Roma bene, quindi raffinato, colto, consapevole. Insomma, un intellettuale dall’aria rilassata: un mix di straordinario impatto.
Gustav è altoatesino. E, come molti altoatesini, pur vivendo a Roma e parlando italiano ormai da moltissimi anni, continua ad avere un forte accento tedesco. Vestito sempre piuttosto casual, col capello un po’ lungo, è però molto rigidino e intransigente nelle sue idee e nel suo modo di essere. Insomma, un pignolo affascinante: un mix anche questo micidiale.
Luca e Gustav sono una coppia. Ben assortita non c’è dubbio. Ci hanno raccontato la loro bellissima storia e la loro difficoltà ad essere gay in un contesto come quello italiano nel loro primo documentario Improvvisamente, l’inverno scorso, un’opera leggera e profonda al tempo stesso che ha giustamente avuto un grande successo.
Ora Luca e Gustav devono cambiare casa e questa situazione che non si sono scelti li porta a chiedersi se non sia il caso di trasferirsi all’estero, nello specifico a Berlino dove hanno molti amici e dove Gustav sarebbe anche favorito con la lingua. Luca non è convinto.
Così, con una Fiat Cinquecento (quelle originali), che cambia colore e targa ad ogni tappa del loro viaggio, attraversano l’Italia in lungo e in largo per capire se sono più forti i motivi per restare in Italia o quelli per lasciarla. Vi ricordate la trasmissione di Fazio e Saviano, Vieni via con me, in particolare tutti i duetti in cui gli stessi presentatori o i loro ospiti elencavano i motivi per restare o per andare? Ebbene, in Italy: Love it or leave it Luca e Gustav fanno la stessa cosa con l’uso delle immagini e delle bellissime animazioni che spesso esprimono molto di più delle parole.
Il loro docu-trip – come recita la locandina del film – li porterà a vedere molti posti (dal Piemonte al Lago di Como, dalle colline toscane alla Sicilia, dalle campagne della Calabria al centro di Milano, dal mare pugliese alle spiagge di Rimini) e a incontrare molte persone più o meno famose (dagli ex-dipendenti della Bialetti all’operaia della catena di montaggio della Fiat, dagli immigrati di Rosarno all’imprenditore siciliano sotto scorta perché minacciato dalla mafia, da Andrea Camilleri a Nichi Vendola, dal filippino della villa di George Clooney all’attrice napoletana che ha portato in scena il tema dell’immondizia, da Oskar Petrini ai sostenitori di Berlusconi di fronte al palazzo di giustizia di Milano).
Ne viene fuori un ritratto impietoso dell’Italia, un paese di una bellezza struggente, con una storia passata di straordinaria ricchezza, con una cucina di grande qualità che tutti ci invidiano, ma martoriato dalla totale incapacità di affrontare i problemi che derivano dalla complessità del presente o che affondano le proprie radici nella sua storia passata, il tutto alimentato dalla generale decadenza della qualità del tessuto sociale.
Peccato che il racconto nel suo insieme risulti poco incisivo, in un certo senso un po’ banale per chi in questi ultimi due anni ha vissuto in questo paese e ne ha seguito le vicende. Sembra quasi di assistere a un riassunto dei telegiornali del 2009-2010, senza che emergano veramente elementi di novità sostanziale. Forse ci aspetteremmo una soluzione che non c'è.
Da questo film non si esce ottimisti, visto che – senza rivelarvi quale sarà alla fine la scelta di Luca e Gustav – è chiaro che chi decide di restare in questo paese – senza voler entrare nei suoi meccanismi deteriori - lo fa avendo due possibili opzioni: o il menefreghismo più totale, il disinteresse per quello che gli succede intorno, nel tentativo egoistico di preservare la propria esistenza tranquilla, ovvero una strada costantemente in salita, una fatica che non ha mai fine, la necessità – come dice Vendola – di “scalare le montagne”, anche per ciò che sarebbe dovuto e scontato.
Gli esempi italiani positivi che Luca riesce a presentare a Gustav sono esempi di straordinario coraggio di persone ordinarie che hanno deciso di non rassegnarsi ad accettare le cose come sono, ma per questo vivono vite difficili. Non sarebbe forse meglio un paese in cui non c’è bisogno di diventare eroi per vivere da onesti cittadini e fare una vita normale in una società civile e in città vivibili?
Secondo Luca e Gustav non c’è sostanzialmente alternativa tra le due opzioni summenzionate. O almeno forse è questo il messaggio che vogliono portare al di fuori dei nostri confini nazionali, cui il film sembra in realtà primariamente rivolto.
Finito il film Luca e Gustav un po’ ci mancano. Ci sembra di conoscerli da sempre, vorremmo spiegarglielo noi perché rimanere o perché partire alla volta di Berlino. Sì, perché sono persone come noi (in realtà, non esattamente a giudicare da dove vanno a vivere!) e che potrebbe capitare di incontrare, come è successo a me, che – qualche giorno dopo la visione del loro primo documentario – ho incontrato Luca per strada a cavallo della sua bicicletta e ho pensato che avrei potuto persino dirgli ciao.
Voto: 3,5/5
Il primo è un vero “romano de Roma”, che dei romani ha quella specie di atteggiamento un po’ blasé rispetto alla vita che ne fa la principale forza e anche la principale debolezza; Luca però è un romano della Roma bene, quindi raffinato, colto, consapevole. Insomma, un intellettuale dall’aria rilassata: un mix di straordinario impatto.
Gustav è altoatesino. E, come molti altoatesini, pur vivendo a Roma e parlando italiano ormai da moltissimi anni, continua ad avere un forte accento tedesco. Vestito sempre piuttosto casual, col capello un po’ lungo, è però molto rigidino e intransigente nelle sue idee e nel suo modo di essere. Insomma, un pignolo affascinante: un mix anche questo micidiale.
Luca e Gustav sono una coppia. Ben assortita non c’è dubbio. Ci hanno raccontato la loro bellissima storia e la loro difficoltà ad essere gay in un contesto come quello italiano nel loro primo documentario Improvvisamente, l’inverno scorso, un’opera leggera e profonda al tempo stesso che ha giustamente avuto un grande successo.
Ora Luca e Gustav devono cambiare casa e questa situazione che non si sono scelti li porta a chiedersi se non sia il caso di trasferirsi all’estero, nello specifico a Berlino dove hanno molti amici e dove Gustav sarebbe anche favorito con la lingua. Luca non è convinto.
Così, con una Fiat Cinquecento (quelle originali), che cambia colore e targa ad ogni tappa del loro viaggio, attraversano l’Italia in lungo e in largo per capire se sono più forti i motivi per restare in Italia o quelli per lasciarla. Vi ricordate la trasmissione di Fazio e Saviano, Vieni via con me, in particolare tutti i duetti in cui gli stessi presentatori o i loro ospiti elencavano i motivi per restare o per andare? Ebbene, in Italy: Love it or leave it Luca e Gustav fanno la stessa cosa con l’uso delle immagini e delle bellissime animazioni che spesso esprimono molto di più delle parole.
Il loro docu-trip – come recita la locandina del film – li porterà a vedere molti posti (dal Piemonte al Lago di Como, dalle colline toscane alla Sicilia, dalle campagne della Calabria al centro di Milano, dal mare pugliese alle spiagge di Rimini) e a incontrare molte persone più o meno famose (dagli ex-dipendenti della Bialetti all’operaia della catena di montaggio della Fiat, dagli immigrati di Rosarno all’imprenditore siciliano sotto scorta perché minacciato dalla mafia, da Andrea Camilleri a Nichi Vendola, dal filippino della villa di George Clooney all’attrice napoletana che ha portato in scena il tema dell’immondizia, da Oskar Petrini ai sostenitori di Berlusconi di fronte al palazzo di giustizia di Milano).
Ne viene fuori un ritratto impietoso dell’Italia, un paese di una bellezza struggente, con una storia passata di straordinaria ricchezza, con una cucina di grande qualità che tutti ci invidiano, ma martoriato dalla totale incapacità di affrontare i problemi che derivano dalla complessità del presente o che affondano le proprie radici nella sua storia passata, il tutto alimentato dalla generale decadenza della qualità del tessuto sociale.
Peccato che il racconto nel suo insieme risulti poco incisivo, in un certo senso un po’ banale per chi in questi ultimi due anni ha vissuto in questo paese e ne ha seguito le vicende. Sembra quasi di assistere a un riassunto dei telegiornali del 2009-2010, senza che emergano veramente elementi di novità sostanziale. Forse ci aspetteremmo una soluzione che non c'è.
Da questo film non si esce ottimisti, visto che – senza rivelarvi quale sarà alla fine la scelta di Luca e Gustav – è chiaro che chi decide di restare in questo paese – senza voler entrare nei suoi meccanismi deteriori - lo fa avendo due possibili opzioni: o il menefreghismo più totale, il disinteresse per quello che gli succede intorno, nel tentativo egoistico di preservare la propria esistenza tranquilla, ovvero una strada costantemente in salita, una fatica che non ha mai fine, la necessità – come dice Vendola – di “scalare le montagne”, anche per ciò che sarebbe dovuto e scontato.
Gli esempi italiani positivi che Luca riesce a presentare a Gustav sono esempi di straordinario coraggio di persone ordinarie che hanno deciso di non rassegnarsi ad accettare le cose come sono, ma per questo vivono vite difficili. Non sarebbe forse meglio un paese in cui non c’è bisogno di diventare eroi per vivere da onesti cittadini e fare una vita normale in una società civile e in città vivibili?
Secondo Luca e Gustav non c’è sostanzialmente alternativa tra le due opzioni summenzionate. O almeno forse è questo il messaggio che vogliono portare al di fuori dei nostri confini nazionali, cui il film sembra in realtà primariamente rivolto.
Finito il film Luca e Gustav un po’ ci mancano. Ci sembra di conoscerli da sempre, vorremmo spiegarglielo noi perché rimanere o perché partire alla volta di Berlino. Sì, perché sono persone come noi (in realtà, non esattamente a giudicare da dove vanno a vivere!) e che potrebbe capitare di incontrare, come è successo a me, che – qualche giorno dopo la visione del loro primo documentario – ho incontrato Luca per strada a cavallo della sua bicicletta e ho pensato che avrei potuto persino dirgli ciao.
Voto: 3,5/5
giovedì 12 gennaio 2012
Midnight in Paris
La storia è molto semplice. Gil (un Owen Wilson che non riesce a scrollarsi di dosso l'espressione dei suoi ruoli cult-demenziali), sceneggiatore hollywodiano con aspirazioni da scrittore, è in vacanza a Parigi con la sua fidanzata Inez (Rachel McAdams), al seguito dei genitori di lei. Gil, da sempre innamorato dell'ambiente culturale parigino degli anni Venti, rapidamente viene catturato dalla magia della città e una sera, salendo su una carrozza, viene traghettato proprio in quegli anni. Comincia così la sua avventura notturna che lo porterà a conoscere le sue icone culturali e a comprendere meglio non solo Parigi, ma anche se stesso e quello che realmente desidera dalla sua esistenza.
C. dice che Midnight in Paris è un film sugli stereotipi e sui luoghi comuni, perché tutto nell'ultimo film di Woody Allen, dalla città ai personaggi del presente e del passato, è in un certo senso lo stereotipo di se stesso.
Per esempio, la carrellata di immagini di Parigi che apre il film è una specie di vetrina fotografica di ciò che questa città rappresenta nell'immaginario collettivo. Una città bellissima e romantica. Sospesa in un altro tempo. In cui anche le piogge improvvise diventano straordinariamente suggestive. In cui i parigini (in realtà ci sono quasi solo parigine!) sono tutti proprio come ce li immaginiamo. Sofisticati e affascinanti. Le periferie brutte non esistono, il traffico impazzito neanche, l'immigrazione non c'è mai stata.
Anche i protagonisti di questa storia, Gil, la sua fidanzata Inez, i genitori di lei e gli amici che incontrano casualmente sono il prototipo dell'americanità nelle sue varie sfaccettature: Gil vittima della fascinazione di certi americani per l'immagine romantica dell'Europa e della città di Parigi, gli altri o ignoranti, culturalmente distanti dal mondo europeo, privi di qualunque poesia e di fatto superficiali, ovvero pedanti, primi della classe e decisamente un po' freddini.
Infine, i personaggi del passato che Gil incontra nei suoi viaggi notturni (interpretati da un cast di tutto rispetto), dai coniugi Fitzgerald a Ernest Hemingway, da Gertrude Stein a Salvador Dalì, a Luis Bunuel sono tutti un po' la caricatura di se stessi, personalità ad un'unica dimensione, normalmente corrispondente a quella più conosciuta o più divertente.
Ancora, la locandina del film (Gil che cammina lungo gli argini della Senna sotto un cielo stellato alla Van Gogh in una posa e con un abbigliamento che ricordano moltissimo il giovane Robert Redford di film come I tre giorni del condor o Come eravamo) conferma l'impressione complessiva di un film che è un divertito omaggio alleniano alla cultura europea e al cinema.
Tutto questo molti critici - e anche C. - l'hanno interpretato come un segnale della raffinatezza di Woody Allen e hanno apprezzato la capacità del regista di essere colto, profondo e leggero al contempo, come ai suoi tempi d'oro.
A me il film è risultato gradevole e divertente. Aggiungo che qualche pezzo di sceneggiatura è da manuale e certamente degno del miglior Woody Allen. Detto questo, a me l'Allen che si fa i suoi "viaggi mentali" continua a non appassionare e soprattutto a restare solo sulla superficie della pelle (ed ecco qui che mi accorgo che le mie considerazioni erano state molto simili per Basta che funzioni).
Le quadrature astrali (a proposito, di che segno è Allen?) devono essere tali che personalmente vado molto più d'accordo con la sua anima noir e un po' ambigua, quella meravigliosamente venuta fuori in Matchpoint (un po' meno in altri film di quella tornata come Sogni e delitti).
L'ex appassionato di psicanalisi, la cui vita mentale prende spesso il sopravvento su quella reale, tendo evidentemente a tenerlo precauzionalmente lontano da me, perché potrebbe catturare la mia sensibilità ;-)
Ciò detto, un film che vale il prezzo del biglietto, quanto meno per la bellezza di Marion Cotillard (la musa ispiratrice non solo degli artisti che gravitano a Parigi, ma anche di Gil) e per le risate che suscita.
Tutto il resto che i critici hanno voluto leggere in questo film mi sembra francamente "fuffa".
Voto: 3/5
C. dice che Midnight in Paris è un film sugli stereotipi e sui luoghi comuni, perché tutto nell'ultimo film di Woody Allen, dalla città ai personaggi del presente e del passato, è in un certo senso lo stereotipo di se stesso.
Per esempio, la carrellata di immagini di Parigi che apre il film è una specie di vetrina fotografica di ciò che questa città rappresenta nell'immaginario collettivo. Una città bellissima e romantica. Sospesa in un altro tempo. In cui anche le piogge improvvise diventano straordinariamente suggestive. In cui i parigini (in realtà ci sono quasi solo parigine!) sono tutti proprio come ce li immaginiamo. Sofisticati e affascinanti. Le periferie brutte non esistono, il traffico impazzito neanche, l'immigrazione non c'è mai stata.
Anche i protagonisti di questa storia, Gil, la sua fidanzata Inez, i genitori di lei e gli amici che incontrano casualmente sono il prototipo dell'americanità nelle sue varie sfaccettature: Gil vittima della fascinazione di certi americani per l'immagine romantica dell'Europa e della città di Parigi, gli altri o ignoranti, culturalmente distanti dal mondo europeo, privi di qualunque poesia e di fatto superficiali, ovvero pedanti, primi della classe e decisamente un po' freddini.
Infine, i personaggi del passato che Gil incontra nei suoi viaggi notturni (interpretati da un cast di tutto rispetto), dai coniugi Fitzgerald a Ernest Hemingway, da Gertrude Stein a Salvador Dalì, a Luis Bunuel sono tutti un po' la caricatura di se stessi, personalità ad un'unica dimensione, normalmente corrispondente a quella più conosciuta o più divertente.
Ancora, la locandina del film (Gil che cammina lungo gli argini della Senna sotto un cielo stellato alla Van Gogh in una posa e con un abbigliamento che ricordano moltissimo il giovane Robert Redford di film come I tre giorni del condor o Come eravamo) conferma l'impressione complessiva di un film che è un divertito omaggio alleniano alla cultura europea e al cinema.
Tutto questo molti critici - e anche C. - l'hanno interpretato come un segnale della raffinatezza di Woody Allen e hanno apprezzato la capacità del regista di essere colto, profondo e leggero al contempo, come ai suoi tempi d'oro.
A me il film è risultato gradevole e divertente. Aggiungo che qualche pezzo di sceneggiatura è da manuale e certamente degno del miglior Woody Allen. Detto questo, a me l'Allen che si fa i suoi "viaggi mentali" continua a non appassionare e soprattutto a restare solo sulla superficie della pelle (ed ecco qui che mi accorgo che le mie considerazioni erano state molto simili per Basta che funzioni).
Le quadrature astrali (a proposito, di che segno è Allen?) devono essere tali che personalmente vado molto più d'accordo con la sua anima noir e un po' ambigua, quella meravigliosamente venuta fuori in Matchpoint (un po' meno in altri film di quella tornata come Sogni e delitti).
L'ex appassionato di psicanalisi, la cui vita mentale prende spesso il sopravvento su quella reale, tendo evidentemente a tenerlo precauzionalmente lontano da me, perché potrebbe catturare la mia sensibilità ;-)
Ciò detto, un film che vale il prezzo del biglietto, quanto meno per la bellezza di Marion Cotillard (la musa ispiratrice non solo degli artisti che gravitano a Parigi, ma anche di Gil) e per le risate che suscita.
Tutto il resto che i critici hanno voluto leggere in questo film mi sembra francamente "fuffa".
Voto: 3/5