Uno dei vantaggi di vivere in una città dove la vita quotidiana è faticosa quasi quanto nella giungla malese e dove la lotta per la sopravvivenza ha tratti che neppure Darwin avrebbe potuto immaginare è la possibilità di fruire (chissà ancora per quanto!) di eventi culturali di grande interesse in scenari unici.
In questo caso, il piacere è raddoppiato dal fatto che parliamo di una delle mie grandi passioni (ossia la fotografia) e di uno dei luoghi di Roma che trovo in assoluto più magici e suggestivi, quella zona che va dal Monte dei Cocci al lungotevere Testaccio che ho già avuto modo di celebrare altrove.
Ebbene, parlo del Festival Internazionale della Fotografia in corso a Roma fino al 23 ottobre, con una serie di mostre ed eventi in diverse parti della città, ma il cui quartier generale (dove c’è anche la mostra più grande) è la sede del MACRO Testaccio, il Museo di Arte Contemporanea di Roma realizzato nell’area del vecchio mattatoio della città, oggetto di un grande progetto di recupero architettonico su cui ci sarebbe ancora molto da fare.
Era la mia prima volta in questi grandi capannoni con le volte a capriate, ed è stato bello entrarci per vedere una, anzi tante mostre di fotografia. Il tema del festival quest’anno è “Motherland”, ossia il rapporto tra l’artista e la propria terra d’origine, ovvero come il concetto di terra madre è cambiato nel tempo e il significato che ha acquisito nel mondo contemporaneo.
All’interno del festival, la fotografia è declinata nei modi più diversi e – come saggiamente ha scritto qualcuno – in un’epoca di convergenza al digitale e di superamento dei confini tra le tecniche, la fotografia può diventare tante cose diverse e forse non ha più senso neppure parlare di un festival della fotografia. Si va infatti da proposte fotografiche più tradizionali, a ricostruzioni documentarie caratterizzate dalla presenza di tipologie diverse di documenti, a installazioni che combinano visivo e sonoro, infine a veri e propri cortometraggi.
Ciò che accomuna un po’ tutti i lavori in mostra è l’abbandono di soluzioni puramente estetiche a vantaggio di una fotografia più strettamente concettuale (di denuncia, di introspezione psicologica o di analisi etno-antropologica), in cui molto spesso quello estetico è soltanto un elemento che attira l’occhio ma cela verità e contenuti spesso profondamente in contrasto con l’apparente bellezza delle immagini. Insomma, niente a che vedere con le foto del National Geographic, bensì una fotografia a volte disturbante o intellettualistica che mi ha molto ricordato quella in mostra a Londra presso lo spazio espositivo di Ambika P3, durante la mia ultima visita.
A volte si può rimanere perplessi di fronte a certi lavori e ad alcune soluzioni, ma certo non ne si può mettere in discussione la ricerca artistica e l’originalità.
Dal mio soggettivo punto di vista, una menzione particolare la riserverei ai lavori “L’isola” di Francesco Millefiori, rappresentazione non convenzionale della Sicilia, fatta di immagini bruciate dal sole e dalla luce che illuminano paesaggi martoriati dall’intervento dell’uomo o caratterizzati da un’umanità che si muove tra antichità e modernità, e a "L'inferno di Dante", bizzarra ricostruzione fotografica della cantica da parte di Valentina Vannicola. Altra chicca è il video costituito da una specie di brevi cortometraggi in cui un uomo si muove in mezzo alla natura e ai manufatti umani con un intento tra l’ironico e il didascalico, di cui purtroppo non ho segnato il nome dell'autore (non è che qualcuno ha voglia di suggerire?).
In tutto ciò, camminare per i capannoni ristrutturati dell’ex mattatoio, alzare lo sguardo sulle grandi volte, dominare lo spazio dall’alto dei ballatoi sono stati un’esperienza artistica a se stante. E per una volta è stato bello sentirsi dire da un amico nordeuropeo (l’olandese volante) che la mostra e l’ambientazione gli erano sembrati di qualità elevata, con un respiro culturale davvero europeo (e non provinciale come spesso accade in Italia)!
Voto: 3,5/5
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