Crisi di astinenza. Sì, la chiamerei proprio così. Crisi di astinenza da cinema. Non da film, perché di film ne ho visti diversi nell'ultimo paio di settimane. Ma da cinema, quell'esperienza straordinaria di entrare in una grande sala buia, di essere avvolti da immagini e suoni, di sentirsi collettivamente partecipi di un'emozione, di sentire la presenza attiva dell'altro senza necessariamente vederlo. I motivi per cui a mio avviso il cinema non potrà mai essere sostituito da alcuna altra forma di proiezione filmica.
E, dunque - dicevo - ero in profonda crisi di astinenza da cinema, perché la pausa pasquale (con la full immersion in famiglia) e le ultime inaspettate e piacevoli incursioni nella mia vita privata mi avevano tenuta per un po' lontana dal mio habitat naturale. Ma com'è giusto che sia - e a grande richiesta dei miei fans ;-) - eccomi di nuovo a me e a voi.
Departures di Yojiro Takita è decisamente un film interessante (termine per me ormai divenuto praticamente onnicomprensivo, ma che aiuta quando faccio fatica ad usarne altri o volontariamente preferisco l'indefinizione), espressione di un mondo e di una cultura certamente altri rispetto alla nostra contemporanea cultura occidentale, ma - aggiungerei - non del tutto estranei.
Dentro questo film ci sono molte cose. Ho letto da qualche parte che è una riflessione sulla morte, ma io direi piuttosto che è una riflessione sulla vita, quel groviglio inestricabile di stati d'animo, di fasi contraddittorie, di sentimenti, in cui nascita, vita, morte e rinascita generano un ciclo ineluttabile, ma forse proprio per questo rasserenante, e il cui senso va cercato al suo stesso interno in questa eterna ripetizione, che però è anche rigenerazione.
Il film è denso di metafore della vita e della morte fin troppo semplici ed esplicite (le stagioni, i salmoni, il cibo, le piante, il sasso che passa di mano in mano), ma forse è inevitabile che sia così in una cultura altamente visuale come è quella giapponese. Ma ancora di più è giocato sul significato della ritualità, quella che forse la nostra cultura occidentale ha almeno in parte perso.
La ripetizione dei gesti di Daigo (Motoki Masahiro) - e del suo maestro Sasaki (Yamazaki Tsutomu) - nel preparare i corpi per l'ultimo viaggio non è stanca monotonia, ma amorevole conferma di sintonia, di compassione, di risonanza.
La vita prende luce dall'esistenza stessa della morte, come la felicità si illumina dell'esperienza della sofferenza. E tutto è naturale e fluido.
Il violoncello è strumento di una musica dell'anima, che risuona solo quando entra in sintonia con la natura profonda della vita.
Riconoscere gli altri, cioè scoprirne l'essenza e focalizzarne il volto interiore, significa trovare noi stessi, la nostra origine, il posto dal quale veniamo, quello che siamo sempre stati e quello che diventiamo giorno per giorno. Ovvero, trovare noi stessi significa riconoscere alfine anche gli altri.
E non vi immaginate necessariamente un film etereo, perché si ride anche, e poi ci si commuove, e poi si rimane un po' spiazzati, e poi non si capisce, e poi, e poi...
Forse dura più di quanto ci si aspetterebbe, ma - come ho letto l'altro giorno da qualche parte - niente dura troppo se dentro di te prepari il tempo necessario, e forse niente dura troppo poco se lo vivi intensamente.
Meritato Oscar come miglior film straniero nel 2009. Mi ha fatto tornare voglia di vedere un film orientale che mi era piaciuto molto Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera, del grande Kim Ki-Duk.
Voto: 4/5
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