Sabato sera. Non ho voglia di bagni di folla, ma di una rilassante seratina in compagnia di me stessa. E così guardo sul Trovacinema cosa c'è in programmazione e scopro con gioia che danno Il mio amico Eric al Politecnico Fandango, cinema/associazione culturale, nato a Roma - insieme a un interessante bistrot - dall'amore per il cinema di Domenico Procacci.
E tra l'altro, ancora più felice, vedo che la proiezione sarà in lingua originale. Eh sì, perché comincio a non sopportare il fatto che in Italia tutto si debba doppiare e tutto si debba tradurre e credo che sarebbe rispettoso per il cinema - nonché di grande utilità per il nostro orecchio - andare a vedere i film in lingua originale. Per non parlare dello scempio nella traduzione dei titoli dei film; in fondo, anche in questo caso trovo la traduzione non del tutto azzeccata. Il titolo originale è, infatti, Looking for Eric e, visto che il protagonista è un depresso Eric (Steve Evets) che immagina di parlare con il suo mito calcistico, Eric Cantona (che interpreta se stesso), il titolo inglese rende di più l'idea che il protagonista Eric, attraverso l'immaginario Cantona, sta in realtà piuttosto cercando quel se stesso che ha perduto nelle pieghe della vita.
Nella bella saletta del Politecnico ci siamo solo io e due ragazze straniere, probabilmente anche loro alla ricerca di film non doppiati in italiano. Insomma, mi sembra un po' di stare nel salotto di casa, e anche gli estranei diventano familiari quando li senti ridere come te alle battute del film.
Certo, è un Ken Loach insolito quello de Il mio amico Eric, e la sua fidata spalla, lo sceneggiatore Paul Laverty, gli sta dietro in questa operazione un po' sui generis per il grande maestro del cinema inglese.
Il film inizia rispettando il consueto linguaggio cinematografico di Loach. Siamo nel bel mezzo della vita a pezzi di un inglese di mezza età, con la faccia segnata dal tempo e dai dolori, Eric appunto, che fa il postino e vive a casa con i due figliastri che la seconda moglie gli ha mollato. Capiamo che la sua vita è andata a rotoli da quando ha lasciato il suo primo e unico amore, la prima moglie Lily (Stephanie Bishop), da cui ha avuto una figlia, Sam, che ora ha una bambina piccola di nome Daisy.
La sua casa è un autentico porcile, dove c'è una televisione in ogni angolo, i figliastri adolescenti fanno il comodo che gli pare e non mancano di cacciarsi in guai seri. Insomma, scene di ordinaria disperazione da periferia inglese alla tipica maniera di Ken Loach.
Ma è da qui in poi che l'approccio cambia. Ci aspetteremmo che Eric cada nel baratro della disperazione senza via d'uscita e... invece..., tra una canna e un'altra, incontra - nella sua mente - Eric Cantona, che gli propina alcune delle sue famose massime (Nella vita ci sono sempre più possibilità di quante crediamo), gli suona la tromba, lo spinge a riscoprire la fiducia nei suoi amici e a credere di più in se stesso.
Ken Loach riesce a farci ridere di cuore: alcuni degli amici con cui Eric trascorre i pomeriggi al pub a vedere le partite, come ad esempio Meatballs, sono davvero spassosi e i dialoghi tra i due Eric ci strappano la risata, e non solo quella.
La critica - o il pubblico - storcono il naso? La favoletta in cui tutto è bene quel che finisce bene, il buonismo dei sentimenti, l'ottimismo della volontà appaiono poco adatti a Loach e lasciano perplessi chi ama il suo realismo duro e senza speranza?
Io lo capisco Loach... Se sei un regista, qualche volta, almeno al cinema, vorresti vedere andare le cose in modo diverso da come realmente vanno, vorresti veder trionfare i buoni sentimenti, vorresti lasciare aperto uno spiraglio alla speranza. Se sei un regista, puoi costruire - almeno sullo schermo - una realtà alternativa, un diverso finale.
E, per una volta, per favore, lasciateglielo fare...
Ok, non siamo ai livelli dei suoi primi film, come ad esempio Terra e libertà, o di alcuni film della maturità, per esempio My name is Joe (il mio preferito di Loach), dentro non c'è la passione politica e civile, la profonda critica sociale, ma solo il potere catartico della passione per il calcio, l'importanza dell'amicizia e la fiducia nella propria umanità. Forse è anche la vecchiaia, quella che a volte ci rende cinici e senza speranza, altre volte ci trasmette una tale disillusione da farci risultare serenamente in pace col mondo. Forse Loach è tutt'e due le cose.
E così, dopo averci dimostrato di saper fare anche i film d'amore (vedi, ad esempio, Un bacio appassionato), il regista inglese dimostra di avere tutte le carte in regola anche per la commedia sociale.
E mi manda a casa con il cuore sollevato, tanto da spingermi ad una tappa da Romoli a mangiare un bel cornetto caldo.
Voto: 3,5/5
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