L'uomo dei cerchi azzurri / Fred Vargas; trad. di Yasmina Melaouah. Torino, Einaudi, 2007.
Sto leggendo la saga del commissario Jean-Baptiste Adamsberg in ordine sparso, cosicché mi trovo ne L'uomo dei cerchi azzurri di fronte all'arrivo del commissionario al 5e arrondissement di Parigi, all'incontro con quello che diventerà il fedele Danglard, al delinearsi della contrapposizione caratteriale dei due, ai primordi della storia con Camille. E il tutto funziona come uno straordinario flashback, in cui la conoscenza degli sviluppi futuri illumina e colora di significati inediti ciò che viene cronologicamente prima.
Il giallo di questo libro è - come sempre accade per la Vargas - quasi un pretesto per raccontare la psicologia umana. In questo caso, devo dire che anche la costruzione narrativa è piuttosto affascinante e per niente scontata, forse addirittura troppo arzigogolata rispetto agli standard della scrittrice francese.
Come al solito (si vedano le altre mie recensioni ai suoi libri), però, personalmente vengo conquistata da altro e il numero delle orecchie che ho fatto a questo libro la dice lunga sull'empatia che mi ha suscitato. Mai come in questo libro - forse proprio perché siamo agli inizi della vicenda di Adamsberg - viene fuori la qualità del suo personaggio svagato e profondo, il cui approccio apparentemente inerte e certamente irrazionale mette in crisi l'illuminismo di Danglard, e anche il mio. Ma al contempo Adamsberg esercita un'attrazione senza precedenti per la sua originalità da un lato, e per l'universalità dei suoi sentimenti dall'altro.
E così quando il commissario vien fuori con frasi come: "A volte prego che le persone mi stupiscano, e invece già dall'inizio comincio a scorgere la fine. (p. 20)" e l'autrice aggiunge che "[...] a Adamsberg le certezze che gli altri gli mettevano addosso, lo uccidevano. Gli facevano venire una voglia insopprimibile di deludere (p. 68), non riesco a non provare un'istintiva sintonia con il suo personaggio.
Tant'è che Danglard "avrebbe voluto rubare questo ad Adamsberg: l'imprecisione, l'approssimazione, e gli scorci in cui il suo sguardo pareva ora agonizzare, ora ardere, facendo venire voglia di allontanarsi da lui o di avvicinarsi. Pensava che con lo sguardo di Adamsberg avrebbe potuto vedere le cose oscillare e perdere i loro contorni ragionevoli, come fanno gli alberi d'estate nelle vibrazioni del calore. E allora il mondo gli sarebbe parso meno implacabile, e lui avrebbe smesso di volerlo capire fino ai suoi confini più remoti, e fino ai punti che non si potevano neppure vedere nel cielo. E sarebbe stato meno stanco" (p. 116). Ed io pure.
Poi scopri che anche Adamsberg non è immune dal faticoso confronto con se stesso. "[...] aveva sentito che lui non si osservava, ma si «percepiva», [...] tanto da averne talora «male di consapevolezza». Sapeva che questa percezione dell'esistenza prendeva talvolta sentieri speleologici, dove gli stivali si incollavano nel fango, dove non si trovava alcuna risposta, e che ci voleva del coraggio fisico per non cacciar via tutto molto lontano. Ma quando accadeva, lui non cacciava via niente, perché allora aveva la certezza che un simile gesto lo avrebbe condannato a non essere più nulla." (p 124).
"Danglard pensò che Adamsberg aveva una maniera diversa della sua di rovinarsi la vita. Gli pareva che nonostante il suo atteggiamento indolente, Adamsberg trovasse efficacemente il modo di non darsi mai pare." (p. 196).
Si capisce così anche il suo rapporto con Camille, l'unica donna che nonostante il suo scarso interesse per il sentimento dell'amore gli sia rimasta incollata sulla pelle. Forse perché è l'unica capace di dirgli frasi come questa: «Ti amo. Lasciami andare, adesso.» (p. 234).
Chiamarli gialli è un po' un insulto.
Voto: 4/5
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