Dopo aver visto il documentario Hokusai dal British Museum non potevo perdere la mostra del maestro giapponese allestita al Museo dell’Ara Pacis, tanto più che in questo periodo sono particolarmente affascinata dalla cultura giapponese.
La mostra Hokusai: sulle orme del maestro offre ai visitatori la possibilità di osservare da vicino circa cento opere dell’artista giapponese, in prevalenza silografie, ma anche dipinti su carta e su stoffa, nonché le opere di alcuni suoi allievi, in particolare Keisei Eisen.
In realtà, per questa mostra sono state movimentate oltre duecento opere che saranno esposte a rotazione per evitare di sottoporle ad uno stress eccessivo, vista la loro estrema delicatezza. Quindi, diciamo che non tutti vedranno esattamente la stessa mostra visitandola in momenti diversi.
Lo spirito della mostra resta però sostanzialmente costante e punta a dare testimonianza della vastissima produzione dell’artista nella sua lunga vita, attraverso la varietà delle tecniche utilizzate e dei soggetti rappresentati: dai paesaggi (si pensi alla serie delle Trentasei vedute del Monte Fuji, cui appartiene anche la famosissima Grande onda) alle persone nelle attività quotidiane, alle geisha e cortigiane, agli animali (molto presenti sempre, ma soprattutto nell’ultimo periodo della sua produzione artistica).
Il cosiddetto Hokusai manga, una serie di volumi che contengono schizzi di qualunque tipo di soggetto (una specie di enciclopedia del disegno, anch’essa in mostra), dà in qualche modo conto della poliedricità di Hokusai e del suo interesse per il disegno a 360°.
Dalla mostra emerge abbastanza bene non solo la cifra della produzione artistica di Hokusai, ma anche la sua personalità (e la sua vera e propria ossessione per il disegno e la pittura), nonché più in generale le caratteristiche del movimento degli "artisti del mondo fluttuante" (Ukiyo-e).
Il dettaglio e la finezza dei particolari delle silografie non può non lasciar stupiti a più riprese, soprattutto quando si pensa al procedimento per ottenere queste stampe.
Per quanto mi riguarda continuo a nutrire qualche perplessità sugli spazi espositivi dell’Ara pacis, che non consentono un percorso lineare e che inevitabilmente creano qualche confusione nel visitatore. Alcuni settori della mostra sono a mio avviso particolarmente riusciti, altri mescolano artisti e temi in modo non del tutto evidente per il visitatore. Non so se l’audioguida avrebbe aiutato da questo punto di vista, ma ne dubito, visto che il suo compito è normalmente l’approfondimento di singole opere.
Come talvolta mi accade per alcune mostre, all’uscita mi manca un po’ il senso di uno sguardo d’insieme che metta in relazione tutte le diverse cose che ho visto.
Si tratta comunque di una mostra che sarebbe un peccato perdere.
Voto: 3,5/5
lunedì 30 ottobre 2017
venerdì 27 ottobre 2017
Pueblo / Ascanio Celestini. Romaeuropa Festival, Teatro Vittoria, 19 ottobre 2017
Solo l'anno scorso ho scoperto Ascanio Celestini dal vivo. Una scoperta che non ho voluto lasciare cadere, cosicché non mi sono fatta sfuggire l'occasione di andare nuovamente ad ascoltarlo al Teatro Vittoria (teatro con cui evidentemente Celestini ha una sintonia particolare, fors'anche per la collocazione all'interno della città di Roma), nell'ambito del Romaeuropa Festival che si tiene ogni anno nella capitale.
Quest'anno Celestini torna sul palco con il suo nuovo lavoro Pueblo. Di cosa parla Pueblo? Parla appunto della gente, soprattutto quella che vive ai margini della società e che porta avanti la propria vita tra mille difficoltà: parla di Violetta e di sua madre che vivono nella casa di fronte, parla della storia di Domenica, una barbona che abita al Quadraro, di Valentina che fa la cassiera al supermercato, di Said e il videopoker, dello zingaro di otto anni che fuma.
Le caratteristiche proprie di Celestini e del suo teatro ci sono tutte: il mix inscindibile di comico e tragico (che è poi proprio della vita), la carica politica e sociale nella sua accezione più alta, una narrazione che è come un fiume in piena (e che in questo caso si avvale della tastiera e della fisarmonica di Gianluca Casadei) a fare da contrappunto).
Nel tempo il teatro di Celestini - pur restando un teatro di forte impegno civile - sembra progressivamente spostarsi dalla Storia con la S maiuscola (si pensi allo spettacolo Radio clandestina, che tanto mi era piaciuto lo scorso anno) alla storia quotidiana, quella di persone che non lasciano alcun segno del loro passaggio, vite dimenticate persino in vita.
Credo sia anche un segno dei tempi, l'effetto di una società nella quale l'azione collettiva, le istituzioni, i movimenti si sono progressivamente svuotati e hanno perso la loro attrattiva, e la quotidianità si è trasformata in una sommatoria di individualità in lotta per la sopravvivenza, dentro un vuoto siderale.
Di fronte a questa realtà Celestini sembra puntare tutto sulla narrazione. In fondo, questo suo ultimo spettacolo è incentrato proprio sul potere del racconto, come dichiarato nei primi minuti. Il narratore racconterà storie di persone di cui non sa nulla, ma che attraverso la narrazione diventano vive e conosciute.
È una dichiarazione d'amore e di fiducia nell'unico bene che nessuno ci può toccare: il racconto.
E così Celestini si fa - ancor più del solito - cantastorie, incantatore, narratore di strada, quasi nel tentativo di resuscitare una specie di storia orale che nel corso dei secoli è stata completamente soppiantata dalla storia scritta. Questo perché la storia orale è l'unica che nasce non sui documenti d'archivio, ma per le strade, tra la gente, e di questa gente racconta non necessariamente la verità, ma qualcosa che finisce per essere più vera della realtà stessa.
Di conseguenza, anche il rapporto tra il narratore e il pubblico assume un colore antico. Siamo in un teatro: Celestini sul palco e noi seduti in platea. Ma potremmo essere tranquillamente all'angolo di una strada di periferia e fermarci ad ascoltare la magia del flusso di parole di questo straordinario cantastorie.
Voto: 3,5/5
Quest'anno Celestini torna sul palco con il suo nuovo lavoro Pueblo. Di cosa parla Pueblo? Parla appunto della gente, soprattutto quella che vive ai margini della società e che porta avanti la propria vita tra mille difficoltà: parla di Violetta e di sua madre che vivono nella casa di fronte, parla della storia di Domenica, una barbona che abita al Quadraro, di Valentina che fa la cassiera al supermercato, di Said e il videopoker, dello zingaro di otto anni che fuma.
Le caratteristiche proprie di Celestini e del suo teatro ci sono tutte: il mix inscindibile di comico e tragico (che è poi proprio della vita), la carica politica e sociale nella sua accezione più alta, una narrazione che è come un fiume in piena (e che in questo caso si avvale della tastiera e della fisarmonica di Gianluca Casadei) a fare da contrappunto).
Nel tempo il teatro di Celestini - pur restando un teatro di forte impegno civile - sembra progressivamente spostarsi dalla Storia con la S maiuscola (si pensi allo spettacolo Radio clandestina, che tanto mi era piaciuto lo scorso anno) alla storia quotidiana, quella di persone che non lasciano alcun segno del loro passaggio, vite dimenticate persino in vita.
Credo sia anche un segno dei tempi, l'effetto di una società nella quale l'azione collettiva, le istituzioni, i movimenti si sono progressivamente svuotati e hanno perso la loro attrattiva, e la quotidianità si è trasformata in una sommatoria di individualità in lotta per la sopravvivenza, dentro un vuoto siderale.
Di fronte a questa realtà Celestini sembra puntare tutto sulla narrazione. In fondo, questo suo ultimo spettacolo è incentrato proprio sul potere del racconto, come dichiarato nei primi minuti. Il narratore racconterà storie di persone di cui non sa nulla, ma che attraverso la narrazione diventano vive e conosciute.
È una dichiarazione d'amore e di fiducia nell'unico bene che nessuno ci può toccare: il racconto.
E così Celestini si fa - ancor più del solito - cantastorie, incantatore, narratore di strada, quasi nel tentativo di resuscitare una specie di storia orale che nel corso dei secoli è stata completamente soppiantata dalla storia scritta. Questo perché la storia orale è l'unica che nasce non sui documenti d'archivio, ma per le strade, tra la gente, e di questa gente racconta non necessariamente la verità, ma qualcosa che finisce per essere più vera della realtà stessa.
Di conseguenza, anche il rapporto tra il narratore e il pubblico assume un colore antico. Siamo in un teatro: Celestini sul palco e noi seduti in platea. Ma potremmo essere tranquillamente all'angolo di una strada di periferia e fermarci ad ascoltare la magia del flusso di parole di questo straordinario cantastorie.
Voto: 3,5/5
mercoledì 25 ottobre 2017
Una donna fantastica
La locandina di questo film dice molto: una donna che lotta contro un vento contrario molto forte che la costringe a piegarsi quasi a 45 gradi ma senza cedere.
Questa è Marina (Daniela Vega).
Marina è donna nel profondo del suo essere, anche se fisicamente forse non lo è completamente. E in quanto donna fin nel midollo aspira a una normale vita da donna: un lavoro, un uomo da amare, un posto nella società. All'inizio del film sembra che Marina abbia realizzato questo obiettivo: ama ed è riamata da Orlando, un uomo più grande di lei, separato, e sta per trasferirsi a vivere a casa sua. Purtroppo però una sera Orlando si sente male e muore per un aneurisma.
Da qui inizia la dura lotta di Marina con il mondo al di fuori del microcosmo che si è costruita: la ex moglie di Orlando, il figlio e la famiglia di lui, la società tutta, che di fronte a questo evento tragico investono tutte le loro forze per estromettere Marina dalla loro vita e anche dal passato di Orlando, in un crescendo di violenza psicologica e fisica che è solo un segnale delle loro coscienze sporche.
Il regista Sebastian Lelio - che già avevo avuto modo di apprezzare per il film Gloria - torna a raccontare la storia di una donna dalla vita difficile e a parlare dei tabu che attraversano la nostra società e che impediscono la felicità e la serenità di molte persone, nonché la possibilità per tutti di vedere preservati la propria libertà di scelta e i propri diritti.
Come in Gloria, anche in Una donna fantastica le uniche vie d'uscita di Marina di fronte al dolore e alle difficoltà sono l'espressione di sé attraverso la musica (in questo caso il ballo e il canto) e l'immaginazione, potente strumento che le permette delle fughe dalla realtà in mondi paralleli in cui può essere se stessa pienamente e felice.
A differenza che in Gloria, qui il registro oscilla tra il drammatico, il thriller e il magico. Questi ultimi - inaspettati - registri si insinuano in diversi momenti nelle pieghe della storia, pur non essendo determinanti, e sono portati all'evidenza dalle musiche originali e da alcune citazioni (la mia amica F. fa notare il bacio sotto la luce rossa che ricorda quello de La donna che visse due volte).
Una donna fantastica è un film intenso, a tratti doloroso, ma talvolta si libra leggero come una piuma sopra le meschinità e le miserie umane, a ricordarci che può esistere un mondo dove c'è posto per ognuno e dove ognuno possa essere quello che è senza che questo crei reazioni scomposte e paure di rovesciamento della realtà.
Voto: 3,5/5
Questa è Marina (Daniela Vega).
Marina è donna nel profondo del suo essere, anche se fisicamente forse non lo è completamente. E in quanto donna fin nel midollo aspira a una normale vita da donna: un lavoro, un uomo da amare, un posto nella società. All'inizio del film sembra che Marina abbia realizzato questo obiettivo: ama ed è riamata da Orlando, un uomo più grande di lei, separato, e sta per trasferirsi a vivere a casa sua. Purtroppo però una sera Orlando si sente male e muore per un aneurisma.
Da qui inizia la dura lotta di Marina con il mondo al di fuori del microcosmo che si è costruita: la ex moglie di Orlando, il figlio e la famiglia di lui, la società tutta, che di fronte a questo evento tragico investono tutte le loro forze per estromettere Marina dalla loro vita e anche dal passato di Orlando, in un crescendo di violenza psicologica e fisica che è solo un segnale delle loro coscienze sporche.
Il regista Sebastian Lelio - che già avevo avuto modo di apprezzare per il film Gloria - torna a raccontare la storia di una donna dalla vita difficile e a parlare dei tabu che attraversano la nostra società e che impediscono la felicità e la serenità di molte persone, nonché la possibilità per tutti di vedere preservati la propria libertà di scelta e i propri diritti.
Come in Gloria, anche in Una donna fantastica le uniche vie d'uscita di Marina di fronte al dolore e alle difficoltà sono l'espressione di sé attraverso la musica (in questo caso il ballo e il canto) e l'immaginazione, potente strumento che le permette delle fughe dalla realtà in mondi paralleli in cui può essere se stessa pienamente e felice.
A differenza che in Gloria, qui il registro oscilla tra il drammatico, il thriller e il magico. Questi ultimi - inaspettati - registri si insinuano in diversi momenti nelle pieghe della storia, pur non essendo determinanti, e sono portati all'evidenza dalle musiche originali e da alcune citazioni (la mia amica F. fa notare il bacio sotto la luce rossa che ricorda quello de La donna che visse due volte).
Una donna fantastica è un film intenso, a tratti doloroso, ma talvolta si libra leggero come una piuma sopra le meschinità e le miserie umane, a ricordarci che può esistere un mondo dove c'è posto per ognuno e dove ognuno possa essere quello che è senza che questo crei reazioni scomposte e paure di rovesciamento della realtà.
Voto: 3,5/5
domenica 22 ottobre 2017
Rachel Sermanni (+ Tess). Teatro Parioli, 14 ottobre 2017
Quello con Rachel Sermanni è ormai diventato una specie di appuntamento fisso, che si ripete più o meno ogni due anni. Tutto iniziò nel 2013 al Circolo Ricreativo Caracciolo (che fine avrà fatto?), per poi proseguire nel 2015 al Quirinetta, e rinnovarsi ancora quest’anno al Teatro Parioli.
Rachel evidentemente ama le location un po’ raccolte e particolari. Disdegna i palchi più battuti della scena musicale romana e preferisce rassegne minori e palchi più raccolti perché ama molto entrare in connessione con le persone.
Io non posso mancare e convinco a venire con me anche F. (che poi mi ringrazierà, così com’era accaduto nel 2013 con D.).
Il Teatro Parioli per l’occasione ha assunto un aspetto particolare. Tutte le sedie sono state tolte per lasciare posto a tavolini e pouf che accoglieranno i partecipanti al concerto, molti dei quali si siederanno anche per terra (come il gruppetto in prima fila che Rachel chiamerà i vocal people).
Prima della Sermanni sul palco si esibisce Tess, un’americana che si è trasferita a vivere in Italia e qui ha trovato la sua dimensione (come leggo da qualche parte su Internet). Tess infatti parla italiano abbastanza bene ed è accompagnata da musicisti tutti italiani, due uomini e due donne, rispettivamente gli uomini alla chitarra e al violino, le donne alla viola e al violoncello.
C’è dunque molto di italiano nella sua esibizione, sebbene poi Tess riveli nel suo aspetto (etereo direi quasi, come il suo vestito…) e nelle sue canzoni la sua anima americana, o forse meglio sarebbe dire angloamericana.
Il suo opening ci predispone molto favorevolmente: Tess ha una bella voce e gli arrangiamenti del terzetto d’archi e dell’arpeggio alla chitarra sono molto interessanti, anche quando gli strumenti vengono usati come sostituti delle percussioni.
Alla fine della sua esibizione, silenziosa come un elfo nel bosco, ecco comparire sul palco Rachel, con una tuta larga e – come al solito – senza scarpe. Nella prima canzone imbraccia uno strumento che sembra un piccolo liuto e che suona quasi come un ukulele, poi arriva la sua fedele chitarrona, con cui Rachel si esibisce in tenere e potenti danze musicali.
Dopo qualche canzone eseguita in solitudine sul palco arriva anche Jennifer Austin alle tastiere, l’amica con cui Rachel collabora già da tempo e cui ha dedicato anche una canzone, Jen’s song, che non manca di eseguire.
Durante il concerto Rachel spazia attraverso l’intero suo repertorio attingendo ai suoi lavori, Under mountains, Tied to the moon e anche il piccolo album Gently. Come già nel concerto di due anni fa, ci regala però anche una versione acustica (e condivisa con il pubblico) di Dream a little dream of me, e nel tris (!) che il pubblico chiede rumoreggiando ci suona – sempre insieme a Jennifer – una canzone di Johnny Cash.
Dopo questa canzone ci augura la buonanotte, perché domani si torna in Scozia, per essere precisi nelle bellissime Highlands da cui Rachel proviene.
All’uscita c’è il solito banchetto coi CD, dove c’è già Tess con i suoi musicisti e dove presto arrivano anche Rachel e Jennifer. Io non posso non fare la mia solita scenetta: le chiedo se possiamo fare una foto insieme visto che sono stata praticamente a tutti i suoi concerti a Roma.
Chiedo a F. di fare la foto con la mia macchina fotografica ma lei non riesce e così Rachel chiama Jennifer – che intanto sta mangiando una banana ( :-D ) – la quale arriva e ci fa un piccolo servizio fotografico!
Come al solito esco dal suo concerto felice e in pace col mondo, consapevole di aver ascoltato due ore di ottima musica, esaltata dall’esecuzione dal vivo e dalle qualità di Rachel, e mentre la saluto ci diciamo che a questo punto ci aspettiamo reciprocamente per il prossimo concerto romano.
Grazie Rachel di questa bella serata.
Voto: 4/5
Rachel evidentemente ama le location un po’ raccolte e particolari. Disdegna i palchi più battuti della scena musicale romana e preferisce rassegne minori e palchi più raccolti perché ama molto entrare in connessione con le persone.
Io non posso mancare e convinco a venire con me anche F. (che poi mi ringrazierà, così com’era accaduto nel 2013 con D.).
Il Teatro Parioli per l’occasione ha assunto un aspetto particolare. Tutte le sedie sono state tolte per lasciare posto a tavolini e pouf che accoglieranno i partecipanti al concerto, molti dei quali si siederanno anche per terra (come il gruppetto in prima fila che Rachel chiamerà i vocal people).
Prima della Sermanni sul palco si esibisce Tess, un’americana che si è trasferita a vivere in Italia e qui ha trovato la sua dimensione (come leggo da qualche parte su Internet). Tess infatti parla italiano abbastanza bene ed è accompagnata da musicisti tutti italiani, due uomini e due donne, rispettivamente gli uomini alla chitarra e al violino, le donne alla viola e al violoncello.
C’è dunque molto di italiano nella sua esibizione, sebbene poi Tess riveli nel suo aspetto (etereo direi quasi, come il suo vestito…) e nelle sue canzoni la sua anima americana, o forse meglio sarebbe dire angloamericana.
Il suo opening ci predispone molto favorevolmente: Tess ha una bella voce e gli arrangiamenti del terzetto d’archi e dell’arpeggio alla chitarra sono molto interessanti, anche quando gli strumenti vengono usati come sostituti delle percussioni.
Alla fine della sua esibizione, silenziosa come un elfo nel bosco, ecco comparire sul palco Rachel, con una tuta larga e – come al solito – senza scarpe. Nella prima canzone imbraccia uno strumento che sembra un piccolo liuto e che suona quasi come un ukulele, poi arriva la sua fedele chitarrona, con cui Rachel si esibisce in tenere e potenti danze musicali.
Dopo qualche canzone eseguita in solitudine sul palco arriva anche Jennifer Austin alle tastiere, l’amica con cui Rachel collabora già da tempo e cui ha dedicato anche una canzone, Jen’s song, che non manca di eseguire.
Durante il concerto Rachel spazia attraverso l’intero suo repertorio attingendo ai suoi lavori, Under mountains, Tied to the moon e anche il piccolo album Gently. Come già nel concerto di due anni fa, ci regala però anche una versione acustica (e condivisa con il pubblico) di Dream a little dream of me, e nel tris (!) che il pubblico chiede rumoreggiando ci suona – sempre insieme a Jennifer – una canzone di Johnny Cash.
Dopo questa canzone ci augura la buonanotte, perché domani si torna in Scozia, per essere precisi nelle bellissime Highlands da cui Rachel proviene.
All’uscita c’è il solito banchetto coi CD, dove c’è già Tess con i suoi musicisti e dove presto arrivano anche Rachel e Jennifer. Io non posso non fare la mia solita scenetta: le chiedo se possiamo fare una foto insieme visto che sono stata praticamente a tutti i suoi concerti a Roma.
Chiedo a F. di fare la foto con la mia macchina fotografica ma lei non riesce e così Rachel chiama Jennifer – che intanto sta mangiando una banana ( :-D ) – la quale arriva e ci fa un piccolo servizio fotografico!
Come al solito esco dal suo concerto felice e in pace col mondo, consapevole di aver ascoltato due ore di ottima musica, esaltata dall’esecuzione dal vivo e dalle qualità di Rachel, e mentre la saluto ci diciamo che a questo punto ci aspettiamo reciprocamente per il prossimo concerto romano.
Grazie Rachel di questa bella serata.
Voto: 4/5
venerdì 20 ottobre 2017
120 battiti al minuto
Si spengono le luci in sala, si accendono quelle di una specie di aula scolastica dove si tengono le riunioni di Act Up Paris, il ramo francese di un’associazione americana che tra gli anni Ottanta e Novanta fece dure battaglie per i malati di AIDS.
Subito vengono messe in chiaro le regole del gioco: questo è un collettivo di attivisti e ciascuno è chiamato a dare il suo contributo nel rispetto delle regole di convivenza che il gruppo si è dato, il che non esclude un confronto a volte emotivamente duro tra i suoi componenti e lo scontro tra le diverse anime –talvolta inconciliabili – che lo attraversano.
Siamo dentro la storia con la S maiuscola, per quanto una storia spesso misconosciuta ovvero una storia che tutti abbiamo fatto finta di non conoscere o di dimenticare perché non ci riguardava.
Chiunque come me abbia vissuto la sua adolescenza e prima giovinezza tra gli anni Ottanta e la prima metà degli anni Novanta credo ricordi benissimo cosa ha significato questa vera e propria epidemia e come sia stata interpretata dall’ipocrisia e dal perbenismo dilagante (e mai superato): una specie di punizione divina per tutti i comportamenti devianti e promiscui e un monito per tutti.
Credo che l’approccio alla sessualità di un’intera generazione sia stato profondamente condizionato da questa dolorosa vicenda, che oggi ancora non si può dire conclusa.
Ebbene, in questo orizzonte della grande storia e delle azioni collettive dell’associazione si muovono e si consumano tante “piccole” storie, come quella – in particolare – di Sean (Nahuel Pérez Biscayart) e Nathan (Arnaud Valois), due giovanissimi che si incontrano ad Act Up e si innamorano. Sean è sieropositivo, Nathan no, ma ha conosciuto e incontrato l’AIDS nella sua vita.
Il loro desiderio sessuale e il loro amore è un riscatto della vita contro la morte che inesorabilmente invade gli spazi e assottiglia sempre di più il tempo di cui Sean dispone.
Il film di Robin Campillo è fatto di lunghi dibattiti tra i membri di Act Up, di progettazione e realizzazione di azioni per sensibilizzare – sempre in modo non violento – la politica e l’opinione pubblica, di momenti di gioia liberatoria attraverso il ballo e il sesso, di amore, gelosie e conflitti, di dolore e profonda tristezza per gli amici che la malattia si porta via uno dopo l’altro.
Un film non perfetto (dal mio punto di vista tradisce qualcosa di meccanico, di non perfettamente fluido), ma profondamente sincero nella misura in cui non idealizza i protagonisti, non li fa assurgere ad eroi, e al contempo non nasconde, né passa sotto silenzio quegli aspetti che ancora oggi urtano i perbenisti e i moralisti nascosti un po’ ovunque, perfino nella comunità gay.
La realtà è complessa e sfaccettata, ognuno di noi è un groviglio di sentimenti e di contraddizioni, ideali e meschinità si mescolano in maniera inscindibile, ma ognuno dei protagonisti di 120 battiti al minuto fa quello che può per un obiettivo in cui crede come bene collettivo e individuale.
Ed è questa straordinaria e talvolta scomoda sincerità che fa la bellezza e la forza di questo film.
Se vi posso dare un consiglio: andatelo a vedere in lingua originale!
Voto: 3,5/5
Subito vengono messe in chiaro le regole del gioco: questo è un collettivo di attivisti e ciascuno è chiamato a dare il suo contributo nel rispetto delle regole di convivenza che il gruppo si è dato, il che non esclude un confronto a volte emotivamente duro tra i suoi componenti e lo scontro tra le diverse anime –talvolta inconciliabili – che lo attraversano.
Siamo dentro la storia con la S maiuscola, per quanto una storia spesso misconosciuta ovvero una storia che tutti abbiamo fatto finta di non conoscere o di dimenticare perché non ci riguardava.
Chiunque come me abbia vissuto la sua adolescenza e prima giovinezza tra gli anni Ottanta e la prima metà degli anni Novanta credo ricordi benissimo cosa ha significato questa vera e propria epidemia e come sia stata interpretata dall’ipocrisia e dal perbenismo dilagante (e mai superato): una specie di punizione divina per tutti i comportamenti devianti e promiscui e un monito per tutti.
Credo che l’approccio alla sessualità di un’intera generazione sia stato profondamente condizionato da questa dolorosa vicenda, che oggi ancora non si può dire conclusa.
Ebbene, in questo orizzonte della grande storia e delle azioni collettive dell’associazione si muovono e si consumano tante “piccole” storie, come quella – in particolare – di Sean (Nahuel Pérez Biscayart) e Nathan (Arnaud Valois), due giovanissimi che si incontrano ad Act Up e si innamorano. Sean è sieropositivo, Nathan no, ma ha conosciuto e incontrato l’AIDS nella sua vita.
Il loro desiderio sessuale e il loro amore è un riscatto della vita contro la morte che inesorabilmente invade gli spazi e assottiglia sempre di più il tempo di cui Sean dispone.
Il film di Robin Campillo è fatto di lunghi dibattiti tra i membri di Act Up, di progettazione e realizzazione di azioni per sensibilizzare – sempre in modo non violento – la politica e l’opinione pubblica, di momenti di gioia liberatoria attraverso il ballo e il sesso, di amore, gelosie e conflitti, di dolore e profonda tristezza per gli amici che la malattia si porta via uno dopo l’altro.
Un film non perfetto (dal mio punto di vista tradisce qualcosa di meccanico, di non perfettamente fluido), ma profondamente sincero nella misura in cui non idealizza i protagonisti, non li fa assurgere ad eroi, e al contempo non nasconde, né passa sotto silenzio quegli aspetti che ancora oggi urtano i perbenisti e i moralisti nascosti un po’ ovunque, perfino nella comunità gay.
La realtà è complessa e sfaccettata, ognuno di noi è un groviglio di sentimenti e di contraddizioni, ideali e meschinità si mescolano in maniera inscindibile, ma ognuno dei protagonisti di 120 battiti al minuto fa quello che può per un obiettivo in cui crede come bene collettivo e individuale.
Ed è questa straordinaria e talvolta scomoda sincerità che fa la bellezza e la forza di questo film.
Se vi posso dare un consiglio: andatelo a vedere in lingua originale!
Voto: 3,5/5