Tappa pugliese e cinema con i nipoti. Un classico.
Questa volta arrivo giusto in tempo per vedere Cars 2, che è appena uscito nei cinema italiani. Ovviamente anche in 3D. Andiamo alla Casa delle Arti convinti che ci sia il 3D, ma in realtà lo spettacolo delle 18 sarà nella tradizionale versione bidimensionale. Si capisce subito, fin dalle prime spettacolari scene, che il film è stato costruito apposta per essere visto in 3D, con l'obiettivo di lasciare lo spettatore a bocca aperta. Peccato!
La storia - in realtà piuttosto ingarbugliata - è però facilmente sintetizzabile. Saetta McQueen, appena tornato vincitore dalla Piston Cup, sfidato dalla macchina italiana Francesco per una nuova corsa, il World Gran Prix, che sarà caratterizzata dall'uso di carburante ecologico, decide di ripartire portandosi dietro Cricchetto. Finiranno coinvolti in un vero e proprio intrigo internazionale, in cui il vero protagonista ed eroe sarà alla fine proprio lo scassatissimo "Carlo Attrezzi".
E così mentre il primo Cars era dedicato - come ha giustamente osservato mio nipote - a Saetta McQueen ed era interamente ambientato negli Stati Uniti (intorno a Radiator Spring), in questo caso invece i nostri stralunati eroi ci conducono da una parte all'altra del globo, prima in Giappone a Tokio (dove si svolgono alcune delle gag più esilaranti), poi in Italia, nella fantomatica Porto Corsa in Liguria, infine in Inghilterra, a Londra, fino a farci ritornare nella familiare piazza di Radiator Spring.
La storia - che oscilla tra un inno all'ecologia e l'elogio dell'amicizia - ha il ritmo forsennato degli ultimi James Bond e l'ardimento avventuroso di Mission Impossible
, ma non rinuncia all'ironia e alla cura del dettaglio e del particolare.
Difficile affermare che questa seconda puntata sia all'altezza del primo Cars, ma la rilettura automobilistica umanizzata che sta alla base di questo cartone riesce ancora a sorprendere, a far sorridere e a tenerci incollati allo schermo, grandi e piccini.
Menzione speciale per i titoli di coda, che proseguono sulla falsariga del viaggio intorno al mondo su cui è incentrata la storia, e si strutturano come cartoline dai luoghi più significativi del globo (le piramidi, il Taj Mahal, San Francisco, il Teatro dell'Opera di Sidney, l'esercito di terracotta, la grande muraglia ecc.), ridisegnati rispetto a un mondo in cui le vere protagoniste sono le automobili.
Chi da piccolo ha amato giocare con le macchinine non potrà che apprezzare la capacità di Cars di mettere sullo schermo tutte le nostre più fantasmagoriche invenzioni di gioco.
Voto: 3/5
domenica 26 giugno 2011
venerdì 17 giugno 2011
Corpo celeste
Marta (la bravissima Yle Vianello), o Martina, come più affettuosamente la chiama la mamma, è una ragazzina di 13 anni, che è tornata a vivere - insieme a sua madre Rita (Anita Caprioli) e sua sorella maggiore(Maria Luisa De Crescenzo) - alla periferia di Reggio Calabria, dopo molti anni vissuti in Svizzera.
I motivi di questo ritorno non sono svelati. Forse un padre svizzero che li ha abbandonate (o che è morto, come dice con sicurezza qualche recensione), costringendole a tornare in un contesto familiare dove per Rita è più facile trovare un lavoro, per quanto faticoso e pesante (lavora in un'attività di panificazione), e consentire alla sua famiglia di vivere dignitosamente.
La grettezza della mentalità, lo squallore dei paesaggi (cementificazione a perdita d'occhio, abusivismo edilizio, costruzioni non finite, fiumare piene di erba incolta e immondizia), l'ignoranza diffusa, i meccanismi di scambio elettorale, il prevalere dei modelli televisivi costituiscono il fluido vischioso in cui si muove l'anima in formazione di Marta.
E, nei suoi occhi, chi non è troppo distante cronologicamente da quell'età difficile riconosce quel processo di amplificazione emotiva, quella sensazione di essere senza pelle, quell'insieme di tenerezza, allegria e tristezza che è tipica di quella fase della vita.
I due piccoli mondi in cui si svolge la vita di Marta, quello familiare caratterizzato da una mamma dolcissima, ma essa stessa un po' bambina, e una sorella che manifesta un inspiegabile rancore e forse invidia un po' il rapporto tra sua madre e Marta, e quello della parrocchia, dominato da un parroco (Salvatore Cantalupo) intristito dalla perdita di qualunque motivazione, una catechista (Pasqualina Scuncia) che sembra avere in questo ruolo l'unico scopo della sua vita, un variopinto e - al contempo - spento gruppo di adolescenti, una comunità in cui la religione è l'involucro formale che permea un vuoto sostanziale, un codice interpretativo incapace di comprendere la complessità del presente.
Il film si sviluppa come una tenaglia che, fin dal principio, comunica un senso di soffocamento, di mancanza di libertà - anche quando ci fa sorridere e ridere - per poi stringersi intorno al cuore, in un crescendo di ansia che si scioglie - strozzata - solo tra le mani di Marta in cui guizza la coda tagliata di una lucertola: "È ancora viva".
Perché quello di Alice Rohrwacher è un film pieno di speranza. La speranza che passa per gli occhi di Marta quando sale sul terrazzo per guardare lontano, quando sfiora con le dita leggere il "crocifisso figurativo", quando guarda le ombre tremolanti con cui il movimento del lampadario trasfigura la cucina, quando cammina per la strada con il vento che sospinge tutto, quando attraversa il sottopassaggio invaso dall'acqua con il vestito bianco della cresima. È la speranza di chi è ancora capace di vedere le cose con occhi puliti e nuovi. Un inno alla ricchezza della diversità, che ancora una volta (come ne Il primo incarico) si incarna nel volto di una donna (questa volta giovanissima), che al Sud appartiene senza esserne posseduta.
Voto: 4/5
I motivi di questo ritorno non sono svelati. Forse un padre svizzero che li ha abbandonate (o che è morto, come dice con sicurezza qualche recensione), costringendole a tornare in un contesto familiare dove per Rita è più facile trovare un lavoro, per quanto faticoso e pesante (lavora in un'attività di panificazione), e consentire alla sua famiglia di vivere dignitosamente.
La grettezza della mentalità, lo squallore dei paesaggi (cementificazione a perdita d'occhio, abusivismo edilizio, costruzioni non finite, fiumare piene di erba incolta e immondizia), l'ignoranza diffusa, i meccanismi di scambio elettorale, il prevalere dei modelli televisivi costituiscono il fluido vischioso in cui si muove l'anima in formazione di Marta.
E, nei suoi occhi, chi non è troppo distante cronologicamente da quell'età difficile riconosce quel processo di amplificazione emotiva, quella sensazione di essere senza pelle, quell'insieme di tenerezza, allegria e tristezza che è tipica di quella fase della vita.
I due piccoli mondi in cui si svolge la vita di Marta, quello familiare caratterizzato da una mamma dolcissima, ma essa stessa un po' bambina, e una sorella che manifesta un inspiegabile rancore e forse invidia un po' il rapporto tra sua madre e Marta, e quello della parrocchia, dominato da un parroco (Salvatore Cantalupo) intristito dalla perdita di qualunque motivazione, una catechista (Pasqualina Scuncia) che sembra avere in questo ruolo l'unico scopo della sua vita, un variopinto e - al contempo - spento gruppo di adolescenti, una comunità in cui la religione è l'involucro formale che permea un vuoto sostanziale, un codice interpretativo incapace di comprendere la complessità del presente.
Il film si sviluppa come una tenaglia che, fin dal principio, comunica un senso di soffocamento, di mancanza di libertà - anche quando ci fa sorridere e ridere - per poi stringersi intorno al cuore, in un crescendo di ansia che si scioglie - strozzata - solo tra le mani di Marta in cui guizza la coda tagliata di una lucertola: "È ancora viva".
Perché quello di Alice Rohrwacher è un film pieno di speranza. La speranza che passa per gli occhi di Marta quando sale sul terrazzo per guardare lontano, quando sfiora con le dita leggere il "crocifisso figurativo", quando guarda le ombre tremolanti con cui il movimento del lampadario trasfigura la cucina, quando cammina per la strada con il vento che sospinge tutto, quando attraversa il sottopassaggio invaso dall'acqua con il vestito bianco della cresima. È la speranza di chi è ancora capace di vedere le cose con occhi puliti e nuovi. Un inno alla ricchezza della diversità, che ancora una volta (come ne Il primo incarico) si incarna nel volto di una donna (questa volta giovanissima), che al Sud appartiene senza esserne posseduta.
Voto: 4/5
venerdì 10 giugno 2011
Il primo incarico
È un film di una bellezza struggente e malinconica questo di Giorgia Cecere.
Perché tale è la bellezza di Isabella Ragonese nel ruolo di Nena, una giovanissima maestra che - come primo incarico - viene mandata dal suo paese del Salento (dove vive con la sorellina adorata e la mamma con cui ha un rapporto difficile) in una piccolissima comunità rurale della valle d'Itria a insegnare a una classe di sette bambini. Lei innamorata di Francesco (Alberto Boll, la cui recitazione ho trovato davvero troppo ingessata e poco espressiva), un giovanotto dell'alta borghesia in cui riconosce i valori di un mondo altro cui aspira. Si troverà a fare i conti con una reatà governata da norme sociali arcaiche, in cui le donne sono silenziose e sottomesse, responsabili dei figli e della cucina, e gli uomini sono rozzi e insensibili, in cui la comunicazione tra questi due mondi è difficile se non impossibile.
Malinconica e struggente è anche la bellezza di questa Puglia degli anni Cinquanta, antica e sempre attuale, in cui a farla da padroni sono gli ulivi, la terra rossa, i muretti a secco, i centri storici imbiancati con la calce, i trulli e la cultura contadina. In un susseguirsi delle stagioni che rivela tutti i colori e - sorprendentemente - anche gli odori di questa terra. La pioggia che accentua il grigio delle foglie d'ulivo e il silenzio assordante della campagna. Il sole che rende accecante il bianco delle case. Il vento che soffia sempre a rendere mobili e instabili le coscienze, ma anche a pulire continuamente cielo e paesaggio.
Nel lasso temporale in cui si compie il ciclo immutabile della natura in un contesto umano che sembra non lasciarsi scalfire dal passare del tempo, Nena farà il suo delicato e controverso percorso interiore, compirà una scelta coraggiosa e paradossalmente originale nel trovare una sintonia con una cultura contadina la cui disarmante semplicità non è pochezza se non agli occhi dello snobismo borghese, il cui silenzio non è assenza di senso se non alle orecchie di chi non lo comprende, il cui equilibrio arcaico non è spaventoso se non al cuore di chi non ha ancora fatto i conti con la propria interiorità.
Difficile per me guardare con occhio obiettivo questo film su una terra che mi appartiene, che ho prima interiorizzato dandola per scontata, poi rifiutata nel riconoscerne confini troppo ristretti, poi recuperata e amata nella comprensione resa possibile da una personalità che ha trovato un suo, autonomo, percorso.
Nena sceglie di restare. Allo stesso modo in cui io ho scelto di andare.
Si è tutti un po' "cuori in inverno" in un mondo così. Ed è questa la cifra dominante del film (evidente nella voluta rigidità della sceneggiatura, dell'impianto narrativo e della recitazione). Il disgelo però è un'opportunità per chi, come Nena, aspira alla consapevolezza di sé.
Voto: 3,5/5
Perché tale è la bellezza di Isabella Ragonese nel ruolo di Nena, una giovanissima maestra che - come primo incarico - viene mandata dal suo paese del Salento (dove vive con la sorellina adorata e la mamma con cui ha un rapporto difficile) in una piccolissima comunità rurale della valle d'Itria a insegnare a una classe di sette bambini. Lei innamorata di Francesco (Alberto Boll, la cui recitazione ho trovato davvero troppo ingessata e poco espressiva), un giovanotto dell'alta borghesia in cui riconosce i valori di un mondo altro cui aspira. Si troverà a fare i conti con una reatà governata da norme sociali arcaiche, in cui le donne sono silenziose e sottomesse, responsabili dei figli e della cucina, e gli uomini sono rozzi e insensibili, in cui la comunicazione tra questi due mondi è difficile se non impossibile.
Malinconica e struggente è anche la bellezza di questa Puglia degli anni Cinquanta, antica e sempre attuale, in cui a farla da padroni sono gli ulivi, la terra rossa, i muretti a secco, i centri storici imbiancati con la calce, i trulli e la cultura contadina. In un susseguirsi delle stagioni che rivela tutti i colori e - sorprendentemente - anche gli odori di questa terra. La pioggia che accentua il grigio delle foglie d'ulivo e il silenzio assordante della campagna. Il sole che rende accecante il bianco delle case. Il vento che soffia sempre a rendere mobili e instabili le coscienze, ma anche a pulire continuamente cielo e paesaggio.
Nel lasso temporale in cui si compie il ciclo immutabile della natura in un contesto umano che sembra non lasciarsi scalfire dal passare del tempo, Nena farà il suo delicato e controverso percorso interiore, compirà una scelta coraggiosa e paradossalmente originale nel trovare una sintonia con una cultura contadina la cui disarmante semplicità non è pochezza se non agli occhi dello snobismo borghese, il cui silenzio non è assenza di senso se non alle orecchie di chi non lo comprende, il cui equilibrio arcaico non è spaventoso se non al cuore di chi non ha ancora fatto i conti con la propria interiorità.
Difficile per me guardare con occhio obiettivo questo film su una terra che mi appartiene, che ho prima interiorizzato dandola per scontata, poi rifiutata nel riconoscerne confini troppo ristretti, poi recuperata e amata nella comprensione resa possibile da una personalità che ha trovato un suo, autonomo, percorso.
Nena sceglie di restare. Allo stesso modo in cui io ho scelto di andare.
Si è tutti un po' "cuori in inverno" in un mondo così. Ed è questa la cifra dominante del film (evidente nella voluta rigidità della sceneggiatura, dell'impianto narrativo e della recitazione). Il disgelo però è un'opportunità per chi, come Nena, aspira alla consapevolezza di sé.
Voto: 3,5/5