giovedì 30 dicembre 2021

Sull’isola di Bergman

In realtà io e S. volevamo andare a vedere Caro Evan Hansen, ma quando arriviamo al cinema scopriamo che avevo guardato male la programmazione e il film non c’è più. A quel punto cerchiamo un’alternativa e l’unica soluzione compatibile come orario e come distanza è l’ultimo film di Mia Hansen-Løve, Sull’isola di Bergman

Io della giovane regista francese avevo visto – con una certa qual soddisfazione – alcuni film precedenti e ne avevo apprezzato lo sguardo, attento in particolare al ruolo femminile all’interno della famiglia, e dunque speravo in un nuovo lavoro interessante. 
Come suggerisce già il titolo, la storia qui narrata è ambientata nell’isola svedese che Bergman scelse come suo luogo di vita e di lavoro, ossia l’isola di Fårö. Qui arriva una coppia di registi, Chris (Vicky Krieps) e Tony (Tim Roth) per trascorrere un’estate, proprio in quella che a suo tempo era stata la casa di Bergman e dove i due intendono portare avanti la scrittura delle storie che diventeranno i loro prossimi film. 
Tony è un regista già molto affermato, ha una grande facilità di scrittura e si immerge nell’ambiente di Bergman con grande naturalezza e senza turbamenti. Chris, molto più giovane di lui, è sicuramente meno famosa, ha una scrittura più faticosa e molti fattori di insoddisfazione e frustrazione, in particolare la difficoltà di conciliare e armonizzare vita privata e lavoro, che in parte è responsabile di una commistione, sovrapposizione e sostituzione tra vita reale e narrazione. 
Il rapporto tra Tony e Chris è certamente tenero e affettuoso, ed entrambi amano profondamente la loro figlia, ma la loro è diventata quasi un’amicizia, in cui il desiderio sessuale è ormai assente ed entrambi lo trasferiscono nella narrazione. 
È così che a un certo punto, quando Chris comincia a raccontare a Tony la storia che sta scrivendo, questa vicenda, ambientata proprio a Fårö prende vita sullo schermo e i suoi due protagonisti, Amy (Mia Wasikowska) e Joseph (Anders Danielsen Lie), in un’estate in cui si incontrano per il matrimonio di un’amica, rivivono la loro passione mai sopita, che li avvicina e poi li allontana nuovamente, soffocata dall’impossibilità di essere effettivamente vissuta. 
Il film nel film che sullo schermo prende il posto della vita vissuta da Chris e Tony a un certo punto sembra invadere la narrazione principale, nel sovrapporsi di sentimenti e protagonisti. 
Su tutto aleggia il nume tutelare dell’isola, Ingmar Bergman, che è ovunque e impregna di sé qualunque azione e scelta. 
Nel complesso ne viene fuori un film in cui i livelli di rispecchiamento sono tanti: non è strano pensare che i protagonisti del film siano un po’ l’alter ego della stessa regista e di suo marito, Olivier Assayas, ma poi - come abbiamo visto - questi stessi protagonisti a loro volta si rispecchiano nei personaggi delle storie da loro narrate, mentre negli interstizi si infilano frammenti della vita reale di Bergman e delle storie da lui raccontate nei suoi film. Il rischio di una possibile e sostanziale autoreferenzialità è fortissimo, con la quasi inevitabile conseguenza di creare una certa distanza degli spettatori dai personaggi (a qualunque livello si collochino), anche in conseguenza di una palpabile rigidità dello sviluppo narrativo (forse accentuata anche dal per me ormai insopportabile doppiaggio). 
Mia Hansen-Løve prosegue nella sua indagine molto personale sui sentimenti, osservandoli molto da vicino su sé stessa e sulle storie della propria famiglia, ma in questo caso a mio modesto avviso la regista, nel tentativo di introdurre dei filtri, si allontana un po’ dall’autenticità dei sentimenti. 
Voto: 3/5

lunedì 27 dicembre 2021

Tavola tavola chiodo chiodo / di e con Lino Musella. Teatro Vascello, 30 novembre 2021

Lino Musella l’avevo scoperto insieme a F. qualche anno fa nello spettacolo Orphans di Dennis Kelly, dove faceva la parte di un giovane inquietante e borderline. Abbiamo capito dopo che la parte del cattivo o comunque del personaggio un po’ disturbante è una di quelle che gli si addice particolarmente e nel quale forse è in parte rimasto intrappolato.

Ma Musella è talento a tutto tondo, e lo dimostra come regista e attore di questo spettacolo che prende in prestito il titolo, Tavola tavola chiodo chiodo, dalla lapide eretta in memoria dello storico macchinista del Teatro San Ferdinando, Peppino Mercurio.

Avvalendosi della raffinata e attenta ricerca storica e archivistica realizzata da Maria Procino e accompagnato sul palco dalla chitarra di Marco Vidino, Lino Musella ci racconta e a tratti interpreta il grande Eduardo De Filippo, utilizzando le sue lettere, i discorsi istituzionali, i documenti, che gettano luce su aspetti privati e pubblici della sua vita.

Al centro c’è l’impegno di Eduardo per la ristrutturazione e la riapertura del Teatro San Ferdinando di Napoli, e non a caso all’apertura del sipario, al centro c’è una specie di modellino del teatro che il protagonista sta realizzando e durante tutto lo spettacolo Lino/Eduardo è impegnato in un lavorio continuo mediante il quale fa e disfa, evocando scenari.

Ne emergono cenni alla vita privata, il rapporto con i membri della sua famiglia, la morte della figlia, ma soprattutto il suo amore per il teatro e il suo impegno sociale (ad esempio per i ragazzi incarcerati a Poggioreale o al centro Filangieri), due cose che lo portano spesso alla polemica e all’invettiva politica. Eduardo resta un uomo libero e coerente con le sue idee anche quando entra in Senato dopo essere stato nominato Senatore a vita.

Lino Musella non imita Eduardo, ogni tanto ne accenna qualche movenza e qualche espressione, ne riprende la parlata napoletana, ma nel complesso sceglie di entrare e uscire dal personaggio per non banalizzarlo e proporlo al pubblico in tutta la sua complessità.

Per me che Eduardo lo conosco molto poco, tanti riferimenti e suggerimenti finiscono nel vuoto e probabilmente anche parte della bravura di Musella diventa difficile da cogliere. Ma, nonostante questo, ne colgo e apprezzo il suo modo di tenere il palco, la capacità di combinare il lavoro manuale con la recitazione, quasi che le due cose si rafforzino a vicenda, la bravura nel rendere affascinanti testi che in buona parte non erano nati per essere recitati, e nemmeno in alcuni casi per diventare pubblici.

Al termine dello spettacolo, quando il modellino del teatro crolla su sé stesso e Lino/Eduardo annuncia che dovrà rifare per l’ennesima volta “o presepio”, il pubblico prorompe in un applauso fragoroso e prolungato che sancisce l’apprezzamento per il suo regista e interprete, nonché per un personaggio immortale e insuperato come Eduardo De Filippo.

Voto: 3,5/5

giovedì 23 dicembre 2021

È stata la mano di dio

Paolo Sorrentino torna al cinema con un film, che – come è stato osservato da molti commentatori e confermato da lui stesso – è il suo più personale. Il protagonista, Fabio Schisa (Filippo Scotti), è il Sorrentino adolescente, che vive con la sua famiglia (i genitori, il fratello maggiore e la sorella) in quella Napoli dei primi anni Ottanta in trepidante e incerta attesa dell’arrivo di Maradona.

Nel film non mancano i marchi di fabbrica che ormai rendono i film di Sorrentino riconoscibili anche a livello internazionale: da un lato un gusto estetico e una ricerca dell’inquadratura che a me che ho la passione della fotografia affascinano moltissimo, ma che capisco possano risultare stucchevoli quando troppo insistiti, dall’altro la passione profonda per i personaggi estremi e le situazioni iperboliche, spesso ai confini del fantastico (con una strizzatina d'occhio, anzi qualcosa di più a Fellini).

Nelle prime scene del film le riprese di una Napoli notturna e misteriosa e la comparsa del “monaciello” fanno pensare che ci si trovi di fronte al solito Sorrentino. E però non è esattamente così. Perché subito dopo si entra prepotentemente nella vita di questo ragazzo introverso e solitario, Fabietto, che osserva la sua famiglia e il mondo circostante con occhi curiosi e indagatori, cogliendone le profonde contraddizioni, la straordinaria ricchezza nonché il lato oscuro.

Suo padre e sua madre (Toni Servillo e Teresa Saponangelo) sono due personaggi complessi e stratificati: buontemponi, sognatori, innamorati e romantici, nascondono però dolori profondi, segreti di coppia (che tanto segreti non sono), paure e frustrazioni. Intorno a loro famiglie che agli occhi di Fabietto sembrano vere e proprie corti dei miracoli: la zia grassa con il fidanzato vecchio che parla grazie a un sintetizzatore, uno zio che prende mazzette e finisce in galera, una zia bellissima ma considerata pazza che viene malmenata dal marito ecc.

Fabio si guarda intorno con curiosità e attenzione, agitato dai primi turbamenti sessuali e dall’ansia del futuro che si sta affacciando alle porte della sua vita. È stata la mano di dio è un vero e proprio romanzo di formazione, che come tutti i coming of age prevede che il protagonista attraversi una grande prova dalla quale uscirà trasformato e pronto a fare il passo decisivo verso l’età adulta.

Nell’estate in cui Maradona arriva al Napoli contro ogni pronostico, riempiendo di una gioia incontenibile l’animo dei tifosi napoletani, Fabio deve fare i conti con una serie di verità che non conosceva e di novità inattese: suo padre – nonostante l’amore che lo lega a sua madre e l’atmosfera scanzonata delle loro dinamiche di coppia - ha da anni un’altra donna e anche un altro figlio, suo fratello non riesce a intraprendere come vorrebbe la carriera di attore e intanto incontra una ragazza di cui si innamora, nelle famiglie di origine dei suoi genitori vari eventi infrangono i fragili equilibri esistenti. Tutto questo culmina con l’incidente domestico che uccide i suoi genitori e che lascia Fabio solo di fronte al mondo e al futuro.

È con questo dolore irrimediabile che il ragazzo dovrà fare i conti e gli incontri più o meno assurdi che ne seguiranno saranno il motore della scelta che lo traghetterà verso il futuro.

Nel film di Sorrentino si ride molto: la famiglia allargata da cui proviene Fabietto incarna la napoletanità all’ennesima potenza e offre in continuazione situazioni esilaranti, sebbene venate di quella malinconia che è in fondo tipica dell’ironia napoletana. Però la storia di Fabio è capace anche di commuovere attraverso l’identificazione empatica con questo ragazzo spaurito e ingenuo, la cui risposta a quasi tutto è mettere le cuffie sulle orecchie e perdersi nel proprio mondo, da cui noi spettatori siamo completamente esclusi, visto che mai sentiamo quello che lui ascolta, tranne nella scena finale in treno in cui la bellissima Napul’è di Pino Daniele da canzone riprodotta sul walkman diventa colonna sonora dei titoli di coda.

Resta nel film di Sorrentino una componente di artificiosità e una ricerca della soluzione a effetto studiata quasi sempre a tavolino che risultano a tratti un po’ indigesti, però fare la conoscenza con la storia di Fabio e il suo modo di guardare il mondo aiuta a capire meglio il cinema di Sorrentino e a dare un senso a delle scelte che decontestualizzate potrebbero apparire solo un vezzo da regista, e invece molto probabilmente sono la naturale evoluzione di uno sguardo.

Voto: 3,5/5


martedì 21 dicembre 2021

Scompartimento n. 6

Laura (Seidi Haarla) è una giovane finlandese che studia archeologia a Mosca, dove ha una relazione con Irina. Proprio a casa di quest’ultima, circondata da mondanità e divertissement intellettuali, Laura trascorre l’ultima serata prima di prendere il treno per Murmansk, uno dei paesi più a nord della Russia, quasi all’altezza del circolo polare artico, dove si trovano degli splendidi petroglifi di cui Irina le ha parlato e che lei ha visto solo sui libri.

In realtà il viaggio avrebbe dovuto essere proprio con Irina, ma quest’ultima non parte a causa di impegni lavorativi, e dunque Laura si ritrova a condividere gli spazi ristretti dello scompartimento della Transiberiana con Ljoha (Yuriy Borisov), un giovane anche lui diretto a Murmansk per un lavoro stagionale in miniera. La convivenza tra i due appare difficile: Ljoha, oltre a bere come una spugna, non nasconde in alcun modo il suo maschilismo e sciovinismo, in buona parte frutto di ignoranza e di un’estrazione sociale bassa, quanto di più lontano da Laura e dal suo mondo. Per la ragazza lo scompartimento diventa dunque quasi una prigione da cui tenta più volte di scappare.

Le lunghe ore trascorse negli spazi angusti del treno, il paesaggio naturale e umano sempre più estremo che scorre oltre i finestrini e le lunghe soste che il treno impone ai suoi passeggeri in posti a volte assurdi trasformano a poco a poco il rapporto tra queste due persone apparentemente incompatibili in una forma di complicità, di amicizia, di fiducia reciproca, che a un certo punto sembra addirittura sfociare in amore. Questo confine non viene però mai realmente superato, in una sorta di pudore reciproco per cui Laura e Ljoha sanno benissimo che il loro è un incontro destinato a durare il tempo di un viaggio.

Per Laura questo viaggio dai risvolti inaspettati diventa un percorso interiore alla scoperta di sé stessa, da un lato attraverso la solitudine (e la consapevolezza della distanza e della distrazione di Irina nei suoi confronti) e dall’altro attraverso il confronto con un mondo e un’umanità molto diversi da sé, ma con cui è possibile stabilire una forma di vicinanza altrettanto importante e profonda di quella che si instaura con le persone che sono a noi più simili o con cui abbiamo relazioni più durature.

Tutto questo avviene dentro un contesto che ha un sapore vintage, dal momento che siamo in pieni anni Novanta, non ci sono i cellulari, mentre i walkman, le telecamere, le polaroid, la musica con sonorità elettronica fanno parte della quotidianità di tutti e invadono le scene (nel caso della musica, essa transita, in un andirivieni continuo, tra dimensione diegetica ed extradiegetica).

Juho Kuosmanen ci porta dunque in un tempo e in uno spazio che sono decisamente ai confini, se non fuori dai confini della nostra esperienza, eppure – ancora una volta, grazie al potere magico dei film ben riusciti – tutto quello che accade su questo schermo (che tra l’altro è un riversamento in digitale di un girato su pellicola) lo sentiamo come nostro, ci si appiccica alla pelle. E non perché siamo stati sulla Transiberiana, o perché abbiamo fatto a palle di neve in un posto sperduto a ridosso del circolo polare artico, ma perché questa sorta di coming of age tardivo (quello che io chiamo la seconda nascita, il momento in cui scopriamo davvero chi siamo e lo facciamo solo quando ci troviamo di fronte all’ignoto fuori e dentro di noi) ci appartiene fortemente come esseri umani ed è qualcosa che resta vivido e impresso a chi ci è passato attraverso. Se poi quel momento è avvenuto – come nel mio caso – proprio negli anni Novanta e ha avuto nei treni notturni una delle prime occasioni di confronto con il mondo l’effetto del film di Kuosmanen non può che essere amplificato.

I due attori - a cui il regista sta attaccato addosso con la sua telecamera - sono bravissimi nell’esprimere attraverso i loro volti, prima ancora che con le parole, i loro pensieri e a far passare - attraverso gli sguardi - sentimenti senza nome e difficili da categorizzare. Il sorriso di Laura nell’auto che la riporta indietro è il sigillo di un incontro speciale che, costringendoci a uscire dalla nostra comfort zone e a mettere da parte le nostre impalcature mentali, ci apre alla vita e al futuro.

Voto: 4/5


venerdì 17 dicembre 2021

La strada che va in città / Natalia Ginzburg; regia di Iaia Forte; con Valentina Cervi. Teatro Palladium, 27 novembre 2021

Nell'ambito della manifestazione Flautissimo, organizzata dall'Accademia Italiana del Flauto e scoperta per caso da un manifesto per strada, vengo attratta dallo spettacolo tratto dal racconto/romanzo breve di Natalia Ginzburg, La strada che va in città, uscito nel 1942 con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte (per sfuggire alle leggi razziali). Lo spettacolo, in programma al Teatro Palladium della Garbatella, è diretto da Iaia Forte e interpretato da Valentina Cervi.

Si tratta, come prevedibile, di un monologo, nel quale la Cervi interpreta innanzitutto la protagonista del racconto, ma anche gli altri personaggi che le ruotano intorno.

Al centro della narrazione Delia, una giovane di 17 anni, che oltre a una sorella già sposata, Azalea, e altri tre fratelli, è cresciuta con Nini, figlio di un cugino del padre rimasto orfano.

In casa sono in troppi, e troppo poveri, per cui Delia, così come i suoi fratelli, non appena può scappa verso la città per chiacchierare con le amiche, incontrare persone, guardare le vetrine, e soprattutto per non pensare alla sua famiglia. Delia sogna una vita migliore e soprattutto lontana dalla casa di origine, ma l'unico esempio che ha è quello della sorella che si è sposata a 17 anni, vive in città e conduce una vita oziosa (sta a letto tutto il giorno, litiga con il marito e l'amante, non si occupa dei figli, e affida tutte le incombenze alla cameriera).

Anche a Delia sembra dunque che l'unica vera occasione di sfuggire al suo destino sia quella di sposarsi presto, cosicché cede al corteggiamento di Giulio, un giovane che studia medicina, e finisce incinta, sebbene i suoi sentimenti vadano nella direzione di Nini.

Il desiderio spasmodico di sfuggire alla povertà da un lato e la condizione di minorità determinata da una società fortemente patriarcale dall'altro conducono la ragazza verso una vita che certamente le garantisce un maggior benessere materiale, ma che sarà costellata da rimpianti e da una strisciante, se non palese, infelicità.

L'impossibilità di scegliere la propria vita liberamente e di autodeterminarsi, nonché le limitatissime opportunità a propria disposizione, anche e soprattutto perché donna, costituiscono per Delia un fardello insostenibile e una condanna cui è impossibile sottrarsi.

A livello di spettacolo teatrale, ho apprezzato molto la compostezza e la qualità interpretativa di Valentina Cervi, mentre la messa in scena e le scelte musicali mi sono sembrate piuttosto superflue, o comunque poco capaci di valorizzare il testo. Nel complesso però l'ho trovata un'operazione interessante, e sono contenta di essere tornata al Palladium dopo tanto tempo e di aver scoperto questo testo della Ginzburg che non conoscevo.

Voto: 3,5/5

mercoledì 15 dicembre 2021

Strappare lungo i bordi

Dopo aver sentito raccontare in ogni dove meraviglie sulla nuova serie animata di Zerocalcare, Strappare lungo i bordi, finalmente sono riuscita a vederla in una piovosa serata di novembre.

Chi legge questo blog sa che non sono stata una delle estimatrici della prim'ora di Zero, ma da quando l'ho scoperto - ormai parecchi anni fa - non l'ho più abbandonato.

Zerocalcare, aka Michele Rech, è un grande disegnatore e un grande narratore di storie, e questo gli ha permesso di passare con grande facilità dalle strisce alle narrazioni brevi per arrivare al romanzo grafico e infine alla serie animata. Tutte queste espressioni del suo mondo creativo hanno una coerenza di fondo che si può sintetizzare nella perfetta fusione tra una profondità di riflessione invidiabile su temi di grande respiro e la capacità di analizzare con grande arguzia e con un effetto esilarante le piccole cose della vita, che spesso sono sue personali ma in cui è facile riconoscersi.

Ebbene, per me che di Zerocalcare ho letto praticamente tutto, Strappare lungo i bordi è stata "semplicemente" una conferma. O meglio, Zero dimostra di avere un gusto e una capacità non indifferenti nel trasformare le sue storie, prima fissate sulle pagine, in racconti animati, rimanendo fedele a sé stesso e senza perdere mordente. Cosa questa che non era affatto scontata.

A livello invece di contenuti mi pare che Strappare lungo i bordi parli soprattutto a quelli a cui mancano le puntate precedenti, a chi non lo conosceva o lo aveva sempre snobbato. E in questo senso è un po’ una sintesi del mondo di Zerocalcare, del suo passato, del contesto e della sua filosofia di vita. Ma molte di queste cose noi lettori dei suoi fumetti le sapevamo già. Poi certo qua e là sbuca un’invenzione inattesa, che ci fa ridere a crepapelle o ci fa commuovere, e il fil rouge che tiene insieme il racconto ci dice qualcosa di nuovo, mescola le carte di indizi che Zero aveva lasciato qua e là nei suoi fumetti.

Però, se dovessi dire, mi sembra che a livello di “poetica” individuale e generazionale, i suoi ultimi graphic novel, Macerie prime e Scheletri, rappresentano un passo successivo rispetto a quanto espresso nella serie.

In Strappare lungo i bordi siamo ancora ai trentenni che hanno scoperto di non avere alcun percorso tracciato e spesso su questo cammino tortuoso si perdono o si fermano. In Macerie prime e Scheletri siamo invece agli stessi trentenni (ormai quasi quarantenni) che hanno cominciato a fare i conti con la vita adulta, a tirare qualche somma, a fare qualche bilancio e anche qualche valutazione, in cui ognuno deve cercare la propria quadra.

Ovviamente c’è ampio spazio per stagioni successive della serie che possono riagguantare i traguardi intimi di Macerie prime e Scheletri, e probabilmente andare anche oltre. Il fatto stesso che nell’ultima puntata i suoi amici, prima tutti doppiati da lui, acquistino una voce propria, è in un certo senso il segnale che anticipa un’evoluzione, e in questo caso lo fa sfruttando una caratteristica specifica della serie animata, una voce propria dei personaggi (non più l'unica presente nella testa del lettore).

E però inin questa prima stagione era giusto che si ripartisse dall’inizio, una scelta che ha dato ragione ancora una volta a Zerocalcare, visto il successo straordinario.

Tutte le altre polemiche, la romanità, Biella ecc., sono tutti inutili divertissement da social.

Voto: 3,5/5



lunedì 13 dicembre 2021

Il potere del cane = The power of the dog

Torna al cinema dopo 12 anni Jane Campion, la regista cult di Lezioni di piano. E lo fa con l’adattamento cinematografico del romanzo omonimo di Thomas Savage, risalente al 1967.

Siamo in Montana nel 1925 (per la verità siamo in Nuova Zelanda, ma la Campion riesce benissimo a creare l’illusione delle praterie americane). Due fratelli, Phil (Benedict Cumberbatch) e George (Jesse Plemons), gestiscono il ranch di famiglia, mentre i loro genitori vivono in città.

Phil è un cowboy “vero”, totalmente dedito agli animali e ai lavori della fattoria, e impegnato costantemente - nel ricordo del suo mentore Bronco Henry - a dimostrare la propria mascolinità, anche attraverso l’umiliazione degli altri, per primo suo fratello George, che chiama “fatso” (per il fatto di essere in carne). Quest’ultimo invece è un uomo mite, moderato, veste sempre elegante e fa lunghi bagni in vasca.

Durante lo spostamento delle mandrie, i due fratelli con l’intero personale della fattoria si fermano in un diner gestito da Rose (Kirsten Dunst), con l’aiuto di suo figlio Peter (Kodi Smit-McPhee), un ragazzo delicato e un po’ femmineo che crea fiori di carta.

Phil non si lascerà sfuggire l’occasione di umiliare lui e sua madre. Questo episodio avvicinerà George a Rose, fino a fargli scegliere la strada del matrimonio, cui segue il trasferimento di Rose presso la fattoria.

La presenza di Rose e successivamente di suo figlio Peter innescherà una reazione vieppiù ostile e sadica da parte di Phil, con un effetto tossico sulle vite di tutti.

In realtà a poco a poco la verità che sta sotto la superficie degli eventi comincia a venire a galla e la percezione univoca e netta che lo spettatore ha coltivato fino a un certo momento viene progressivamente messa in discussione rivelando tratti individuali inattesi, producendo dinamiche impreviste e capovolgendo l’interpretazione della realtà, fino al colpo di scena finale.

Il film della Campion, come è tipico della sua cinematografia, si muove con grande agio nei territori del non detto, del torbido e del morboso. Molti elementi narrativi rimangono ignoti allo spettatore, alcuni sono solo accennati, cosicché non è semplice collocare ogni cosa al suo posto e vedere chiaramente il disegno, esattamente come solo Phil e Peter riescono a vedere l’ombra del cane che, con certe condizioni di luce, si staglia sulle colline di fronte alla fattoria.

Quello che è certo è che colui che ci appare certamente come un personaggio odioso e tossico, ossia Phil, è molto più sfaccettato di quello che sembra, e i confini tra buoni e cattivi, e tra bene e male, sono molto più sfumati di quanto appaia a prima vista, perché anche dietro i silenzi si possono nascondere molti orrori.

Il potere del cane, titolo che si richiama a un versetto del salmo 21, è un thriller psicologico che intriga, ma non si concede del tutto; che preferisce l’involuzione alla spiegazione, e dunque che – pur sviluppando appieno la trama – lascia spazio nel suo insieme a interpretazioni diverse e di segno opposto. Phil è un sadico che riversa sugli altri la propria sofferenza e l’impossibilità di essere sé stesso, oppure Phil è solo più intelligente e più sensibile degli altri, e non nasconde il suo malessere, e proprio per questo suo modo di essere diventa il capro espiatorio di tutti i limiti e le colpe altrui, che in realtà sono solo e soltanto le loro.

Non so cosa aveva in mente la regista, e ancora prima lo scrittore, ma a me piace pensare che quella giusta sia la seconda interpretazione.

Voto: 3,5/5



giovedì 9 dicembre 2021

Foto/Industria. V biennale di fotografia dell’industria e del lavoro. Bologna, Fondazione MAST, 14 novembre 2021

Foto/Industria è una biennale di fotografia sui temi dell'industria e del lavoro, promossa dalla Fondazione MAST (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia) di Bologna. L'edizione di quest'anno, curata da Francesco Zanot, è dedicata al tema Food, un argomento che - come dice lo stesso curatore - ne contiene moltissimi altri e che, attraverso la fotografia, è in grado di sollevare questioni centrali per la contemporaneità: il lavoro, l'ambiente, la sostenibilità, le tradizioni, la globalizzazione ecc.

La biennale si articola in 11 mostre che si sviluppano su 11 luoghi della città, tutte gratuite per il pubblico. Alcune di esse sono anche l'occasione per scoprire angoli e architetture di Bologna poco conosciute. Nel mio weekend bolognese, in una giornata piovosissima e grigia, sono riuscita a vederne ben quattro. Eccole.

La nebbia di Bologna
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Favignana / Herbert List. Palazzo Fava


La prima delle due mostre ospitate a Palazzo Fava è quella di Herbert List intitolata Favignana, che è uno dei tanti lavori del fotografo tedesco per l'agenzia Magnum. List era innamorato dell'Italia e nel nostro paese produsse molti dei suoi reportage; quello in mostra venne realizzato nel 1951 durante uno dei viaggi a Sud e racconta attraverso 41 fotografie il rito della pesca del tonno e della mattanza intorno al famoso stabilimento Florio (ora in via di restauro e di trasformazione in centro culturale, come raccontato nel mio post sul viaggio a Favignana).

Le foto vengono presentate su un espositore disposto a ferro di cavallo in cui il visitatore segue il percorso immaginato da List in maniera lineare. In questo percorso ci sono immagini dei pescatori, delle barche, dei tonni, dello stabilimento, il prima, il durante e il dopo della pesca, un insieme coerente di immagini che inquadra l'evento in un più ampio contesto socio-industriale. A parte singole foto di grande impatto visivo, la cosa per me interessante del reportage di List è la varietà delle sue scelte, anche a livello compositivo e di formati, a conferma ulteriore - se mai ce ne fosse stato bisogno - che le regole in fotografia sono fatte per essere infrante e liberamente interpretate.

Padiglione dell'Esprit Nouveau
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Factory of original desires / Bernard Plossu. Palazzo Fava

Sempre a Palazzo Fava è ospitata anche la mostra di Bernard Plossu, fotografo francese vivente e attivo da più di 50 anni. A differenza della mostra di List, quella di Plossu, intitolata Factory of original desires, non è un lavoro specifico del fotografo, ma una "verticale" all'interno del suo archivio fotografico alla ricerca di quel fil rouge legato al tema della biennale, il cibo e quanto gli ruota intorno. In questo percorso, che dunque risulta meno coerente ma altrettanto interessante, ci sono fotografie scattate in luoghi molto diversi e lontani, e anche in momenti completamenti diversi, che possono andare dagli anni Settanta fino ai giorni nostri. Anche in questo caso ci sono fotografie molto interessanti o che suscitano curiosità, anche se la sezione che mi è parsa nel suo complesso più coerente e godibile, almeno per quanto mi riguarda, è quella dedicata ai diner americani.

Padiglione dell'Esprit Nouveau
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M + Trails / Takashi Homma. Padiglione dell'Esprit Nouveau

La mostra di Takashi Homma è la somma di due suoi progetti, M (dedicato ai McDonald fotografati in giro per il mondo) e Trails (che utilizza disegni, foto e video per parlare della caccia al cervo in Hokkaido attraverso le tracce di sangue lasciati dagli animali). Entrambi i progetti sono stati appositamente pensati per lo spazio espositivo del padiglione dell'Esprit Nouveau, un edificio pensato da Le Corbusier nel 1925, di cui quella bolognese è una replica fedele dell'originale realizzata nel 1977.

La progettazione dell'edificio nasceva all'interno della riflessione teorica di Le Corbusier finalizzata a trovare un equilibrio tra la densità abitativa delle grandi città e la qualità dell'unità abitativa. Si trattava di un modulo abitativo standardizzato a titolo appunto espositivo, all'interno del quale si possono ammirare anche due diorami che illustrano le proposte di Le Corbusier per lo sviluppo della città di Parigi.

Takeshi Homma, Videoinstallazione
Sappiamo che i progetti abitativi di Le Corbusier, pur ammirati ancora oggi, non hanno avuto un esito felice, ma le sue realizzazioni e le sue idee sono sempre affascinanti, e la mostra di Takashi Homma in un certo senso accentua l'effetto di straniamento, piacevole e inquietante al contempo, che l'edificio suggerisce.

Tra l'altro si tratta di strutture estremamente fotogeniche: forse inabitabili ma certo bellissime da fotografare.

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Fototeca / Ando Gilardi. Fondazione MAST

L'ultima tappa del nostro percorso a Foto/Industria è la grande mostra ospitata dal MAST e dedicata ad Ando Gilardi, un intellettuale di grande eclettismo (per me sconosciuto) che ha realizzato la Fototeca Storica Nazionale, un archivio di oltre 500.000 immagini, una specie di tesoro cui attingere per documentare attraverso le immagini aspetti i più vari della storia e della società.

Fondazione MAST
La mostra si articola in due parti: nella prima parte la Fototeca diventa la fonte di oggetti e immagini di oggetti che hanno a che fare con il cibo e che digitalizzati diventano a loro volta immagini (in un processo infinito di riproduzione e circolazione): le cartine delle arance, le etichette delle bottiglie, i tappi a corona, figurine varie, ecc.; la seconda parte è invece un percorso attraverso le foto di Gilardi, organizzate in tre insiemi che ruotano intorno a tre momenti fondamentali che hanno a che fare con il cibo: produzione, distribuzione, consumo. Le foto sono tratte da importanti lavori di reportage di Gilardi, spesso realizzati per documentare ambienti di lavoro e lotte dei lavoratori.

Una mostra affascinante e coinvolgente come spesso sono quelle del MAST. Peccato per le didascalie delle foto, davvero troppo piccole anche per persone con la vista perfetta (ho visto signore accostarsi al muro e stare piegate a metà per leggere, e starci un bel po' visto che le didascalie sono anche piuttosto lunghe).

Voto: 4/5

lunedì 6 dicembre 2021

The French Dispatch

È tornato Wes Anderson. Ed è sempre più lui, potremmo dire Wes Anderson al quadrato, se non al cubo.

In questo suo ultimo film il regista statunitense omaggia - in maniera neppure tanto nascosta - una grande rivista americana, The New Yorker, ma lo fa trasferendo la vicenda in Europa, più precisamente in Francia, nel paese immaginario di Ennui-sur-Blasé, creando in questo modo una corrispondenza d'amorosi sensi tra il vecchio e il nuovo mondo, che evidentemente occupano entrambi uno spazio importante nel suo cuore.

Nel film di Anderson il New Yorker diventa The French Dispatch, una rivista nata dall'iniziativa del suo geniale direttore Arthur Howitzer Jr. (l'attore feticcio di Anderson, Bill Murray) e destinata a terminare le sue pubblicazioni con la morte di quest'ultimo, come da testamento.

Ed è proprio dalla morte di Howitzer che prende le mosse la narrazione multipla di Anderson. La redazione della rivista, prima e dopo la morte del direttore, fa da cornice a quattro racconti visivi, che illustrano altrettanti articoli contenuti nell'ultimo numero pubblicato e realizzati - anche attraverso la loro partecipazione attiva - dagli stessi giornalisti della rivista. Il primo è una specie di racconto della città di Ennui, realizzato da un giornalista in bicicletta (interpretato da Owen Wilson), il secondo è la storia, raccontata dalla giornalista J.K.L. Berensen (Tilda Swinton), di un artista galeotto e psicotico (Benicio Del Toro) che è innamorato della sua secondina (Léa Seydoux), il terzo è la cronaca di una contestazione studentesca capeggiata da Timothée Chalamet realizzata dalla giornalista Lucinda Krementz (Frances McDormand) che se ne lascia coinvolgere sentimentalmente, il quarto infine racconta - ad opera di Roebuck Wright (Jeffrey Wright) - dello chef-poliziotto Nescoffier che lavora in un commissariato dove è in corso un'indagine condotta dal commissario (Mathieu Amalric) per ritrovare il figlio rapito.

La narrazione di Anderson è una girandola di situazioni, parole, stili, personaggi, e attori (c'è una carrellata di nomi famosi a volte chiamati solo per un cameo) rispetto alla quale è molto difficile mantenersi sintonizzati. Il ritmo di Anderson è troppo veloce, ci si sente in balia di una montagna russa che non guidiamo noi e che non possiamo né rallentare né tanto meno frenare.

I dialoghi - in parte in inglese, in parte in francese - si rincorrono senza soluzione di continuità; i quadri disegnati sullo schermo dal regista non durano un tempo nemmeno lontanamente sufficiente ad apprezzarne i dettagli e la qualità pittorica, il bianco e nero e il colore si inseguono e si mescolano senza dare allo spettatore la possibilità di capire esattamente con che criterio, il girato con attori in carne e ossa si alterna a un certo punto con la narrazione animata, lo schermo si divide in parti per accogliere più immagini in modalità parallela. Tutto questo perché Anderson fa fatica a stare dentro qualunque tipo di confine, è strabordante e ipertrofico, fino al punto di diventare autoreferenziale anche nel suo ipercitazionismo.

La sua maniacale attenzione per il dettaglio, la sua incontenibile genialità e il suo universo immaginifico che si autoriproduce mi pare che, film dopo film, finiscano per essere messi al servizio del proprio divertissement più che di quello dello spettatore, a meno che quest'ultimo non abbia il desiderio e la volontà di rivedere il film più e più volte, magari anche usando le funzioni di rallentamento delle immagini.

In conclusione, a differenza di alcuni dei suoi film più datati - tra i quali il mio preferito resta Moonrise Kingdom - mi pare che nel tempo Anderson vada sempre di più nella direzione del rifiuto di qualunque finalità esterna alla pellicola, in un dialogo via via più serrato con il proprio mondo interiore (costruito sull'insieme delle esperienze visive che fanno parte del suo bagaglio individuale) e in un disinteresse sempre più accentuato verso la realtà circostante.

Voto: 3/5


venerdì 3 dicembre 2021

La persona peggiore del mondo

Il film di Joachim Trier, un regista danese naturalizzato norvegese (che è al terzo film ambientato a Oslo), è una delle cose migliori che vi possa capitare di vedere al cinema negli ultimi tempi. E non solo per la bravura della protagonista (Renate Reinsve, non a caso vincitrice a Cannes per la miglior interpretazione femminile), bensì anche e soprattutto per la sincerità e la varietà densa di contenuti.

La persona peggiore del mondo parla della vita di Julie e lo fa in 12 capitoli più un prologo e un epilogo, con il supporto di una voce femminile narrante che nel prologo riassume le puntate precedenti e poi ricompare nei momenti topici, senza però risultare eccessivamente invadente.

Julie è una quasi trentenne e vive una condizione che possiamo considerare tipica di questa generazione: ha tutta la vita e tutte le possibilità davanti a sé, partecipa di una libertà di scelta e di un’ampiezza di vedute individuale e sociale che sulla carta potrebbero garantirle un percorso verso una vita soddisfacente. E invece Julie sembra non sapere cosa vuole. O forse, sarebbe meglio dire che non si accontenta mai, o meglio ancora che si scontenta facilmente. Fondamentalmente vive con irrequietezza la necessità di scegliere in via più o meno definitiva qualcosa, che porta con sé l'inevitabile corollario di dover rinunciare a qualcos'altro.

Bombardata da mille stimoli e informazioni, consapevole in maniera anche eccessiva di tutto quello che le accade intorno, Julie oscilla tra confusione e decisionismo, tra cinismo e leggerezza, tra indipendenza e narcisismo. Il condizionamento sociale che un tempo segnava la vita degli individui, in modo particolare delle donne, lascia il posto a un non meno faticoso riconoscimento della propria identità, indipendentemente dallo sguardo altrui, e a un frequente autosabotaggio di fronte alla complessità e alla banalità del reale.

Nel mondo della letteratura, questo sguardo generazionale nei confronti della vita è ampiamente rappresentato da un sempre più folto gruppo di scrittori: penso per esempio a Sally Rooney o a Naoise Dolan. Come sa chi legge questo mio blog, è un tipo di approccio che a me quarantottenne un po’ irrita e un po’ suscita compassione.

In questo caso, invece, il film mi conquista favorendo un senso di empatia che funziona sia nei momenti di leggerezza che in quelli drammatici. Questo perché Julie è sì una donna del suo tempo (quello del post-femminismo e del #metoo), ma prima ancora è una persona nel suo farsi e in quel processo di crescita personale e sentimentale che tutt* abbiamo attraversato o attraversiamo più o meno faticosamente, indipendentemente dalla generazione a cui apparteniamo.

Non a caso il film di Trier oscilla tra ispirazioni molto lontane cronologicamente, da Woody Allen alla Greta Gerwig di Frances Ha. In più Trier ha il merito – pur mettendo al centro della narrazione Julie – di non trascurare i comprimari, che si svelano sullo schermo altrettanto vividi e umanamente intensi (penso ad Aksel, il personaggio in cui forse mi sono riconosciuta di più, e anche a Eivind).

A parte il titolo secondo me poco appropriato (ma per il quale non possiamo nemmeno dare la colpa alla distribuzione italiana visto che è la traduzione esatta di quello originale), che - combinato alla locandina - fa pensare a una commedia leggera e divertita, e a parte qualche scelta musicale un po’ troppo banale, il film di Trier non sbaglia quasi un colpo, riuscendo anche nella difficilissima impresa di dribblare tutti i tentativi di incasellamento in un genere: non è propriamente una commedia, né un film drammatico, bensì mescola insieme ironia, leggerezza, commozione, sentimenti, dramma, questioni sociali, realismo e surrealismo onirico o fantastico, riuscendo a risultare sempre credibile.

Un’occasione preziosa per innamorarsi del cinema ancora una volta.

Voto: 4/5


mercoledì 1 dicembre 2021

Chi ha ucciso mio padre. Teatro India, 6 novembre 2021

In scena al Teatro India l'adattamento italiano del pamphlet autobiografico dell'autore francese Édouard Louis, realizzato da Daria Deflorian e Antonio Tagliarini e interpretato da Francesco Alberici.

Siamo in un garage o uno scantinato: in un angolo c'è un cumulo di sacchi neri della spazzatura. Un ragazzo li calcia rabbiosamente. Così comincia questo dialogo (che in realtà è un monologo) tra un figlio e un padre, in cui viene ripercorsa tutta la storia o quanto meno la memoria soggettiva di una relazione, fatta di molti momenti di conflitto esplicito o sotterraneo, ma anche di tenerezza e di affetto.

All'interno di una famiglia di ceto sociale basso e governata dai principi del patriarcato e da un'idea molto conservatrice della mascolinità, questo figlio un po' femmineo e certamente lontano dallo stereotipo maschile suscita imbarazzo se non vera e proprio vergogna. I condizionamenti sociali e le dinamiche familiari disfunzionali alimentano nel tempo l'incomprensione tra padre e figlio e l'impossibilità di una vera comunicazione, trascinando con sé anche gli altri rapporti familiari.

I sacchi neri aperti e tagliati in modi più o meno violenti porteranno alla luce tutte le tracce di questo passato, gli oggetti di una memoria a volte commovente, a volte dolorosa.

Ora che il figlio, andato da tempo a vivere a Parigi - dove non solo ha potuto esprimere sé stesso ma ha anche avuto successo come scrittore -, rincontra suo padre ormai anziano e quasi impossibilitato a camminare, i sentimenti che gli si animano dentro sono molteplici e contraddittori. Se da un lato la compassione verso di lui è macchiata dall'ombra dei ricordi e non riesce dunque a esplicarsi in pieno, dall'altro la constatazione dello stato di minorità del padre diventa motivo di invettiva violenta nei confronti dei governi francesi che si sono succeduti nel tempo, con tanto di nomi e cognomi, considerati - con le loro leggi ingiuste che hanno colpito soprattutto le persone socialmente più in difficoltà - la causa di questa sua condizione.

Francesco Alberici è molto bravo: intenso e commovente, credibile sia nella rabbia che nella tenerezza, capace di tenere da solo il palco e di comunicare non solo con le parole ma anche con i gesti e le azioni.

Il testo, sicuramente molto forte, sebbene non del tutto originale per i temi trattati, dal mio punto di vista ha un unico, grosso neo, ossia la convivenza tra il tema intimistico e sentimentale della relazione padre/figlio e quello dell'invettiva socio-politica. Comprendo come le due cose si parlino, ma io personalmente ho sentito un salto molto forte, al punto da pensare di stare assistendo a un altro spettacolo. È vero che i francesi sono molto attenti alle ricadute sociali anche delle questioni private e viceversa e da questo punto di vista non è sorprendente che un dramma privato venga ricondotto a un problema politico e sociale almeno di portata nazionale (e questa è anche una cosa molto positiva e interessante), però - per quello che ho visto - mi è sembrato che le due cose restassero un po' più separate del dovuto.

Voto: 3,5/5

lunedì 29 novembre 2021

Madres paralelas

Dopo Dolor y gloria, film che avevo amato moltissimo e che mi aveva profondamente riconciliato con Almodovar, ero un po' preoccupata nell'andare a vedere il suo ultimo film, Madres paralelas. Avevo letto di un ritorno di Almodovar a certi stilemi del suo cinema del passato, e dunque temevo un nuovo disamoramento, ma tutto sommato l'esito della visione è stato meno tragico del previsto.

Al centro della narrazione due donne, una più matura, Janis (Penélope Cruz), e una più giovane, Ana (Milena Smit). Le due si incontrano in un ospedale di Madrid dove entrambe sono in procinto di partorire, senza avere accanto alcun uomo. La prima, che fa la fotografa, è incinta di Arturo, un amico antropologo a cui si è rivolta per affidargli il compito di aprire uno scavo presso la fossa comune dove, secondo le voci del paese, sono stati buttati i corpi dei dissidenti durante la guerra civile spagnola; la seconda è stata oggetto di uno stupro di gruppo che insieme alla madre ha deciso di denunciare.

Dopo la nascita delle due bambine, le strade di queste due donne si separano, ma in realtà saranno destinate fatalmente a incontrarsi nuovamente, in maniere imprevedibili e anche sconcertanti rispetto al percorso di vita di ciascuna di loro. Parallelamente, l'iniziativa di Janis e delle persone del suo paese di restituire identità e una degna sepoltura ai corpi gettati nella fossa comune va avanti proprio grazie ad Arturo, e sarà proprio di fronte agli scheletri di questi uomini che si ricomporranno i vari fili della trama almodovariana e i destini individuali dei suoi protagonisti.

Che dire? Penélope Cruz è bravissima e il suo carisma è uno degli elementi di maggior forza del film.

Sul piano estetico e stilistico i film di Almodovar sono sempre impeccabili, una gioia per gli occhi e un tripudio di bellezza.

Per quanto riguarda la narrazione, ritrovo in questo film alcune rigidità negli sviluppi narrativi e nell'evoluzione dei personaggi e delle relazioni, che finiscono per risultati spiazzanti e innaturali, così come faccio un po' fatica a comporre in maniera sensata il piano della storia individuale di Janis e Ana (e delle loro maternità) con quello della storia nazionale (ossia la necessità di ricucire le ferite della guerra restituendo alle persone i tanti morti dimenticati).

C'è sicuramente una questione di rapporto tra le generazioni, e dunque il tema della memoria (Janis deve spiegare alla più giovane Ana il perché di questa necessità di riportare alla luce questi corpi), così come c'è - onnipresente nel cinema di Almodovar - il tema della maternità, desiderata, scomoda, respinta, faticosa, scoperta e riscoperta, che si applica alle donne ma probabilmente anche a una nazione che ancora deve completamente fare pace con i propri figli.

Voto: 3/5

venerdì 26 novembre 2021

Museo Pasolini / Ascanio Celestini. Auditorium Parco della Musica, 2 novembre 2021

La Sala Sinopoli dell'Auditorium Parco della Musica è gremita di pubblico per la due giorni (1 e 2 novembre) di anteprima nazionale del nuovo spettacolo di Ascanio Celestini, Museo Pasolini, nell'ambito del RomaEuropa Festival.

Dopo questa anteprima Celestini porterà il suo testo in giro per l'Italia, e tornerà a Roma in primavera al teatro Vittoria.

Museo Pasolini si presenta come una specie di visita guidata in un immaginario museo dedicato al poeta, visita durante la quale la guida, che è ovviamente lo stesso Celestini, non solo si sofferma sui momenti più significativi della vita di Pasolini, ma utilizza la vicenda dell'intellettuale come una traccia per raccontare una storia più ampia, quella dei molteplici se non innumerevoli modi in cui l'anticomunismo si è incarnato e manifestato nella storia italiana.

Tutto questo raccontato alla maniera di Celestini, in una cavalcata narrativa senza interruzione durante la quale lo spettatore è sommerso da un profluvio di parole, di immagini, di aneddoti che si intrecciano inestricabilmente, e che non sempre si comprendono immediatamente, ma che a poco a poco trovano una composizione e un ordine.

Dietro il teatro di parola di Celestini c'è con ogni evidenza uno straordinario e immane lavoro di ricerca, perché quello che l'attore ci racconta è frutto dello studio di un'ampia documentazione, nonché della raccolta di testimonianze di varia provenienza. Tutto questo materiale viene però trasformato da Celestini in storytelling della miglior specie, racconto mirabolante il cui obiettivo non è però quello di colpire lo spettatore per manipolarlo, bensì quello di agganciarlo a sé e tenere desta l'attenzione su contenuti importanti e che diversamente potrebbero risultare indigesti per una parte considerevole del pubblico.

Dentro i racconti di Celestini ci sono i fatti della Storia con la S maiuscola raccontati dal punto di vista dei suoi protagonisti o dei suoi comprimari, ma anche dal punto di vista della gente comune e degli emarginati; in generale c'è tutta un'umanità varia e disordinata che, attraverso la sua voce, si rincorre e si sovrappone, cercando il proprio posto nel mondo.

A volte da spettatori ci si perde nelle maglie della narrazione, ma Celestini riesce sempre a riacchiapparti per portarti dove vuole lui.

Alla fine sappiamo molte cose in più, ma ci siamo anche emozionati. E chissà, forse è questo il modo, per arrivare davvero al cuore delle cose.

Voto: 3,5/5

mercoledì 24 novembre 2021

Essere umane. Le grandi fotografe raccontano il mondo. Forlì, Musei San Domenico, 10 ottobre 2021

In occasione della nostra gita in Romagna, su suggerimento di un'amica, andiamo a visitare la mostra in corso ai Musei San Domenico a Forlì, Essere umane, dedicata alle fotografe.

Si tratta di una mostra ricchissima, che consente allo spettatore di fare una galoppata nei secoli adottando il punto di vista delle fotografe donna sul mondo, sulla società, sul privato.

Il percorso, concepito dal curatore Walter Guadagnini, è organizzato secondo un ordine cronologico, a sua volta suddiviso in tre sezioni. La prima è dedicata agli anni '30-'50 e si apre con l'iconica foto della madre migrante realizzata da Dorothea Lange durante la crisi americana degli anni '30. In questa sezione troviamo anche le foto di alcuni progetti fotografici di Lee Miller, Ruth Orkin, Tina Modotti, Berenice Abbott, Margaret Bourke-White, Eve Arnold, Gerda Taro. Alcune fotografie e alcune fotografe sono famosissime, altre sono per me meno note o - sicuramente per mia mancanza - quasi sconosciute, ma tutte aprono una finestra su un'epoca e su un mondo.

La seconda sezione è dedicata al periodo che va dagli anni '60 agli anni '80 e vede protagoniste fotografe come Inge Morath, Diane Arbus, Lisetta Carmi, Letizia Battaglia (per citare i nomi più noti), ma anche Susan Meiselas, Dayanita Singh, Paola Mattioli. Un'area specifica è occupata da una serie di ritratti di personaggi celebri realizzati dalla grande Annie Leibovitz.

La terza sezione apre lo sguardo sul presente e forse anche in parte sul futuro grazie alle fotografie di alcune autrici giovanissime, come ad esempio Silvia Camporesi. In questa parte della mostra i nomi delle fotografe sono sicuramente meno conosciuti, Zanele Muholi, Newsha Tavakolian, Jitka Hanzlova, Shadi Ghadirian, Shobha, Cristina De Middel, e anche la forma della fotografia tende a diventare meno prevedibile e standardizzata e si declina in forma di collage e in alcuni casi di vere e proprie installazioni. 

Il risultato è un percorso di scoperta dello sguardo femminile, che mostra le sue mille sfaccettature e la sua straordinaria varietà, ma anche un tratto trasversale che fa da fil rouge all'intera mostra, ossia l'empatia e la vicinanza all'umanità fotografata che è tipica del punto di vista delle donne, soprattutto nel momento in cui la scelta è quella di approcciare situazioni e contesti delicati.

Personalmente mi ha anche molto intrigato il lato curatoriale della mostra, lì dove ci si trova di fronte alla necessità di raccontare lo sguardo di queste fotografe attraverso poche fotografie (a volte addirittura solo due), dovendo dunque scegliere uno o  al massimo due progetti, ma all'interno di quei progetti che ovviamente hanno una loro articolazione e complessità interna, solo poche foto capaci comunque di evocare e narrare.

Alcune selezioni mi hanno particolarmente colpito, soprattutto perché si trattava di fotografe per me poco conosciute: tra queste Berenice Abbott, Eve Arnold, Susan Meiselas, Paola Mattioli, Graciela Iturbide, Dayanita Singh, Claudia Andujar, Shobha. La mostra dunque è stata anche l'occasione per partire alla scoperta di sguardi per me nuovi e intriganti.

Da vedere.

Voto: 4/5

lunedì 22 novembre 2021

Petite maman

Nel weekend del G20 a Roma, con mezza città bloccata e uno spettacolo teatrale annullato praticamente senza preavviso, io, S. e F. arrivate in centro dopo un po' di traversie decidiamo che questo pomeriggio va comunque messo a frutto. Così, dopo una rapida scorsa alla programmazione cinematografica, decidiamo di andare a vedere un film che avevo adocchiato già alla festa del cinema (dove ha vinto la rassegna Alice nella città) e che nel frattempo è uscito in sala.

Si tratta di Petite maman, il ritorno in sala di Céline Sciamma dopo il successo de Il ritratto della giovane in fiamme. Si tratta di un film piccolo da tanti punti di vista: dura poco più di 70 minuti, è un film girato quasi interamente in una casa e nel bosco circostante, è realizzato con pochi mezzi e pochissimi attori. Eppure, molti - forse anche a dispetto della sua 'piccolezza' - ne hanno riconosciuto le grandi qualità.

Preliminarmente credo sia utile suggerire di vederlo in lingua originale: se già in generale vedere film doppiati a me risulta sempre più innaturale, nel caso di film recitati primariamente da bambini il doppiaggio risulta ancora meno accettabile. Io purtroppo l'ho visto in italiano, e credo che il doppiaggio abbia contribuito inevitabilmente a creare un po' di distanza rispetto al film, rendendo la conversazione molto più legnosa di quanto non sarebbe stata in lingua originale.

La storia è quella di Nelly (Joséphine Sanz), una bimba di nove anni che dopo la morte della nonna va, insieme ai genitori, nella casa nel bosco dove sua madre era cresciuta e dove era vissuta la nonna prima di andare nella casa di riposo. La permanenza in questa casa è finalizzata a svuotarla al fine probabilmente di venderla.

Durante questi giorni Nelly prende contatto con il mondo infantile di sua madre e, dopo che quest'ultima parte all'improvviso, la bambina incontra nel bosco un'altra bimba, Marion (Gabrielle Sanz), che presto scopre essere proprio sua madre da piccola.

In questo cortocircuito temporale - che però viene presentato come quasi del tutto naturale anche perché inserito nel mondo pieno di fantasie tipico dei bambini - le due bambine (quasi indistinguibili) condividono giochi, pensieri, attività, paure, spensieratezza e preoccupazioni, fino a quando ognuna ritorna "al proprio mondo" con una ricchezza in più.

La Sciamma non punta a rivelare grandi verità o particolari significati nascosti: si "limita" invece a mettersi ad altezza di bambino (cosa che le riesce benissimo) e a provare a guardare il mondo degli adulti dal loro peculiare punto di vista. Ne viene fuori un'atmosfera un po' misteriosa e un po' buffa che è quella nella quale i bambini sembrano immersi per il fatto di non avere tutti gli elementi di comprensione della realtà circostante, ma anche quel modo incredibilmente creativo con cui essi interpretano la complessità e si danno delle spiegazioni. Incontrare la propria madre bambina e riconoscere in essa una vicinanza inattesa diventa un modo non previsto, ma necessario - soprattutto in un momento di passaggio com'è quello della morte della nonna - per comprenderla ed esserle più vicina quando la distanza di età verrà ripristinata.

Voto: 3,5/5



mercoledì 17 novembre 2021

Il gioco del panino = Playing sandwiches / con Arturo Cirillo. Teatro Belli, 30 ottobre 2021

Scopro quasi per caso, grazie a un post su Facebook (unico motivo per cui vale ancora la pena stare sui social), che al Teatro Belli (dove non sono mai stata) è in corso una rassegna teatrale, Trend, dedicata al teatro britannico contemporaneo, e nell'ambito di questa rassegna è prevista la rappresentazione di Playing sandwiches (tradotto in italiano con Il gioco del panino), un monologo della serie Talking heads di Alan Bennett e qui recitato e diretto da Arturo Cirillo.

Si sa che sono una fan di Cirillo, e dunque non mi lascio sfuggire l'occasione di vederlo ancora una volta a teatro.

La storia è quella di Wilfred Paterson, un uomo che lavora come pulitore e manutentore in un parco della città. All'apparenza un uomo comune che si divide tra la vita familiare (ha una moglie, ma non figli, e parenti di vario genere) e la vita lavorativa (ha un supervisore da cui viene spesso ripreso, un capo che gli solleva problemi burocratici, dei colleghi con cui va più o meno d'accordo).

Nella prima scena lo vediamo vestito in abiti da lavoro, poi il monologo viene scandito dai cambi di abito, accompagnati dalla musica e dai cori musicali di Benjamin Britten. Wilfred ci racconta aneddoti ed episodi della sua vita, a prima vista ordinari, talvolta divertenti, altre volte più drammatici. Sebbene la parola infamante non venga mai pronunciata, a poco a poco la scomoda verità dell'esistenza dell'uomo trapela: Wilfred è irrimediabilmente attratto dai bambini, e proprio per questo motivo è già stato in carcere.

Pur essendo tornato a una vita normale ed essendo impegnato a tenersi lontano dalle situazioni a rischio, la possibilità di cadere in tentazione è sempre dietro l'angolo e fatalmente Wilfred ne è ancora vittima.

Il monologo di Bennett prende il titolo dal considdetto "gioco del panino" (in inglese "playing sandwiches") che è quello che si fa in due o più persone, poggiando le mani le une sulle altre, sfilandole alternativamente e riportandole sopra, gioco che Wilfred fa con la bambina che innescherà la sua nuova caduta.

Nel testo di Bennett - come è stato fatto notare - non c'è né giudizio né assoluzione, bensì il racconto fortemente umanistico della vita di una persona. L'interpretazione di Arturo Cirillo è perfettamente in linea con questa interpretazione: Cirillo ci propone un Wilfred un po' dimesso, e al contempo in lotta con sé stesso e con il mondo, un uomo dalle mille sfumature che però sembra non avere scampo rispetto alla propria natura e al proprio destino.

Voto: 3,5/5

lunedì 15 novembre 2021

Festa del cinema di Roma, 14-24 ottobre 2021 - Terza parte

(Per la prima e la seconda parte delle recensioni si veda qui e qui)

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Red Rocket

Vado a vedere il film di Sean Baker senza sapere che lui è un regista di culto (ma anche sceneggiatore, montatore e direttore della fotografia): lo capisco dall'applauso affettuoso del pubblico quando arriva in sala. Io non ho visto i suoi film precedenti, e dunque non so davvero cosa aspettarmi, così mi lascio andare alle immagini che scorrono sullo schermo.

Red Rocket è la storia di Mickey (Simon Rex), un ex attore pornografico che, rimasto senza lavoro, senza casa e senza soldi, decide di tornare a vivere da sua moglie, con cui ha un passato piuttosto burrascoso. Quest'ultima vive in una casetta di legno alla periferia di Texas City, in un'area quasi a ridosso delle grandi strutture industriali per la raffinazione del petrolio con tanto di ciminiere che sbuffano veleni.

Mickey è quello che io definerei un ca**one: un uomo che si avvia alla mezza età, ma si comporta ancora come un adolescente in piena crisi ormonale, che non ha alcun rispetto per i sentimenti degli altri, che pensa solo ai propri interessi e al proprio tornaconto personale. Insomma, decisamente insopportabile. Eppure l'interpretazione di Simon Rex e le modalità di costruzione della storia fanno sì che lo spettatore riesca persino ad affezionarsi a questo ragazzone parecchio infantile, fors'anche perché un po' tutto il mondo che lo circonda è a suo modo anomalo ed estremo, criticabile e commovente al contempo. Penso alla moglie, al vicino di casa, alla giovanissima commessa con cui Mickey finisce a letto.

Il film di Baker - dentro una confezione che certamente richiama certo cinema di genere degli anni Settanta, soprattutto italiano, e sullo sfondo di una realtà sociale di profondissima e drammatica emarginazione - riesce a mettere in scena gag estremamente divertenti e a trascinare lo spettatore nella rocambolesca vita di Mickey, sempre in bilico tra dramma e commedia, alla stesso modo in cui il contesto, pur degradato, a tratti vira verso il kitsch o addirittura il fiabesco (ovviamente ironico).

Nel complesso un film molto originale, con una cifra stilistica molto particolare e in cui si trattano temi anche importanti con un approccio apparentemente ca**one come quello del protagonista.

Voto: 3,5/5



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La croisade = La crociata

In un Auditorium della Conciliazione gremito di gente arriva Louis Garrel in persona a parlarci del suo ultimo film, La croisade. Garrel, che ha avuto una relazione con Valeria Bruni Tedeschi e ora è sposato con Laetitia Casta, parla benissimo l'italiano, e dice di essere particolarmente interessato al modo in cui i suoi film vengono accolti in Italia. Nello specifico del film in programmazione, il regista (nonché attore) ci dice che la sceneggiatura era stata scritta diversi anni fa da Jean-Claude Carrière, ma a quel tempo lui l'aveva considerata poco credibile. Nel tempo però il tema dell'emergenza climatica è diventato sempre più attuale e Carrière - che nel frattempo è morto - ha dimostrato di avere ragione a voler raccontare questa storia. A questo punto Garrel ha deciso di girare questo film dedicandolo appunto al suo profetico co-sceneggiatore.

Si tratta di un film che dura poco più di un'ora e che parla di un gruppo di bambini e ragazzini che si sono organizzati per avviare un'azione a livello globale finalizzata a salvare il pianeta dalla sua fine annunciata. Uno di questi bambini è Joseph (Joseph Engel), il figlio di Abel (Louis Garrel) e Marianne (Laetitia Casta), il quale - come i suoi coetanei - ha venduto degli oggetti della casa e di proprietà dei suoi genitori per raccogliere i fondi per questa impresa.

Inizialmente i suoi genitori sono arrabbiati e increduli, ma a poco a poco capiscono che Joseph e i suoi amici fanno sul serio, e decidono dunque di supportarli e di fare la loro parte.

La croisade
è costruito come una favola ecologista, che mette al centro della riflessione i bambini e il loro complesso mondo interiore, che spesso gli adulti non comprendono o rispetto al quale sono in profondo ritardo.

Un film che conferma ancora una volta la sensibilità e l'attenzione particolari che la società francese sta dedicando negli ultimi anni al tema della sostenibilità ambientale del nostro modello di vita. Un modo sicuramente meno drammatico per parlarne, ma - chissà - magari ancora più efficace.

Voto: 3/5



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Futura 

Futura - che, come viene confermato durante la presentazione del film dagli stessi registi, è il neutro plurale latino e sta dunque per "le cose che verranno" - è un film collettivo realizzato da tre registi italiani già molto conosciuti, Pietro Marcello, Francesco Munzi e Alice Rohrwacher, coadiuvati sul piano scientifico da Stefano Laffi, economista e sociologo.

Si tratta sostanzialmente di un film documentario, la cui idea iniziale era nata nel 2019 e le cui riprese erano cominciate all'inizio del 2020, per poi dover fare i conti con la pandemia e i vari lockdown. Il progetto era quello di intervistare giovani italiani, presi non singolarmente ma all'interno di gruppi di appartenenza o per loro identitari, per conoscere il loro punto di vista in particolare sul futuro, sia quello individuale sia quello della società (in questo è abbastanza sorprendente il richiamo con un altro film del festival, ossia C 'mon C'mon).

I registi effettuano queste interviste in diverse parti dell'Italia, cercando di coprire Nord, Centro e Sud e diverse provenienze sociali, nonché diversi contesti sia urbani che rurali.

Ne viene fuori un quadro al contempo omogeneo e diversificato. Si notano le differenze nell'articolazione e nella complessità dei punti di vista secondo la provenienza dei ragazzi e il contesto nel quale si muovono, ma nello stesso tempo tutti sono accomunati da una disillusione forte e da una ridotta speranza rispetto al futuro.

Alcune cose sorprendono (oltre a essere un pochino deprimenti): il permanere di una visione di futuro molto diversificata tra uomini e donne (i primi in molti casi vogliono fare i calciatori, e le seconde vogliono mettere su famiglia), lo scarso riconoscimento dell'importanza dello studio e dell'istruzione, l'assenza di qualunque dimensione collettiva che vada al di là della propria famiglia e del proprio gruppo di amici, la mancanza di memoria storica (i ragazzi che studiano alle scuole Diaz restano muti quando gli viene chiesto cosa sia successo a Genova nel 2001), cose che si accompagnano a paure più tipicamente adolescenziali e giovanili, come quella di essere giudicati o non essere accettati.

Dall'altro lato, i giovani - almeno a parole - sembrano aver completamente sdoganato temi legati alla moralità e ai diritti delle minoranze (che considerano cose da vecchi) e mostrano per certi versi una consapevolezza rispetto al contesto che forse la mia generazione non aveva (cosa che ha due facce della medaglia: il cadere di certe forme di ingenuità, e insieme un cinismo eccessivo per l'età).

La scelta del film di considerare sempre le interviste come qualcosa da svolgersi in gruppo può aver condizionato le risposte o le non risposte dei singoli, e indubbiamente il quadro che emerge dal film, come quello che emerge da tutte le ricerche sociali, è parziale e non rappresentativo in termini statistici, però ci dice molto degli umori e delle sensazioni di questa generazione.

Io devo dire che in questa fase della mia vita ci ho visto più elementi per deprimersi che elementi di speranza, sebbene la conoscenza diretta di alcuni giovani che conosco certamente meglio mi dice in parte il contrario. Ma non v'è dubbio che il cinismo che questa generazione ha sviluppato per eccesso di esposizione alla realtà dovrebbe far pensare e per quanto mi riguarda non mi mette affatto tranquilla.

Voto: 3/5