lunedì 26 ottobre 2020

Festa del cinema di Roma, 15-25 ottobre 2020 - Prima parte

Poco prima dell'uscita del nuovo DPCM che ha nuovamente stabilito la chiusura dei cinema e l'interruzione degli eventi, la Festa del cinema di Roma è riuscita a completare la sua 15° edizione che si è svolta in buona parte in presenza. Nonostante alcune defezioni e le difficoltà organizzative legate al rispetto dei protocolli ministeriali, la festa è stata a suo modo un successo, innanzitutto per la qualità dei film che sono stati presentati (molti dei quali erano stati selezionati per il Festival di Cannes che non si è tenuto) e in secondo luogo per l'alto valore simbolico di riportare in sala il mondo professionale che ruota intorno al cinema e i suoi spettatori. Tutti i registi, gli attori e i produttori che sono intervenuti hanno apprezzato il coraggio dell'organizzazione del festival e degli spettatori e hanno ringraziato Roma per questa opportunità ormai rara.

Personalmente sono stata contentissima di questa full immersion nel cinema: non ho mai visto tanti film come quest'anno, forse perché ero in astinenza e in qualche modo temevo - com'è accaduto - che a un certo punto sarebbe di nuovo diventato impossibile chiudersi in una sala cinematografica.

In questi dieci giorni ho potuto immergermi in tante storie, viaggiando nel tempo e nello spazio, cosicché il cinema mi ha offerto tutto quello che in questo momento storico la vita quotidiana ci ha sottratto: l'empatia per le vite degli altri, la vasta gamma dei sentimenti umani, la scoperta di nuovi luoghi, la conoscenza di personaggi lontani da noi nel tempo e nello spazio. E il cinema ha fatto per me ancora una volta il miracolo, ossia mi ha dato la possibilità di trascendere il qui e ora per lasciarmi trasportare in mille dimensioni e in mille narrazioni, dimenticandomi di tutte le preoccupazioni e facendo mie le vite degli altri. 

(Per la seconda e terza parte delle recensioni si veda qui e qui)

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Nadia, Butterfly

Nadia (Katerine Savard, vera vincitrice del bronzo nella staffetta di nuoto alle Olimpiadi di Rio) ha 20 anni ed è una nuotatrice professionista (butterfly, quello che da noi si chiama stile delfino). Con la squadra del suo paese, il Canada, è alle Olimpiadi di Tokyo per le sue ultime gare, quella individuale e i 100 misti.

Nadia ha infatti deciso di ritirarsi per dedicarsi allo studio e diventare medico.

Nella gara individuale arriva quarta, con sua grande delusione, mentre nella 100 misti la squadra canadese vince la medaglia di bronzo, anche grazie a una eccellente prestazione di Nadia.

Dopo l'ubriacatura da vittoria, le ore e i giorni successivi prima del rientro in Canada saranno per Nadia una fase di profonda riflessione e di grande confusione emotiva. Se da un lato la ragazza non vuole più continuare la vita da atleta professionista che la costringe a un impegno a tempo pieno e non le concede spazio per altro, dall'altro lato quello è il mondo che conosce e che frequenta da tutta la vita, lì ha le sue amicizie (in particolare la sua compagna di squadra), e nuotare e allenarsi è quello che sa fare meglio e che forse le potrebbe dare ancora delle soddisfazioni. Al contrario il futuro che l'aspetta è ignoto, pieno di interrogativi e di rischi, le è estraneo e lei ci arriva in ritardo e da outsider.

Per questo Nadia vive una tempesta emotiva perfetta che la metterà profondamente in discussione e le farà attraversare una crisi importante.

Il film di Pascal Plante racconta la fatica e il dietro le quinte di un'atleta professionista, ma soprattutto racconta di chi dopo aver sacrificato una parte importante della vita per un'attività ma avendo tanta altra vita davanti decide di cambiare radicalmente strada con tutte le paure e le incognite che questo comporta, e l'inevitabile richiamo che il noto con le sue certezze esercita.

Voto: 3,5/5

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Time


Il documentario di Garrett Bradley racconta la storia vera di Sybil Fox Richardson, una donna americana di colore, madre di sei figli, che da vent'anni lotta per il rilascio del marito, condannato a 60 anni di carcere dopo una rapina che hanno fatto insieme in un momento di disperazione.

Il film mescola il girato che la stessa Sybil ha realizzato nel corso degli anni per raccontare al marito la propria quotidianità e quella dei suoi figli con il girato realizzato appositamente per il film, tutto rigorosamente in bianco e nero. Ne viene fuori la maestria di questa giovane regista afroamericana (vincitrice con questo film del premio per la regia dei documentari al Sundance Film Festival) la cui telecamera - come dice il direttore del festival di Roma all'inizio del film - è intrisa di umanesimo e ha un tocco di grande sensibilità.

Time è il tempo che passa sul volto di Sybil Fox dove a poco a poco compaiono le rughe e su quelli dei suoi figli su cui spuntano barbe e baffi. Time è il tempo in cui viene messa alla prova la pazienza e la tenacia di Sybil nel difendere la causa del marito e più in generale nel chiedere un sistema carcerario più equo e maggiori diritti per i più deboli.

La storia di Sybil è di grande impatto visivo ed emotivo e la regista la supporta splendidamente. È in fondo una storia che al contempo critica nel profondo il sogno americano e lo rafforza, nella misura in cui questa donna riesce a diventare il simbolo di una lotta che va al di là di suo marito.

Per me l'effetto emotivo è parzialmente ridimensionato da quelle componenti tipicamente americane che sono l'onnipresenza della religione e l'approccio motivazionale e predicatorio che anche lì dove è usato con le migliori intenzioni risulta per me fortemente respingente. Ma è chiaro che questo è un mio problema.

Voto: 3,5/5


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Small axe

Small axe è la miniserie per la tv realizzata da Steve McQueen e composta di 5 film di cui alla Festa del cinema di Roma ne vengono proposti tre. Il fil rouge che attraversa questi film è il fatto di essere ambientati nella comunità caraibica di Londra tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta e di trattare da punti di vista diversi il tema del razzismo, utilizzando storie vere o di fiction, che McQueen ha scritto insieme al drammaturgo di origine giamaicana Courttia Newland.

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Mangrove

Mangrove è la storia vera dei Mangrove Nine, un gruppo di 9 persone della comunità caraibica di Londra che negli anni Settanta furono sottoposti a processo con l'accusa di sommossa e violenza durante una manifestazione.

Il Mangrove era il ristorante di Frank Crichlow, diventato presto punto di riferimento e di incontro della comunità caraibica di Londra a Notting Hill e proprio per questo preso di mira dalla polizia inglese.

Il locale fu più volte perquisito senza motivo, così come il suo proprietario e i suoi frequentatori, alcuni dei quali erano degli attivisti delle Black Panthers.

Il processo divenne un vero e proprio evento simbolico nella faticosa strada della comunità nera verso la stigmatizzazione dell'odio razziale di cui la polizia era intrisa.

Il film di Steve McQueen, oltre a raccontare con attenzione una vicenda storica forse ignota a molti, lo fa con un ritmo sostenuto e con un'attenzione accurata ai sentimenti, alle storie personali e ai punti di vista dei protagonisti, non necessariamente tutti convergenti, oltre che con un amore sincero nei confronti della cultura caraibica, dei suoi balli, della musica, del suo cibo.

Molto bello.

Voto: 4/5

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Lovers rock

Il secondo dei film di McQueen della serie Small axe (nome che deriva da un detto giamaicano ripreso da una canzone di Bob Marley che fa riferimento alla piccola ascia contro il grande albero) è ambientato negli anni Ottanta e si svolge tutto in una notte. Il film è incentrato sulla festa di compleanno di una giovane di origine caraibica, a partire dai preparativi fino alla mattina seguente.

La parte maggiore del film è dedicata alla festa, alla musica giamaicana, ai balli, ai canti, alle storie delle persone che vi partecipano, in particolare una giovane ragazza che forse incontra il ragazzo dei suoi sogni.

Un film decisamente più leggero del precedente, in cui il tema del razzismo è più sotterraneo perché le vicende raccontate sono tutte interne all'ambiente nero. Un film dedicato esplicitamente all'amore e alla musica, una specie di omaggio a una cultura e a un periodo storico.

Nonostante qualche lungaggine secondo me di troppo e qualche insistenza eccessiva soprattutto nelle lunghe sequenze dei balli, il film è gradevole e apre una finestra su un mondo che alla fine probabilmente nella sostanza non è molto diverso dagli altri, se non per le connotazioni più strettamente culturali.

Voto: 3/5

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Red, white and blue

Il terzo film della serie racconta la storia la storia di Leroy (John Boyega), figlio di un padre giamaicano che ha voluto a tutti i costi che lui studiasse e lo ha educato alla massima rettitudine morale per dargli la possibilità di non sentirsi diverso o inferiore rispetto agli inglesi. Il risultato è che Leroy dopo essersi brillantemente laureato decide di entrare nella scuola di polizia, con l'idea di poter cambiare il mondo dall'interno e mettersi al servizio della sua comunità. Dovrà però fare i conti con il razzismo presente nel corpo di polizia e il suo radicale idealismo vacillerà di fronte a una realtà più complessa in cui si troverà a essere osteggiato sia dai suoi colleghi in quanto nero sia dalla sua comunità in quanto poliziotto.

In una storia di per sé già molto interessante e attraversata - come gli altri film della serie - da una strepitosa colonna sonora, McQueen ci aggiunge il suo tocco da maestro con inquadrature sghembe e originali, dettagli e sguardi d'insieme che accendono ancora di più l'attenzione dello spettatore. 

Da vedere.

Voto: 3,5/5



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Las mejores familias

La mia intensa seconda giornata del festival si conclude con questa frizzante commedia peruviana di Javier Fuentes-Leon, presente in sala insieme al produttore del film, che affronta il tema classico della famiglia come luogo di ipocrisia e conflitto nel quale si celano molteplici segreti.

Ne Las mejores familias il regista però ci offre anche la possibilità di riflettere sulle profonde differenze di condizione economica e sociale che caratterizzano il Perù.

Tutto infatti comincia in una specie di baraccopoli dove vivono Peta e Luzmila, due sorelle, le quali dopo un lungo viaggio con vari mezzi raggiungono le case (con proprietà confinanti) delle famiglie dove lavorano, in una zona residenziale di Lima. La narrazione si svolge in una giornata e - come spesso accade in questo tipo di storie - le verità taciute vengono a galla intorno a un tavolo durante un pranzo o una cena. È il compleanno della signora Carmen che ha invitato a pranzo tutta la sua famiglia, figli e consorti, nonché la sua vicina di casa anch'essa con la famiglia al completo.

L'arrivo del figlio di Carmen, fin lì considerato gay, con la sua nuova fidanzata spagnola scombinerà gli equilibri portando a galla un segreto a lungo taciuto e rivelando la verità dietro l'opulenza di queste due famiglie.

Il film di Fuentes-Leon sceglie il linguaggio dell'ironia per raccontare le disfunzionalità familiari che altri hanno raccontato con toni drammatici, e ci offre sequenze davvero esilaranti senza per questo togliere forza alla rilevanza dei temi trattati. Il terremoto familiare che attraversa questi due nuclei è solo la rappresentazione in piccolo del terremoto che attraversa una società apparentemente sempre più moderna e all'avanguardia ma nella quale le disuguaglianze e il malcontento crescono a causa di una polarizzazione economica e sociale sempre più inaccettabile.

Divertente, ben girato e ben recitato.

Voto: 3,5/5

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