sabato 30 maggio 2020

Favolacce

In attesa che i cinema riaprano e che io possa nuovamente immergermi nel buio di una sala cinematografica per vivere un’esperienza al contempo solitaria e collettiva di visione di un film sul grande schermo (quanto mi è mancata questa cosa?), mi sono iscritta al portale Mio Cinema, che consente di vedere film on demand, collegandosi a una sala fisica a scelta (all’interno di alcuni circuiti) della propria città.

Ho potuto così vedere il film dei fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, già apprezzati per il loro primo lungometraggio, La terra dell’abbastanza.

Con Favolacce, che ha vinto tra l’altro il premio per la miglior sceneggiatura alla Berlinale, i due registi fanno un ulteriore salto di qualità, spostandosi dal realismo del primo lavoro su un terreno decisamente più sfidante e se vogliamo anche più rischioso, quello della favola nera in bilico tra registro naturalistico e registro grottesco.

In questo film i D’Innocenzo manifestano la loro “appartenenza” alla scuola di Garrone, sebbene dimostrino di avere uno stile e una poetica del tutto personali, che ovviamente saranno messe alla prova del tempo.

Siamo nella periferia sud di Roma, a Spinaceto. Non si tratta della periferia “coatta”, fatta di palazzoni e poveracci male in arnese che frequentano ambienti contigui alla malavita.

Questa periferia è fatta di villette non particolarmente lussuose, ma pur sempre villette, abitate da una microborghesia che ha raggiunto una condizione socio-economica decente, ma molto instabile.

L’espediente “letterario” utilizzato è quello del manoscritto ritrovato: in questo caso si tratta del diario di una ragazzina, scritto con la penna verde, che racconta una storia affascinante che si interrompe a un certo punto senza dare spiegazioni. L’uomo che ha ritrovato il diario è anche il narratore di questa storia e a tratti sembra identificarsi con alcuni dei suoi protagonisti.

Nel sobborgo fatto di villette basse che è al centro di questo racconto, e che è descritto come se venisse sempre guardato attraverso il vetro di un acquario o l’oblò che dà sull’interno di una nave, vivono alcune famiglie i cui figli in età di scuola media, dunque alle soglie dell’adolescenza, vanno a scuola insieme.

Due di loro sono i figli, bravissimi a scuola (hanno quasi tutti 10!), di una coppia la cui madre mantiene la famiglia, mentre il padre (Elio Germano) ha perso il lavoro, con tutto il carico di frustrazioni che questo porta con sé. I loro vicini sembrano economicamente più tranquilli – il padre vanta addirittura successi lavorativi – ma hanno una figlia strana che a scuola ha bisogno del sostegno. In una casa prefabbricata in mezzo agli alberi (tale che sembra di stare nelle ambientazioni americane dei film di Minervini) vivono invece un padre e un figlio, il primo un ragazzone un po’ borderline che sbarca il lunario con un lavoro da cameriere, il secondo un ragazzino smunto e chiuso, bullizzato dai suoi compagni. Poi c’è la ragazzina di ottima famiglia, con i capelli sempre in ordine e vestita sempre bene, che “amoreggia” con il figlio di Elio Germano. Quest’ultimo però è attratto dalla figlia della responsabile della mensa scolastica, che è coattissima e ignorante (e incinta!), ma ha qualcosa in fondo di verace.

L’atmosfera nel suo complesso è fin dal principio inquietante, in una maniera a dire la verità indefinibile, ma decisamente palpabile. L’inquietudine è accentuata dal modo di usare la camera da parte dei registi, con le inquadrature sghembe dei protagonisti e i dettagli fisici in primo piano, che conferiscono un tratto fortemente grottesco e irrealistico all’insieme della narrazione.

Probabilmente questo sguardo amplificato e in parte distorto si giustifica in quanto trattasi dello sguardo dei ragazzini sul mondo degli adulti. Se gli adulti sono spaventosi per l’accumulo di frustrazioni che si portano dentro, per l’infelicità che spandono intorno, per la loro immaturità e per lo squallore delle loro vite riuscite solo in parte e dei loro comportamenti beceri o rassegnati (a seconda che si tratti di uomini o di donne), questi ragazzini sono spaventosi per l’eccesso di consapevolezza che hanno sul mondo intorno, e dunque per il cinismo prematuro e la rassegnazione dolorosa rispetto al futuro che li attende e che rifiutano.

Questo pessimismo esistenziale riferito all’età giovanile mi ha fatto tornare in mente il film francese L’ultima ora, dove pure i protagonisti erano giovani (un po’ più grandi) accomunati dal senso di fallimento della nostra società e della nostra epoca e decisi a mettere la parola fine a una vita percepita come senza prospettive.

È un punto di vista questo che mi tocca profondamente, perché è qualcosa che osservo nei ragazzi che conosco meglio, a partire dai miei nipoti, giovani che già da un'età in cui noi eravamo ancora ingenui e gravitanti nel mondo dell’infanzia sono già completamente immersi nella cappa di pesantezza dei problemi del mondo, fino all’assurdo di non essere in grado di coltivare la speranza e l’utopia che dovrebbe essere propria della loro età.

È certamente in parte colpa degli adulti – non solo dei genitori (nel film c’è ad esempio anche un’inquietante figura di insegnante) – che da un lato li “trascurano” come se questi ragazzi fossero già grandi e capaci di gestire la complessità che gli viene messa nelle mani e dall’altro li “proteggono” forse eccessivamente concentrando le aspettative solo su alcuni fronti. In parte è colpa di un fallimento sociale che ha creato un modello di vita e di felicità illusorio e fallace e che ha lasciato moltissimi alle prese con i propri sogni infranti e le proprie frustrazioni.

Ma non è solo questo. Le cause sono forse più profonde e le responsabilità più diffuse. Non so se c’è di che essere spaventati per il futuro, oppure è il normale ciclo della vita, cosicché - pur essendo vero che ogni generazione è diversa dall’altra - è vero anche che la storia è destinata comunque e sempre a ripetersi, in modi solo apparentemente diversi, ma in realtà sempre uguali.

Per fortuna il mio punto di vista radicalmente materialistico non mi fa mettere tutte le mie speranze sul futuro dell’umanità, bensì mi spinge a investire le energie su quel breve lasso di tempo che è la mia vita sulla terra e che è l’unica cosa che abbiamo realmente a disposizione.

Voto: 4/5

giovedì 28 maggio 2020

City & Gender / Julie Maroh

City & Gender / Julie Maroh. Bologna: Renbooks, 2015.

Questo opuscoletto, pubblicato da Renbooks in edizione limitata (con tanto di numerazione e firma dell'autrice), è basata sulla mini serie City & Gender, pubblicata nella rivista The Big Issue in Taiwan tra novembre 2013 e maggio 2014.

La raccolta di strisce si può leggere in italiano, ovvero - capovolgendo l'opuscoletto - in inglese.

Si tratta di brevi storie, quasi frammenti, in cui Julie Maroh (ben nota in Italia in quanto autrice del graphic novel ll blu è un colore caldo e più recentemente di Corpi sonori) propone al lettore una riflessione sulla questione di genere nei contesti urbani, e lo fa in maniera creativa e ad ampio spettro.

Parla in generale di come la società tenda a ingabbiare le persone, a costringerle a posizionarsi in una casella, qualunque essa sia, e di come attribuisca a ciascuna di queste caselle una specifica connotazione che ne condiziona i comportamenti: la donna come oggetto sessualizzato, l'uomo come sesso forte, con il relativo contorno di ciò che la donna e l'uomo possono o no fare, devono o no fare. Chi non rientra in queste due caselle è automaticamente al di fuori della normalità e ha la sua collocazione nel reame della diversità.

Nell'ultimo racconto l'autrice conclude che lo spazio pubblico non è mai neutrale, perché è organizzato per norme e generi, a differenza dello spazio privato che è lasciato alle preferenze dei singoli. In particolare, nello spazio pubblico è la donna (e in generale il femminile) a pagare il prezzo più caro in quanto tale spazio non è costruito per consentirle di usufruirne in maniera libera e sicura.

Quello di Julie Maroh è il tentativo di scoperchiare il vaso su quanto anche gli spazi siano il risultato di una società fortemente patriarcale che si arroga il diritto di decidere quali debbano essere i ruoli e i comportamenti delle donne e delle persone in generale.

City & Gender è dunque anche un appello a lavorare per cambiare questo stato di cose e a costruire un futuro diverso.

Voto: 3/5

martedì 26 maggio 2020

Ramen heads

Ancora un film messo a disposizione dal Far East Film Festival per la rassegna #iorestoacasa di MyMovies. Questa volta siamo in Giappone, e il regista Koki Shigeno, con il suo docufilm Ramen heads, ci porta alla scoperta del mondo affascinante del ramen, uno dei piatti nazionali giapponesi ormai conosciuti in tutto il mondo. In particolare, il film si concentra sulla figura di Osamu Tomita, l’indiscusso re del ramen, il cui ristorante con soli 10 coperti è stato più volte premiato come quello che prepara il miglior ramen in tutto il paese.

Il ramen bar di Tomita si trova a Matsudo nella prefettura di Chiba, fuori da Tokyo, cosicché chi vuole assaggiare il suo famoso tsukemen (caratterizzato da un brodo densissimo alla cui preparazione lo chef pone una cura speciale) deve alzarsi molto presto la mattina e mettersi in fila davanti al negozio già dalle 7 per sperare di ricevere un biglietto di prenotazione per un qualunque orario nella giornata (in realtà pare che nel 2019 Osamu Tomita abbia aperto anche una sede a Tokyo, ma nel film, che è del 2017, non se ne accenna in alcun modo).

Sicuramente il personaggio di Osamu Tomita è molto interessante; colpisce molto noi occidentali il modo quasi ossessivo con cui lo chef ricerca la perfezione del suo ramen e cerca gli ingredienti perfetto per realizzarlo, nonché la rigidità con cui gestisce i suoi aiutanti e l’attenzione con cui segue tutte le fasi della preparazione. Quello di Tomita per il ramen è un amore che va al di là del lavoro e che impregna di sé anche la sua vita familiare e personale: ci si aspetterebbe che al di fuori del suo lavoro Tomita non voglia sentir parlare di ramen, e invece spesso porta la famiglia a mangiare fuori per assaggiare ramen di altri chef. Con due di questi famosi chef giapponesi Tomita organizza l’evento per il decimo anniversario del suo ramen bar, che vede la creazione di un ramen speciale, studiato dai tre chef appositamente per l’occasione e servito da loro in persona durante il giorno dell’anniversario.

Il film di Koki Shigeno però non parla solo del “re del ramen”, ma in generale del fenomeno ramen in Giappone: dal banco di strada del mercato di Tokyo che prepara in media oltre 1000 ciotole di ramen al giorno ad altri famosi ramen bar in cui vengono proposte tutte le varianti di questa famosa zuppa, il tonkotsu, lo shio, lo shoyu e molte altre, secondo l’inventiva e la creatività dello chef.

Ramen heads mi ha ricordato a tratti un altro bel documentario a tema gastronomico, ambientato in Giappone, Jiro e l’arte del sushi, dedicato appunto a un altro piatto nazionale che ha una lunga tradizione e richiede una preparazione molto accurata. Pur essendo il sushi e il ramen in un certo senso agli antipodi nel range culinario giapponese, ciò che colpisce è il modo in cui questi chef votano l’intera loro vita alla ricerca della perfezione in quello che fanno, dimostrando una passione e una dedizione al lavoro che per noi ha quasi dell’incomprensibile e che molto racconta anche della cultura giapponese.

Comunque al termine della visione il primo pensiero è prendere un aereo e andare a Matsudo ad assaggiare lo tsukemen; peccato che quando vedo il film sono inchiodata in casa e non posso andare nemmeno al mio ristorante giapponese preferito di Roma (che nel frattempo ha riaperto), il cui ramen non sarà all’altezza di quello di Tomita ma è decisamente molto buono!

Voto: 3/5

sabato 23 maggio 2020

La misura del tempo / Gianrico Carofiglio

La misura del tempo / Gianrico Carofiglio. Torino: Einaudi, 2019.

«L’invecchiamento non è un processo lineare. Così come il tempo non è un’entità lineare. Non è un’entità comprensibile. Nessuno lo capisce davvero. Nessuno è capace di definirlo. Provate a parlare del tempo senza usare alcuna metafora, dice un famoso linguista. Vi ritroverete a mani vuote. Il tempo sarebbe ancora tempo, per noi, se non potessimo sprecarlo o programmarlo? Possiamo solo dire qualcosa sul fatto che va grosso modo in una direzione e che la destinazione finale è nota.» (p. 272) O forse – come dice il fisico Carlo Rovelli – il tempo non esiste affatto.

Peccato che sia una delle cose con cui noi esseri umani ci troviamo continuamente a fare i conti, e con cui non facciamo mai pace, né quando scorre troppo veloce, né quando scorre troppo lento, né quando guardiamo indietro, né quando ci proiettiamo in avanti.

Guido Guerrieri, l’amato avvocato protagonista della serie di romanzi di Gianrico Carofiglio, ha ormai cinquant’anni ed è in quella fase della vita in cui inevitabilmente ci si trova a fare dei bilanci e a provare a comprendere il significato che persone ed esperienze che abbiamo vissuto nel passato hanno avuto nella nostra vita e nella nostra storia personale. Tanto più se una di queste persone, in questo caso Lorenza, una donna con cui Guido ha avuto una breve storia durata un’estate della fine degli anni Ottanta, si ripresenta nel tuo studio dopo trent’anni che non vi vedete.

Lorenza, che è appunto invecchiata e in cui Guido fa fatica a scorgere la donna seducente che a suo tempo lo aveva completamente abbagliato con la sua bellezza e il suo stile di vita, ha bisogno di aiuto perché suo figlio Iacopo è accusato di omicidio e il primo grado del processo ne ha confermato la colpevolezza.

Guido decide di accettare il caso e, insieme ai suoi collaboratori, Tancredi, Consuelo e Annapaola (che è anche la sua compagna), cerca di ricostruire tutta la vicenda per poter giungere al secondo grado di giudizio garantendo al giovane una giusta difesa, basata sulla verifica dell’esistenza di ipotesi alternative alla dinamica dell’omicidio ricostruita in primo grado e finalizzata a portare davanti al giudice un possibile, ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell’imputato.

Il giallo giudiziario raccontato da Carofiglio non è particolarmente complesso o intrigante, mentre sono di grandissimo interesse tutte le riflessioni che, di fronte a questo caso, Guido Guerrieri fa in merito alla sua professione, in particolare per quanto riguarda gli aspetti etici e i modi in cui questi fattori si combinano con le tecniche difensive, in pratica il senso profondo del meccanismo del processo giudiziario.

«La funzione dell’avvocato è garantire che nessuno venga condannato in base a procedure scorrette, e la sintesi di questa funzione è in ciò che potremmo definire “l’atto del domandare dubitando”. Porre domande, agli altri ma soprattutto a sé stessi, dubitando delle verità e delle regole all’apparenza consolidate. In ogni ambito – regole e fatti – come un esercizio dei nostri muscoli intellettuali ed etici. Non dando nulla per scontato. […] Il nostro compito è trovare le soluzioni per i casi che di volta in volta ci si presentano. Ma bisogna essere consapevoli del fatto che la capacità di trovare le risposte e le soluzioni ai conflitti si basa sulla capacità di convivere con l’incertezza, con l’opacità del reale.» (p. 118-119)

E l’intero lavoro di preparazione così come il dibattimento in aula che ci viene proposto è in un certo senso un’esemplificazione del senso di queste parole e di un’intera professione, una specie di esempio pratico dei principi di carattere filosofico-giuridico che dovrebbero guidare il lavoro di un avvocato e l’intero processo penale.

In parallelo alla narrazione relativa al caso giudiziario si sviluppa quella che riguarda la relazione di tanti anni prima tra Guido e Lorenza, una specie di parentesi nella vita di entrambi, in un momento in cui la vita di Lorenza sembrava proiettata verso grandi sogni e avvolta nel mistero, e quella di Guido ancora confusa e senza una direzione. Un incontro il loro che forse per Lorenza non aveva significato molto rispetto a quell’«orbita triste attorno ai propri sogni» che sarebbe stata poi la sua vita, mentre per Guido aveva rappresentato il definitivo passaggio all'età adulta, passaggio inconsapevole allora e invece chiaro nella ricostruzione di quell’incontro attraverso la memoria e con lo sguardo dell’adulto che ha scavallato la metà della vita.

«Essere storditi dalla forza di qualcosa. Mi piacerebbe tanto, se capitasse di nuovo. Forse potrebbe essere proprio lo stupore – se fossimo capaci di impararlo – l’antidoto al tempo che accelera in questo modo insopportabile. Il tempo è molto più esteso per i giovani perché sperimentano in continuazione cose nuove. La loro vita è piena di prime volte, di improvvise consapevolezze. Il tempo scorre veloce quando si invecchia perché, di regola, si ripete sempre uguale. Le possibilità di scegliere si riducono, le vie sbarrate si moltiplicano, fino a quando tutto pare ridursi a un unico, piccolo sentiero. Non hai voglia di pensare a dove conduce, quel sentiero, e questo produce un’anestesia della coscienza. Aiuta ad attutire la paura della morte, ma sbiadisce i colori.» (p. 266)

Gianrico Carofiglio in gran forma. E Guido Guerrieri con l'avanzare dell'età sempre più affascinante.

Voto: 3,5/5

martedì 19 maggio 2020

Nostalgia della luce

Patricio Guzmán è un regista (ma anche sceneggiatore, fotografo e molto altro) cileno che ha dedicato diversi documentari al suo Paese e alla storia che l’ha caratterizzato.

Un tema che gli sta particolarmente a cuore è quello della memoria, ch’egli considera un valore da preservare gelosamente e accuratamente soprattutto in un contesto come quello cileno che – per vari motivi – rischia la rimozione.

Per coltivare questo valore, nella Nostalgia della luce Guzmán ci porta in un luogo simbolo del Cile, il deserto di Atacama, che ha un significato multiplo anche dal punto di vista della memoria.

In questo deserto, che è l’area più secca del pianeta, c’è il più importante osservatorio astronomico mondiale, e astronomi provenienti da tutto il mondo osservano e studiano il cielo e le stelle alla ricerca del passato della galassia e dell’universo; la luce delle stelle che arriva fino a noi è infatti spesso qualcosa che ci arriva dal passato e che ci racconta qualcosa che non esiste più.

Il deserto di Atacama è anche però uno strepitoso scrigno di testimonianze per gli archeologi che qui possono studiare le tracce e i resti della civiltà precolombiana e provare a ricostruire la storia antica del Cile e a sciogliere i dubbi che la riguardano.

Infine, questo deserto è stato tristemente protagonista anche dell’oscuro periodo della dittatura di Pinochet: qui infatti sorgevano campi di concentramento per i dissidenti e qui erano state realizzate delle fosse comuni dove furono sepolti i nemici del regime, spesso dopo essere stati torturati, persone di cui in molte casi si è persa completamente traccia (desaparecidos) e i cui parenti sono ancora alla ricerca delle spoglie. Molte di queste fosse comuni sono state smantellate dal regime per non lasciare traccia, e i resti dei corpi non si sa nemmeno dove siano stati portati (forse in mare).

Nel suo documentario Guzmán mette insieme questi tre livelli della narrazione intersecandoli in maniera affascinante e lasciando la parola a tutti i ricostruttori di memoria, a qualunque di questi mondi appartengano. Il tutto dentro una confezione molto poetica ed emozionante, e con una fotografia (soprattutto quella astronomica) davvero strabiliante.

Si tratta di un film che ovviamente sul grande schermo avrebbe avuto tutto un altro impatto e che mi dispiace davvero di non aver potuto vedere al cinema. Ciò nonostante, sono grata a MyMovies e al’iniziativa #iorestoacasa perché mi ha dato la possibilità di recuperarlo.

Voto: 3,5/5

domenica 17 maggio 2020

La ragazza nello schermo / Manon Desveaux; Lou Lubie

La ragazza nello schermo / Manon Desveaux; Lou Lubie. Roma: ComicOut, 2019.

Coline è una illustratrice e sta faticosamente portando avanti il progetto di pubblicare un libro per bambini, mentre vive a Perigaux, in Francia, in una dependance della casa dei nonni.

Marley vive invece a Montreal, in Quebec, con il suo fidanzato Vincent. Ha una passione per la fotografia, ma in realtà sbarca il lunario facendo la cameriera in un locale.

Un giorno Coline, facendo delle ricerche su Internet, si imbatte per caso nelle foto di Marley e ne rimane affascinata; le scrive (in realtà inizialmente pensa che si tratti di "un" fotografo) per chiedere se può utilizzare le sue foto come basi de suoi schizzi per il libro.

Da qui inizia un’amicizia a distanza, che – nonostante le difficoltà del fuso orario – cresce e diventa sempre più profonda. Coline e Marley rivelano l’una all’altra le proprie debolezze, i propri sogni e le proprie frustrazioni, e in un confronto aperto e affettuoso ciascuna di loro comincia a guardare alla propria vita e alle proprie scelte con occhi diversi. Fino a quando, grazie al viaggio estivo di Marley per andare a trovare i suoi genitori in Francia, le due ragazze si incontrano e trascorrono giorni perfetti insieme, scoprendo che il sentimento che le unisce va al di là di una semplice amicizia.

Tornate ognuna alla propria vita quotidiana, le attenderanno dei grossi cambiamenti e delle decisioni importanti per il proprio futuro.

Il graphic novel di Manon Desveaux e Lou Lubie è letteralmente realizzato a quattro mani. Infatti, come ci viene spiegato meglio nelle pagine finali, La ragazza nello schermo è il risultato di un progetto di produzione condivisa di un fumetto che ha visto le due autrici lavorare autonomamente, ciascuna sul proprio personaggio: la Desveaux su Coline e la Lubie su Marley. La storia dal punto di vista di Coline si sviluppa sulle pagine di sinistra ed è completamente in bianco e nero, mentre quella dal punto di vista di Marley occupa le pagine di destra dell’albo ed è completamente a colori. Cosicché il lettore si troverà davanti due pagine, una di fronte all’altra, realizzate separatamente, ma incredibilmente integrate e complementari. Quando poi le due protagoniste si incontrano, i loro due mondi si mescolano e anche la realizzazione delle tavole ha dovuto seguire un procedimento diverso, che anche in questo caso è stato equamente suddiviso tra le due illustratrici.

Il risultato è un fumetto molto bello esteticamente, capace di suscitare l’attenzione e l’interesse del lettore nel seguire questo ping pong tra i mondi delle due protagoniste e delle due autrici. La Desveaux e la Lubie dimostrano però non solo perizia nei disegni e nella costruzione delle tavole, bensì anche nella narrazione: il fumetto, infatti, pur non raccontando una storia particolarmente originale, lo fa in maniera delicata, sincera e commovente risucchiando il lettore nel mondo di queste due ragazze che, separate da un oceano, inseguono entrambe i propri sogni e scoprono la complessità dei sentimenti.

Dopo un periodo di “stanca” verso il mondo dei graphic novel, e la sensazione di una certa ripetitività, La ragazza nello schermo mi ha riconciliata con il genere e mi ha fatto tornare la voglia di leggere cose nuove.

Post pubblicato in occasione della Giornata internazionale contro l'omofobia, la transfobia e la bifobia 2020.

Voto: 4/5

venerdì 15 maggio 2020

Survival family

Siamo a Tokyo, in un piccolo appartamento a un piano parecchio alto di un grande caseggiato dove vive una famiglia come tutte le altre: un padre che lavora in ufficio e la sera pensa solo a mangiare e a stravaccarsi davanti alla televisione, una madre casalinga che però ha il terrore di pulire il pesce che suo padre gli ha mandato, una figlia e un figlio che stanno sempre attaccati ai loro cellulari e con i loro genitori parlano ben poco. All’improvviso la città piomba nel blackout assoluto, tutto quello che funziona utilizzando l’elettricità o le batterie smette di funzionare, e ben presto la vita di questa famiglia e di tutte le altre cambia profondamente, mettendo in luce la completa dipendenza della nostra società dalle “tecnologie”.

Nel giro di pochi giorni quello che inizialmente tutti considerano solo un inconveniente un po’ fastidioso si trasforma in una collettiva lotta per la sopravvivenza, in cui tutte le priorità vengono stravolte nonché il valore delle cose. Quando i membri della famiglia Suzuki comprendono che rimanendo in città rischiano di morire di fame, decidono di raggiungere il paesino di pescatori dove abita il nonno, ma né aerei né macchine li possono condurre lì, cosicché la loro sarà una tragicomica odissea in bicicletta attraversando città deserte e abbandonate, strade e luoghi dall’apparenza post-apocalittica.

Durante questo lunghissimo viaggio che durerà più di 100 giorni i quattro protagonisti si metteranno a nudo e si scopriranno reciprocamente nel bene e nel male, e ognuno di loro farà i conti con i propri punti di forza e di debolezza e sarà chiamato a superare sfide e a mettere in campo tutte le proprie risorse migliori. Durante il percorso incontreranno persone disperate come loro rispetto alle quali metteranno in campo i loro peggiori egoismi, ma a poco a poco comprenderanno anche l’importanza della solidarietà.

Il loro impatto con il mondo rurale dove l’acqua e il cibo non mancano sarà tutt’altro che idilliaco perché comprenderanno che tutto quello che davano per scontato e che arrivava sulle loro tavole già lavorato è frutto di lavoro durissimo e di sapienze antiche ormai dimenticate.

Il film di Shinobu Yaguchi è un’originale forma di commedia apocalittica, in cui è evidente fin dal principio che tutto andrà per il meglio, ma che non risparmia un senso di ansia crescente per le sorti di questi personaggi e profondi interrogativi individuali e sociali. Si tratta – com’è evidente – di un film a tesi, con uno sviluppo tutto sommato didascalico e prevedibile, ma questo non toglie nulla all’importanza della riflessione resa possibile dall’estremizzazione della situazione e alla godibilità della narrazione, che ci rende momento dopo momento sempre più cari i componenti di questa famiglia che al principio potevano risultare insopportabili, per effetto di un’inevitabile empatia.

È chiaro che un film del genere, visto quando ancora tutta l’Italia – e non solo – è in quarantena, non può che parlare al presente e interrogarci su tante reazioni e sentimenti che noi stessi abbiamo provato o che abbiamo visto dispiegarsi intorno a noi in queste settimane. Ma probabilmente, il film, risalente al 2016, rientra in realtà in un filone molto presente nella cinematografia orientale, quello della critica al tempo presente e soprattutto alle nostre vite metropolitane e ipertecnologiche (non a caso mi ha fatto pensare a un altro film del Far East Film Festival visto qualche giorno fa sempre su Mymovies, Little forest), frutto di una crescente consapevolezza della fragilità di questi nostri equilibri e anche degli effetti negativi che su di noi ha prodotto il distacco dalla natura e dalla ruralità.

La campagna e il mondo dei piccoli villaggi sono visti come una specie di Eden al quale ritornare (fors’anche in maniera un po’ semplicistica), o quantomeno come una lezione da non dimenticare se non si vuole rischiare di diventare vittime di quel progresso che noi stessi abbiamo creato.

Voto: 3,5/5

martedì 12 maggio 2020

Freedom hospital. Una storia siriana / Hamid Sulaiman

Freedom hospital. Una storia siriana / Hamid Sulaiman; trad. dal francese di Marco Ponti; prefazione di Cecilia Strada. Torino: add editore, 2018.

Negli ultimi anni, dopo l'acquisto e la lettura di Io sono una (uno dei più bei graphic novel da me letti negli ultimi anni), ho scoperto e imparato ad apprezzare la casa editrice add, che in fatto di graphic novel propone una selezione di tutto rispetto. Ho letto così in sequenza prima Là dove finisce la terra (sulla storia del Cile, di cui attendo ansiosa la seconda parte) e poi Una storia cinese (il racconto della Cina dalla Rivoluzione culturale in poi da un punto di vista interno e privilegiato).

Conquistata da questi albi - la cui lettura considero uno dei modi migliori per porsi delle domande e comprendere meglio storie e vicende di paesi lontani dal nostro - ho deciso di comprare anche Freedom hospital di Hamid Sulaiman, un fumettista siriano nato nel 1986 che ora vive in Francia.

Il motivo che ha spinto Sulaiman a scrivere e disegnare questa storia nasce dall'essersi reso conto che in Occidente la gente sa pochissimo della guerra in Siria e soprattutto non ne comprende in alcun modo le dinamiche. Per fare un po' di chiarezza e raccontare la guerra dall'interno (un po' come fa Waad al-Kateab nel documentario For Sama), Sulaiman sceglie di parlare del Freedom hospital, l'ospedale clandestino che Yasmine, una pacifista siriana, ha deciso di aprire a Houria (una città inventata nel nord della Siria) per realizzare il sogno di suo padre.

A raccontare la storia del Freedom hospital arriva Sophia, una giornalista siriana che vive a Parigi e che affianca Yasmine nella sua lotta quotidiana per mantenere aperto l'ospedale e proteggerlo dagli attacchi e dai tentativi di chiuderlo. L'ospedale di Yasmine ha la particolarità di accogliere tutti coloro che hanno bisogno di cure, indipendentemente dalla loro religione, dalle opinioni politiche, dalle posizioni rispetto alla guerra. È così che il Freedom hospital diventa una specie di piccolo laboratorio dove si sperimenta una faticosa convivenza tra mondi diversi e spesso non comunicanti tra di loro, spesso contrapposti con le armi.

La complessità della situazione siriana e la molteplicità delle fazioni contrapposte, nonché delle interferenze internazionali sulla guerra, rendono però l'azione di Yasmine sempre più difficile e rivelano le basi fragili di questa utopia.

La guerra e l'odio infatti tendono a radicalizzarsi e invadere qualunque spazio, anche quelli in cui si vorrebbe invece alimentare la speranza della fine del conflitto e la prospettiva di un futuro di pace. A Yasmine - come ad Hamid Sulaiman - sembra importare poco dei torti e delle ragioni di ciascuno dei contendenti, avendo come massimo interesse la fine delle ostilità e la fine degli orrori e delle brutture del conflitto.

Attraverso un disegno fortemente stilizzato e un uso del bianco e nero molto contrastato, Sulaiman sembra voler sottolineare da un lato le contrapposizioni, dall'altro le sovrapposizioni e le mescolanze, che rendono l'interpretazione dei meccanismi di questa guerra particolarmente difficile.

Non sono sicura che si esca dalla lettura di Freedom hospital sapendone di più sulla guerra in Siria o avendo capito meglio le sue caratteristiche; certamente però all'ultima pagina si è vieppiù consapevoli dell'assurdità e della follia umana che si nasconde dietro questa guerra e dietro tutte le guerre, come scrive a chiare lettere Cecilia Strada nella prefazione.

Voto: 3/5

domenica 10 maggio 2020

Stop the pounding heart

Stop the pounding heart è il terzo capitolo della trilogia che Roberto Minervini ha dedicato al Texas. Dopo The Passage (2011) e Low Tide (2012) che non ho visto e che a questo punto spero di recuperare, questo terzo documentario (qualcuno lo ha definito “cinema del reale”) ha come protagonisti Sara e Colby.

Entrambi vivono nel profondo Texas, in un’area rurale: la prima è una dei numerosi figli di una coppia che ha scelto uno stile di vita molto semplice incentrato sull’allevamento delle capre, la trasformazione del latte e la vendita dei prodotti caseari che ne ricavano; il secondo è invece un appassionato di rodeo e passa le sue giornate ad allenarsi a cavalcare i tori in vista delle competizioni. Se da un lato la preghiera è onnipresente, a volte quasi in maniera inopportuna, dall’altro tutti fanno esperienza di utilizzo delle armi da fuoco, con sessioni periodiche di tiro al bersaglio.

Come già avevo avuto modo di osservare in Che fare quando il mondo è in fiamme?, Minervini utilizza la videocamera come un antropologo classico utilizzerebbe il suo blocco degli appunti durante uno studio basato sull’osservazione partecipata.

Il regista con la sua videocamera sta in mezzo a queste persone fino a diventare un tutt’uno con il mondo che sta raccontando, a volte partecipando all’azione in maniera esplicita (ad esempio quando un bambino al rodeo si rivolge direttamente a lui dietro la telecamera, ovvero quando, durante la passeggiata nel bosco, un altro bambino si gira a guardare se la telecamera li segue), altre volte facendosi praticamente invisibile e dunque riuscendo nel non facile tentativo di far sentire le persone a proprio agio e perfettamente naturali (o almeno questo è quanto noi percepiamo).

Parte del merito di Minervini – che è poi un tratto specifico del suo modo di girare – consiste nel fatto di osservare, anche da molto vicino, senza far trasparire un giudizio, bensì facendo emergere solo il desiderio di conoscenza che appunto è proprio dell’antropologo.

Il fatto che in questo caso i soggetti che lui racconta sono in buona parte bambini e adolescenti rende questo esperimento ancora più riuscito: i primi infatti non sono minimamente intimoriti dalla telecamera e oscillano tra l’attenzione verso di essa e il completo disinteresse, come se non esistesse; i secondi osservano il mondo circostante con occhi attenti, ma proferiscono poche parole, non potendo nascondere le cupezze e gli imbarazzi che sono tipici di quell’età.

Ne viene fuori il ritratto di un ambiente da un lato bucolico e profondamente in contatto con la natura circostante, in cui i giochi dei bambini sono semplici e i divertimenti degli adulti pure, ma in cui tutti fanno vite aspre e faticose, muovendosi dentro un orizzonte educativo apparentemente molto pacifico e amorevole, ma in realtà fatto di durezze e condizionamenti molto profondi, rispetto ai quali il percorso di conquista della propria individualità e specificità appare – soprattutto per un adolescente - ancora più difficile e faticoso di quanto non sia normalmente.

Un film fatto di sguardi, di intimità, di attenzioni, di osservazioni, e che - attraverso tutte queste cose - ci invita innanzitutto a conoscere e a comprendere senza pregiudizi una realtà che ha tutta la dolcezza e la crudeltà insieme delle scelte radicali.

Voto: 4/5

venerdì 8 maggio 2020

Lo stradone / Francesco Pecoraro

Lo stradone / Francesco Pecoraro. Milano: Ponte alle Grazie, 2019.

Di Francesco Pecoraro avevo letto a suo tempo La vita in tempo di pace, un libro originale per stile e narrazione che mi aveva colpito e avevo apprezzato parecchio.

Alla notizia dell'uscita del nuovo romanzo, Lo stradone, mi sono informata e quello che ho letto della sua trama mi ha incuriosita tanto da spingermi a comprarlo e a leggerlo.

Si tratta di un libro piuttosto voluminoso - oltre 400 pagine - articolato in capitoli di differente lunghezza (ce ne sono di molto brevi e di lunghi) che si possono leggere quasi autonomamente come fossero dei racconti (e magari - chissà - sono nati proprio così).

Il filo conduttore di questi racconti è rappresentato dal narratore, un ex storico dell'arte finito a lavorare in Ministero, coinvolto poi negli scandali di Tangentopoli e ormai in pensione, che abita al settimo piano di un palazzone che si affaccia sullo “stradone”. Lo stradone e tutto il quartiere che gli si sviluppa intorno (quello che il narratore chiama il quadrante e che corrisponde alla zona di Valle Aurelia) sono i veri protagonisti del romanzo, perché è la loro storia - raccontata attraverso dei lunghi flashback - che informa l'ambiente umano circostante e che lo connota in maniera inconfondibile. Questa umanità che oggi ruota intorno al bar Porcacci è l'esito delle comunità dei fornaciari che si trasferirono qui nella Sacca del Monte Argilla per produrre mattoni.

Passato e presente, pur così lontani e così diversi, nella narrazione del protagonista si collocano invece in un'unica linea temporale che rivela gli elementi di continuità di questo micromondo, ma che attraverso di esso mostra i tratti propri di una città (Roma, qui mai nominata col suo nome ma detta Città di Dio) e in fondo di un intero paese, rispecchiandone storia, difetti e pregi.

Il protagonista è un uomo senza qualità, spregevole per certi versi, o quanto meno squallido per i bassi istinti che non si vergogna a esternare, ma al contempo è un uomo dotato di acume e intelligenza, capace di cogliere il senso - o il nonsenso - delle cose, e in fondo caratterizzato da una sincerità e da uno spirito di osservazione non comuni e certamente apprezzabili. E però alla fine non si può fare a meno di disprezzarlo nella piccineria dei sentimenti e nei suoi bassi istinti, e forse il disprezzo nasce dalla necessità di prenderne le distanze e quindi dal tentativo di negare l’inevitabile identificazione.

Lo stile di Pecoraro si conferma originale grazie all'inserimento di termini e ortografia romanesca in uno scritto italiano, che però gioca con la punteggiatura eliminandola soprattutto nelle elencazioni. I capitoli sono inoltre inframmezzati qua e là da brevi battute o scambi tratti dalla vita quotidiana della strada a creare un ulteriore effetto di straniamento, oltre a quello già determinato da tutto il resto.

Non posso dire che la lettura de Lo stradone mi abbia appassionato (mi era piaciuto di più La vita in tempo di pace). Soprattutto mi hanno infastidito la frustrazione e il cinismo che attraversano le sue pagine e che trasudano dal suo protagonista, e io devo confessare che sono un po' allergica a questi sentimenti che spesso caratterizzano le peggiori forme di vittimismo. Ma probabilmente l'effetto è voluto da Pecoraro per far cogliere un certo onnipresente spirito romanesco e italico. A tratti la lettura si fa però noiosa e un po' ripetitiva, salvo poi riaccendere l'attenzione poco dopo. Per me un romanzo un po' discontinuo che non mi ha convinta del tutto, nonostante i numerosi elementi di interesse.

Voto: 3/5

mercoledì 6 maggio 2020

Quando eravamo fratelli

Sempre grazie all’iniziativa #iorestoacasa di MyMovies, riesco a vedere questo film di Jeremiah Zagar tratto dal romanzo di Justin Torres We the animals, che avevo mancato più di una volta al cinema.

È la storia di tre fratelli, Manny (Josiah Gabriel), Joel (Isaiah Kristian) e Jonah (Evan Rosado), che vivono in una casa in mezzo ai boschi non lontanissima da New York, ma sostanzialmente fuori dalla civiltà, insieme ai genitori, un padre portoricano un po’ testa calda e una madre americana molto fragile. I due si amano, ma in un modo che oscilla tra momenti di grande vicinanza e sintonia e momenti di forte conflittualità, di cui i tre ragazzini sono spettatori impotenti nel bene e nel male.

La storia è raccontata dal punto di vista di Jonah, il più piccolo, che è dei tre quello che forse di più assomiglia a sua madre e che, pur essendo molto legato ai suoi fratelli con cui condivide giochi e scorribande, percepisce la propria diversità: mentre i fratelli dormono si rifugia sotto il letto a disegnare e a tradurre con le matite e i colori i suoi sentimenti, e a differenza loro non sa nuotare e non punta su forza e coraggio.

Nella cornice di una fotografia che – come è stato detto da molti – ricorda quella dei film di Terrence Malick e attraverso la scelta di inserire all’interno del girato “quasi documentaristico” le animazioni dei disegni del piccolo Jonah, si sviluppano parallelamente la storia di questa famiglia, con i suoi alti e bassi, le separazioni e i riavvicinamenti, la tenerezza e le violenze, e il coming of age di questo bambino che non vuole rimanere tale per sempre e che vuole marcare la propria strada e la propria individualità sia rispetto ai suoi genitori sia rispetto ai suoi fratelli.

Perché diventare grandi vuol dire “rinascere” per diventare sé stessi (e Jonah a un certo punto del film si infila nella tomba scavata dal padre in mezzo al fango e ai vermi per uscirne diverso), e tutto questo al di là delle aspettative di chi ci vuole bene e dei modelli che abbiamo ricevuto. Perché ognuno di noi è una persona diversa da tutte le altre e – pur nella continuità del patrimonio genetico che si porta appresso – ha il diritto di rivendicare la sua unicità e la sua differenza anche rispetto a coloro cui il sangue lo lega.

Il film di Zagar è uno spaccato interessante su un mondo che – pur essendo così vicino geograficamente a quello dinamico ed evoluto della metropoli – resta invece marginale e per certi versi arcaico, ma che accanto a forme di solitudine e di squallore riesce anche a distillare forme di purezza e bellezza del tutto dimenticate.

Voto: 3,5/5

lunedì 4 maggio 2020

Ida / Chloé Cruchaudet

Ida / Chloé Cruchaudet. Paris: Editions Delcourt, 2015.

Da quando ho letto Poco raccomandabile, graphic novel di cui ho amato praticamente tutto, dalla storia ai disegni ai colori, ho continuato a tenere d'occhio la sua autrice, Chloé Cruchaudet, una fumettista francese da noi poco conosciuta. Ho dunque letto l'altro suo lavoro tradotto in italiano, Groenlandia Manhattan, che mi è piaciuto molto anche se non quanto il primo, e poi ho comprato la versione integrale cartonata e in lingua originale di Ida, pubblicato dall'editore parigino Delcourt, e mai tradotto in italiano.

Si tratta di lavoro uscito prima in tre puntate, intitolate rispettivamente Grandeur et humiliation , Candeur et abomination e Stupeur et révélation, e poi raccolto in un albo unico, che è quello in mio possesso.

Siamo alla fine dell'Ottocento. La storia è quella di Ida, una aristocratica svizzera trentenne viziata e afflitta da mille malanni immaginari, cui un giorno il medico consiglia di andare sulla costa azzurra per migliorare la propria salute. Questo primo viaggio non solo le fa dimenticare le sue malattie, ma le fa scoprire il piacere dell'esplorazione e dell'avventura. È così che - affascinata dai mondi esotici rappresentati nelle Esposizioni Universali cui ha partecipato da bambina - decide di partire per l'Africa, portando con sé Fortunée, una giovane donna che ha salvato dal convento.

In Africa le due donne si troveranno ad affrontare molteplici avventure e comprenderanno che la realtà è molto diversa da quella che gli occidentali si rappresentano e anche che la presenza occidentale in Africa è in buona parte improntata allo sfruttamento delle risorse e della manodopera. Ida - nel frattempo divenuta corrispondente dall'Africa e autrice di opuscoli di viaggio e pezzi giornalistici, anche sotto pseudonimo - farà ritorno in Europa, insieme a Fortunée, con un animo ben più disincantato che alla partenza e con una consapevolezza molto più profonda degli equilibri geopolitici che si stanno determinando nel continente africano.

Non è stato per me facile procedere nella lettura di questo albo e soprattutto coglierne tutte le sfumature in una lingua che non conosco bene; nonostante questo però ho potuto apprezzare anche in questo caso le qualità della Cruchaudet sia dal punto di vista grafico (in questo caso il realismo delle ricostruzioni si mescola con una fantasia variopinta e stupefacente) sia dal punto di vista narrativo. In questo caso la Cruchaudet gioca sul registro ironico, ma non rinuncia a portare alla luce le contraddizioni dell'incontro tra gli europei e la società africana.

Un lavoro originale che dimostra ancora una volta che la giovane disegnatrice francese non teme - come Ida - di percorrere strade inesplorate e desidera continuare a mettersi alla prova e sperimentare, assumendosi rischi sempre maggiori e spiazzando il proprio pubblico di lettori.

Voto: 3/5

sabato 2 maggio 2020

Little forest

Approfittando della seconda edizione dell’iniziativa di MyMovies #iorestoacasa, continuo a poter dedicare alcune serate di questa lunga quarantena alla mia passione per il cinema (sebbene la visione casalinga sia solo una pallida imitazione dell’emozione della sala cinematografica!).

Tra le proposte di questa seconda edizione sono particolarmente attirata dai film provenienti dall’Estremo Oriente che sono resi disponibili grazie alla collaborazione del Far East Film Festival. E così il primo che vedo è questo film sudcoreano del 2018, Little forest, titolo il cui significato si chiarisce in una delle ultime sequenze del film.

Protagonista del film è Hye-won (Tae-ri Kim), una ragazza che frequenta l’università a Seoul ma ha deciso di tornare a vivere nella sua casa di origine, in un piccolo paese agricolo. Qui la ragazza ha vissuto fino al momento dell’iscrizione all’università e del trasferimento a Seoul, momento che è coinciso con la decisione della madre di andar via per vivere la propria vita, dopo essersi occupata da sola della figlia.

Nel suo paese, Hye-won riprende i contatti con due amici di infanzia, Eun-sook, una ragazza che lavora in banca e non è mai andata via dal paese sebbene mostri segni di scontentezza, e Jae-ha, un giovane che dopo un’esperienza lavorativa in un’azienda in città ha deciso di tornare al paese a coltivare la terra.

Hye-won, apparentemente solo di passaggio, finisce per fermarsi nella sua casa di origine per un intero anno e ha così la possibilità di riflettere sulle proprie scelte, sulla relazione con il fidanzato che ha lasciato a Seoul, sulle differenze tra la vita di città e di campagna, sul proprio rapporto con il tempo. Durante questo periodo Hye-won realizza un piccolo orto e aiuta Jae-ha e la zia nella coltivazione della terra, e con i prodotti raccolti realizza degli straordinari piatti della cucina coreana - e non solo - che la mamma le aveva insegnato quando era piccola.

Poco alla volta la nostra protagonista ritrova il legame con le sue radici, che passa anche attraverso il perdono verso sua sua madre e la sua scelta di andare via, nonché attraverso la riscoperta dei sapori genuini, della fatica fisica, dell’amicizia, del rapporto con la natura.

Il film di Soon-rye Yim è in fondo un film semplice nella sua struttura narrativa e anche nel messaggio che veicola, e forse questa mancanza di complessità può essere considerata il suo principale difetto. Da un altro punto di vista però è proprio la sua semplicità a renderlo un film pacificante, senza essere consolatorio, e ad aiutarci a riflettere su quello che abbiamo perduto, ma senza nascondere la fatica e le incognite di una vita vissuta in maggiore sintonia con la natura.

Bonus: le ricette che Hye-won prepara durante il film sono una delizia per gli occhi in tutte le fasi della loro realizzazione, e a tratti riusciamo a sentirne anche il sapore e il profumo.

Voto: 3/5