lunedì 21 ottobre 2019

I documentari dell’Internazionale: Human nature; Leftover women; XY Chelsea

Uno dei classici appuntamenti autunnali romani è la rassegna dei documentari di Internazionale a Roma, manifestazione giunta ormai alla 10a edizione. Quando posso, cerco di non perdere questa opportunità visto che già in passato ho avuto modo di appurare che la selezione di documentari dell’Internazionale è davvero di qualità.

Quest’anno, anche grazie alla membership card che F. mi ha gentilmente prestato e che mi ha consentito di prenotare il posto e saltare la fila, sono addirittura riuscita ad andare a vedere tre film, che hanno illuminato un intero fine settimana e mi hanno fatto entrare nel mood festivaliero che mi attende con la Festa del cinema di Roma.

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Human nature


Il primo documentario che vado a vedere si intitola Human nature ed è di Adam Bolt, noto soprattutto come sceneggiatore del documentario vincitore agli Oscar Inside job. Il documentario si focalizza su una particolare scoperta che sembra aver rivoluzionato l’ingegneria genetica, ossia CRISPR/Cas9, una scoperta che – come è accaduto per molte altre – è avvenuta quasi per caso. In un’azienda che vende batteri per uso alimentare (ad esempio per produrre lo yoghurt), ci si è accorti a un certo punto che alcune famiglie di batteri, pur se attaccate da virus, sopravvivevano, a differenza di tutte le altre, irrimediabilmente uccise. L’azienda in questione ha analizzato il dna di queste famiglie e ha scoperto che esso è caratterizzato dalle CRISPR, ossia brevi ripetizioni di codice genetico. Grazie a questa particolare configurazione, tali famiglie di batteri sono in grado di immunizzarsi al virus, incorporandone il codice genetico. La combinazione delle CRISPR con la molecola Cas9 è ciò che rende questo sistema incredibilmente accurato nel realizzare la modificazione genetica permanente.

Una volta scoperte le CRISPR, il mondo scientifico ha rapidamente realizzato di trovarsi di fronte a uno strumento dalle potenzialità incredibili, capace in modo efficiente ed economico, nonché estremamente preciso (cosa che in passato era impossibile o comunque con una bassa probabilità di riuscita) di modificare il codice genetico di qualunque organismo vivente, compreso l’uomo, soprattutto se combinato con le potenzialità del machine learning.

È evidente che una scoperta di questo genere, una volta dimostrata e verificate la sua funzionalità, ha un numero di applicazioni incredibilmente ampio, da quelle di importanza vitale (curare alcune malattie a base genetica, consentire il trapianto di organi tra specie diverse, invertire il processo di distruzione di alcuni ecosistemi) fino ad arrivare a quelle più futili (come ad esempio diventare più muscolosi). Quando poi questo strumento viene applicato alla linea germinale, ossia sperma, ovociti ed embrioni, diventa possibile persino intervenire sulle generazioni future.

Attraverso le interviste con numerosi scienziati, esperti di etica, responsabili di start up, nonché l’ausilio di una grafica molto efficace capace di rendere comprensibili concetti complessi anche a un pubblico che ne è a digiuno, il documentario affronta un tema centrale per il futuro dell’umanità senza semplificazioni e con grande equilibrio. Ne viene fuori un quadro inevitabilmente controverso, che da un lato riconosce l’impossibilità di mettere a lungo dei paletti al progresso scientifico che fa parte della storia stessa dell’umanità, e dall’altro si interroga sulle conseguenze di un’accelerazione come questa che deve fare i conti con la limitata lungimiranza dell’umanità per un verso e con la mancata conoscenza di tutte le variabili e dunque di tutte le possibili reazioni a catena che interventi così pesanti sull’evoluzione umana possono avere.

La natura – che tutti gli scienziati intervistati – considerano il più straordinario ingegnere genetico che si conosca ha tempi e processi evolutivi lenti e graduali, che selezionano le forme di adattamento migliori. Sarà in grado l’umanità – che pure della natura fa parte – di usare questo strumento in modo non autodistruttivo?

Voto: 4,5/5



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Leftover women

In Cina oggi – anche per effetto della politica del figlio unico in vigore dal 1979 al 2016 - gli uomini sono 30 milioni di più delle donne. Il governo considera questa situazione una minaccia sociale e promuove, attraverso una pesante propaganda, quei comportamenti sociali che spingono donne e uomini a sposarsi e ad avere figli entro i 25 anni.

A fronte di questo vero e proprio diktat politico e sociale, si è creato un vero e proprio mercato degli incontri, fatto di agenzie specializzate, app specifiche, speed date, appuntamenti al buio. Esiste persino un “mercatino matrimoniale” organizzato dai genitori preoccupati per i loro figli che hanno superato la fatidica età e che sono dunque già potenzialmente fuori gioco.

Dentro questo quadro si inserisce certamente anche la problematica di ragazzi e ragazze omosessuali che, per rispetto delle regole sociali, devono comunque sposarsi e possibilmente fare dei figli. Cosicché esiste un mercato parallelo che consente a queste persone di incontrarsi ed eventualmente combinare matrimoni di facciata. A questo è dedicato il documentario Inside the chinese closet che avevo visto qualche anno fa.

Il documentario delle registe israeliane Shosh Shlam e Hilla Medalia si concentra invece sul punto di vista delle donne cinesi, costrette spesso a mettere da parte le loro ambizioni e i loro desideri pur di rispettare i dettami familiari e sociali. Se infatti la pressione viene esercitata anche nei confronti degli uomini, sono però le donne di solito a pagare il prezzo più alto e a subire il maggior biasimo, a partire dal fatto che vengono definite letteralmente “avanzi” (leftover in inglese).

Protagoniste della narrazione sono in questo caso tre donne molto diverse ma accomunate dal fatto di avere più di 25 anni e di essere single: si tratta di Qiu Hua Mei, che è un’avvocatessa di 34 anni la cui famiglia di origine vive in un paese della Cina rurale, Xu Min, una conduttrice radiofonica di 28 anni, e Gai Qi, una docente di cinema di 36 anni.

Le due registe del film sono state più volte in Cina per raccogliere le storie delle numerose donne che dopo aver conseguito elevati titoli di studio si trovano a dover fare i conti con la pressione sociale che le vuole sposate e con figli. Molte di queste donne non hanno voluto però essere riprese per paura e per non mettere in difficoltà le loro famiglie, cosicché le tre donne protagoniste del film, oltre che esemplari per le loro storie, dimostrano anche un grande coraggio.

Hau Mei è una donna molto indipendente, con un lavoro soddisfacente e una vita sociale intensa, non desidera sposarsi né avere figli, ma per non deludere e non mettere in difficoltà la sua famiglia non si sottrae alla ricerca di un uomo. Tale ricerca si rivela però frustrante e a tratti umiliante, e gli uomini che Hau Mei incontra – anche quelli culturalmente più elevati – sono il prodotto di una società fortemente maschilista che considera normale la minorità della donna. È proprio Hau Mei che dice la frase secondo me più bella del film, quando spiega che questa costrizione al matrimonio e a fare i figli non è molto diversa dalle fasciature dei piedi che le donne cinesi in passato dovevano subire; e aggiunge che forse ci sono donne che in queste calzature ci stanno anche a loro agio, ma a lei che vuole correre stanno irrimediabilmente strette. Hau Mei sceglierà di trasferirsi a studiare in Francia per uscire dal cul de sac in cui si trova nel suo Paese.

Xu Min è invece una ragazza più giovane e vuole incontrare un ragazzo con il quale sposarsi, ma tutti gli uomini che incontra devono passare per l’approvazione dei genitori, in particolare della madre, che sembra non essere d’accordo su nessuna delle scelte della figlia. Il futuro di Xu Min non potrà che passare da un confronto aspro con la madre e da una ribellione per poter affermare la propria personalità e le proprie decisioni.

Infine, Gai Qi sceglie – anche grazie all’incontro con un uomo disponibile a delle scelte parzialmente condivise – la strada del compromesso. Dunque si sposa e ha una bambina, ma d’accordo col marito si trasferisce a Canton per ricominciare a lavorare e insegnare in Università. Il marito di Gai Qi, più giovane di lei, ha già dimostrato in questa scelta di saper andare parzialmente controcorrente rispetto ai desiderata della famiglia e della società, e dunque Gai Qi ha individuato in lui la possibilità di conciliare per quanto possibile le sue ambizioni lavorative con un percorso familiare.

Alla fine del film non posso fare a meno di chiedermi quanto potranno resistere questi delicati equilibri della società cinese di fronte all’impatto non solo e non tanto del progresso, quanto della crescente consapevolezza dei suoi cittadini, anche a fronte di livelli di istruzione più elevati. D’altra parte, quello che continua a impressionarmi – ogni volta che leggo, guardo o ascolto qualcosa che parla della società cinese – è il rapporto che il popolo cinese ha con i propri governanti, un rapporto fatto di fiducia e di obbedienza quasi cieca, frutto di una storia di forte paternalismo governativo. Anche questo però prima o poi è destinato a cambiare.

Voto: 3,5/5



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XY Chelsea

@xychelsea è il nickname che Chelsea Manning utilizza per il suo account Twitter e che il regista Tim Travers Hawkins ha scelto come titolo di questo documentario per suggerire agli spettatori la sua intenzione di proporre un ritratto di Chelsea Manning a metà strada tra il pubblico e il privato.

Il racconto prende le mosse dal maggio del 2017, quando il Presidente uscente Barack Obama decise di commutare la pena a 35 anni di prigione di Chelsea Manning, consentendole di uscire dal carcere dopo 7 anni e 4 mesi.

Durante il periodo di carcerazione, Chelsea, nata Bradley, ha vinto la causa per poter iniziare il percorso di transizione dal genere maschile a quello femminile pur essendo in prigione, ma nonostante questo è rimasta per l'intero periodo nelle carceri maschili.

La telecamera di Travers Hawkins sceglie di stare molto addosso alla sua protagonista, al punto tale che il viso di Chelsea va continuamente fuori fuoco fino a quando la telecamera non rimette a fuoco il dettaglio. Si tratta sicuramente di un modo di comunicare allo spettatore la difficoltà nel definire i contorni precisi di un personaggio complesso e controverso come è Chelsea, per alcuni un'eroina, per altri una traditrice della patria, sicuramente una persona di grande coraggio, ma anche di altrettanto grande fragilità e forse anche ingenuità.

Il documentario si concentra in particolare sull'anno che è seguito alla scarcerazione di Manning, fino ad arrivare alla sua campagna elettorale per la candidatura al Senato e infine al rifiuto di testimoniare contro Julian Assange, dopo l'arresto di questi a Londra nell'aprile del 2019, rifiuto che le è costato una nuova incarcerazione.

Seguendo Chelsea in questo anno di ricostruzione della propria vita e dei propri legami, nonché di ricerca di una propria collocazione nel mondo (non dimentichiamoci che oggi Chelsea ha 31 anni, e ai tempi dell'accusa ne aveva solo 21), non mancano i riferimenti alla sua storia personale: le sue origini in una famiglia povera dell'Oklahoma, la separazione dei genitori, il periodo vissuto in Galles, il non essere a suo agio con sé stesso e la decisione di arruolarsi nell'esercito. Da qui in poi la storia è nota: Bradley lavora in Iraq per l'intelligence e ha accesso a migliaia di documenti e video riservati di fronte ai quali non può rimanere indifferente, cosicché decide di caricarli su WikiLeaks. A seguito della denuncia di un hacker, Adrian Lamo, Bradley viene incarcerato prima in Kuwait e poi in una prigione militare della Virginia.

Chi è Manning è difficile dirlo e il documentario non scioglie tutti i nodi. Forse - come più volte emerge dalle sue parole - non lo sa neppure lei stessa, non avendo avuto fin qui una vita come quella di tutti gli altri e, nello stesso tempo, avendo già fatto più esperienze di quelle che normalmente si sperimentano in una vita intera. Sicuramente si tratta di una persona con grandi fragilità (non nasconde di essere sotto terapia, dopo aver tentato più volte il suicidio), ma al contempo ha un forte senso della giustizia e una ancora più forte aspirazione alla verità, costi quel che costi. Chelsea dimostra a suo modo - e non senza cadute - una resilienza e una capacità di recupero notevoli nell'ambito di una battaglia non sempre lineare e certamente controversa, soprattutto per le modalità in cui è combattuta, ma certamente centrale nella nostra società.

Voto: 3,5/5

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