mercoledì 30 ottobre 2019

Beyond the horizon. Deux. Nomad. Festa del cinema di Roma, 17-27 ottobre 2019

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Le milieu de l'horizon = Beyond the horizon

È l'estate del 1976 e Gus (Luc Bruchez), che ha 13 anni, è in vacanza dalla scuola, cosicché passa le sue giornate scorazzando con la sua bicicletta e aiutando suo padre Jean e suo cugino Rudy nella gestione della fattoria di famiglia. A casa, sua madre Nicole (la misurata ma espressiva Laetitia Casta) - a cui Gus è molto legato e con cui ha un rapporto molto affettuoso - prepara da mangiare, lava, stira e si occupa della casa, mentre sua sorella maggiore si esercita al violino per il concerto che si terrà entro l'estate.

Per la fattoria è un momento difficile: la siccità e il caldo stanno rovinando il raccolto e uccidendo gli animali, cosicché la famiglia si trova anche a fronteggiare delle difficoltà economiche.

Il clima familiare diventa ancora più teso quando Nicole comincia a frequentare Cécile (Clémence Poésy), una donna separata e molto indipendente, grazie alla quale Nicole scopre una parte di sé che non conosceva e intravede la possibilità di una vita diversa, che la spinge alfine a una decisione dolorosa ma coraggiosa.

Nel film della giovane Delphine Lehericey il punto di vista è però quello di Gus, per il quale l'estate del '76 sarà quella del coming of age e del passaggio alla vita adulta. Durante questa estate, il ragazzino vedrà l'impresa del padre andare in malora e la madre abbandonare il tetto familiare, mentre l'amicizia con Mado si trasformerà lentamente in qualcosa di più. Gus dovrà fare i conti con sentimenti ambivalenti ed emozioni contrastanti e sarà chiamato ad andare al di là delle sue aspettative rispetto ai comportamenti degli altri, in particolare dei suoi genitori, per comprenderne i punti di vista e accettarne le scelte, senza che queste intacchino l'amore tra genitori e figli.

La Lehericey, pur trattando di uno dei topoi più classici della narrazione relativa all'adolescenza, costruisce una storia a suo modo originale e coraggiosa, in cui spicca il modo anticonvenzionale in cui è tratteggiata la figura della madre: una donna che ama la propria famiglia e i propri figli, ma che si assume la responsabilità di una scelta controversa e rischiosa, non accettando la logica del sacrificio a tutti i costi e credendo nell'intelligenza emotiva dei suoi figli e nella loro capacità di comprendere.

Pur con qualche lentezza, il film è ben costruito ed è in grado di trasmettere anche a un pubblico adulto le emozioni e gli stati d'animo di un tredicenne, soprattutto grazie alla bravura del giovanissimo Luc Bruchez e alla sua faccia antica.

Voto: 3,5/5



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Deux = The two of us

Nina (Barbara Sukowa) e Mado (Martine Chevallier) sono due donne mature il cui rapporto d'amore dura ormai da più di vent'anni, ma esiste solo dentro le mura di casa, visto che per tutti - compresi i figli di Mado - le due sono soltanto vicine di casa e amiche.

Nina spinge perché Mado riveli la verità ai suoi figli, anche perché le due donne hanno in progetto di vendere le loro case e di trasferirsi altrove per trascorrere insieme la loro vecchiaia. Nel frattempo hanno a breve la prospettiva di un viaggio a Roma, la città dove si sono conosciute molti anni prima.

Mado, però, quando si trova di fronte ai figli non riesce a trovare il coraggio di parlare, terrorizzata dalle possibili reazioni di Anne e Frédéric, quest'ultimo in particolare molto critico nei confronti della madre e ancora legato al ricordo del padre.

Quando Mado viene colpita da un ictus e perde la parola, si crea dunque una situazione surreale, nella quale i figli della donna, in particolare Anne, si trovano nella posizione di decidere per la madre, mentre Nina è completamente tagliata fuori dalla vita della donna che ha amato per buona parte della sua vita.

Nina tenterà tutte le strade - lecite e meno lecite - per riavvicinarsi a Mado, ma si troverà di fronte il muro insormontabile della non accettazione dei figli, nello specifico di Anne che prima nega l'evidenza e poi allontana volontariamente le due donne.

Il film di Filippo Meneghetti affronta il racconto dei tentativi di riavvicinamento delle due donne quasi come fosse un thriller dall'esito niente affatto scontato, sebbene non manchino i momenti di leggerezza e di profonda tenerezza.

Dentro questa confezione si muovono temi importanti: non solo e non tanto la non accettazione dell'amore tra due donne e la loro difficoltà a esporsi al giudizio degli altri, ma anche e soprattutto la dinamica delle relazioni familiari e in particolare del rapporto genitori-figli, con tutto il portato di non detto che si porta dietro e che negli anni si amplifica diventando una montagna insormontabile. All'interno di questo tema si annida anche uno sguardo quanto meno critico sull'idea - tanto radicata nel nostro modello di famiglia - che, come fino a un certo punto i genitori sanno meglio di chiunque altro cosa è meglio per i figli, così da un certo punto in poi siano i figli i depositari del benessere e della volontà dei genitori.

Questi legami di sangue, che - mi vado convincendo - sono la più potente delle costruzioni sociali, proprio per questo motivo sono il principale ricettacolo di tutte le storture emotive e convogliano disfunzionalità di grado più o meno elevato a seconda dei casi. Del resto, in questo tipo di legami presupponiamo che il sangue ci garantisca di avere automaticamente tutte le risposte e ci suggerisca sempre il comportamento migliore, caricandoci di aspettative reciproche e oscurando l'umiltà e il rispetto necessari in qualunque rapporto.

Il film di Meneghetti - pur forse volutamente non risolto in alcune sue componenti - è dunque una interessante occasione di riflessione, costruita con sguardo aperto e al contempo attento.

Voto: 4/5



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Nomad. In the footsteps of Bruce Chatwin

L'ultimo film del mio personale percorso alla Festa del cinema di Roma di quest'anno è sicuramente per me il più difficile e infatti eviterò di esprimere un voto. La scelta di andare a vederlo è stata soprattutto una sfida con me stessa, frutto del desiderio di non sottrarmi alla cinematografia di quello che è considerato quasi unanimemente un grande maestro, Werner Herzog.

Il documentario che Herzog ci propone prende spunto dal 30° anniversario della morte di Bruce Chatwin, scrittore ed esploratore britannico morto di AIDS nel 1989, nonché amico di Herzog. Esso si articola in capitoli che non seguono un ordine cronologico, bensì emotivo, inseguendo suggestioni che si rincorrono tra un capitolo e l'altro.

Il fil rouge sono gli scritti dello stesso Chatwin: si parte dalla lettura di un brano in cui l'esploratore parla di un lembo di pelle di brontosauro ch'egli aveva trovato a casa della nonna e che aveva scoperto essere stato riportato in Europa dalla Patagonia da un antenato. Da qui la curiosità che lo spinse a mettersi sulle tracce di quello che si rivelò essere un bradipo gigante, un animale estinto da tempo immemore. Da qui in poi si seguono i percorsi di scoperta e conoscenza che portarono Chatwin nei luoghi più remoti del mondo, accompagnato dallo zaino in pelle poi lasciato in eredità proprio a Herzog.

Il documentario termina - e come poteva essere diversamente? - su uno dei più significativi punti di incontro "artistici" tra i due uomini, il film di Herzog Cobra Verde, tratto dal romanzo di Chatwin Il vicerè di Ouidah e interpretato da Klaus Kinski.

Tra questi due momenti si susseguono interviste, testimonianze, letture, visite ai luoghi di Chatwin e tutto quanto viene suggerito dalle suggestioni dello scrittore, cui Herzog riserva un omaggio fortemente emozionale e forse per questo un po' autoreferenziale.

Se devo essere sincera, dopo aver fatto questo tentativo, non posso che confermare che questo è un tipo di cinema che non è nelle mie corde e che - forse anche solo per ignoranza (oggettivamente mi mancano molti dei riferimenti che in esso sono contenuti) - non riesco ad apprezzare né a farmene conquistare.



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Per le recensioni degli altri film che ho visto quest'anno, vedi qui e qui.

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lunedì 28 ottobre 2019

The farewell. La belle époque. Honey boy. Festa del cinema di Roma, 17-27 ottobre 2019

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The farewell - Una bugia buona

Non so se è una mia impressione, oppure se è il frutto della particolare selezione di film che ho fatto, ma vedo nella Festa del cinema di Roma di quest'anno una forte presenza di film la cui ispirazione è di tipo autobiografico. Così è anche nel caso di The farewell, il film della regista cino-americana Lulu Wang, che racconta un ricongiungimento familiare nella terra di origine di una famiglia dispersa per motivi lavorativi.

Quando la famiglia di Nai Nai scopre che questa ha un cancro ai polmoni al quarto stadio, i suoi figli e le rispettive famiglie (che vivono una negli Stati Uniti e una in Giappone) decidono di non dirle niente per farle vivere serenamente gli ultimi mesi di vita, ma anticipano i tempi del matrimonio del nipote trapiantato con la famiglia in Giappone per poter tornare in Cina ad abbracciarla per l'ultima volta e a salutarla.

L'unica inizialmente contraria a questa messa in scena è Billi (Awkwafina), che si è trasferita con i genitori negli Stati Uniti quando aveva 6 anni ed è ormai più americana che cinese, e dunque è convinta che sia un diritto della nonna poter sapere delle proprie condizioni ed essere padrona della propria esistenza.

Quando tutta la famiglia si ritrova a Shanghai, dove la nonna vive in uno dei tanti grattacieli-alveari di cui è sempre più costellata la città, si innescano una serie di dinamiche che tutti coloro che hanno lasciato il loro luogo di origine e vivono ormai da molti anni lontano dalla famiglia (foss'anche a qualche centinaio di chilometri) conoscono molto bene. Si tratta di dinamiche che oscillano tra il drammatico e l'esilarante, perché nascono dalla difficoltà di chi è andato via di riconoscersi ancora e talvolta persino di comprendere le logiche di chi è rimasto.

Dentro una cornice che non può che essere dolorosa e melodrammatica - negli occhi di tutti si legge il dolore e lo sbigottimento per una persona cara che forse vediamo per l'ultima volta - la regista riesce a iniettare dosi massicce di ironia capaci di creare situazioni in cui non si sa bene se ridere o piangere.

In questo percorso si realizza non solo un viaggio di conoscenza e di scoperta della cultura cinese (nella quale - come dice lo zio di Billi - la vita non è del singolo ma appartiene a insiemi più grandi che sono la famiglia e la società), ma anche un confronto-scontro tra il mondo occidentale e quello orientale, nel quale - come comprenderà Billi - non si può ragionare secondo le categorie del meglio e peggio, perché ogni cultura merita rispetto e ha qualcosa da insegnarci sulla base della sua storia e delle sue tradizioni.

Tra sessioni di preparazione di prelibatezze, pranzi di famiglia, preparativi e feste un po' kitsch, Billi imparerà che non solo non ci affranchiamo mai completamente dalle nostre origini, ma che anzi è importante recuperare quanto ha valore e merita di essere preservato.

Sullo sfondo, una città di 24 milioni di abitanti che non smette di costruire nuovi quartieri-dormitorio e che - al di là della sua immagine internazionale glamour - rappresenta in fondo il tradimento che la stessa Cina sta attuando contro sé stessa e la propria cultura, cancellando a suon di denaro e in nome del progresso anche quanto di positivo e di buono esisteva nel suo passato povero.

La sorpresa finale sui titoli di coda - che non svelerò per non rovinarla - offrirà l'occasione di una definitiva risata liberatoria che in fondo riconcilierà Oriente e Occidente.

Voto: 3,5/5




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La belle époque

Quella de La belle époque è la serata più glamour di questa edizione della Festa a cui io abbia partecipato. In sala ci sono il regista, Nicolas Bedos, e una delle interpreti, Fanny Ardant, e nel pubblico molti personaggi del jet set romano, di cui io riconosco solo alcuni.

Alla fine della proiezione il pubblico prorompe in un fragoroso applauso, offrendo il giusto omaggio agli ospiti in sala ma anche dimostrando di aver gradito molto la pellicola.

Effettivamente il film di Bedos offre uno spettacolo cinematografico di ottimo livello, grazie ad attori molto bravi (nel cast oltre all'Ardant ci sono anche Daniel Auteuil, Guillaume Canet, Pierre Arditi, Denis Podalydès), una sceneggiatura al fulmicotone in cui lo spettatore non si annoia nemmeno per un secondo, e una confezione molto accurata.

La storia è presto detta: Victor (Daniel Auteuil) e Marianne (Fanny Ardant) sono sposati da molti anni, ma ormai sempre più litigiosi e incompatibili. Victor, un fumettista ormai in declino, non si trova a suo agio nel presente e vive costantemente nella nostalgia del passato; Marianne, una psicologa sempre al passo coi tempi, non accetta la vecchiaia e fa di tutto per continuare a sentirsi giovane. I due inevitabilmente si lasciano, e Marianne si rifugia tra le braccia del suo amante, più giovane di suo marito.

A Victor invece suo figlio, un creatore e produttore di serie di successo per le piattaforme Internet, regala un buono per un "viaggio nel tempo" grazie all'attività gestita da Antoine (Guillaume Canet), uno sceneggiatore e regista che ricostruisce set di epoche passate e situazioni personali o collettive su richiesta e lauto pagamento dei suoi clienti. Victor sceglie di tornare al 1974, esattamente al momento in cui ha conosciuto Marianne in un caffè che frequentava all'epoca. Nella finzione Marianne è interpretata da Margot (Doria Tillier) che è la compagna con cui Antoine ha un rapporto molto burrascoso.

Victor resta affascinato da Margot come a suo tempo lo era stato da Marianne, e - pur consapevole della finzione - trova in questo incontro nuova ispirazione e nuovi stimoli per ricominciare a disegnare e per amare la propria vita.

In una carambola di situazioni in cui realtà e messa in scena si inseguono fino a diventare indistinguibili, il lieto fine - seppure in parte malinconico - è dietro l'angolo a rasserenare gli animi degli spettatori.

Un film che si lascia guardare molto gradevolmente e che dimostra un certo qual virtuosismo, oltre a un'elevata dose di ironia francese nella sua migliore forma, ma che personalmente non mi ha detto moltissimo, se non che i francesi mi sembra stiano vivendo una fase fortemente nostalgica verso il passato (cosa tra l'altro che non mi trova del tutto in disaccordo), fino ai limiti di una forma di conservatorismo se non reazionarietà nei confronti delle storture che in modo particolare la tecnologia ha determinato rispetto alle vite delle persone (mi è venuto in mente un altro film con Guillame Canet, Il gioco delle coppie, di Olivier Assayas, ma gli esempi potrebbero essere numerosi).

Gli attori - pure tutti molto bravi - mi pare che si limitino a riprodurre i loro personaggi migliori, quasi ormai incapaci di affrancarsi da una certa immagine di loro che ormai il cinema ha convogliato.

Voto: 3/5




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Honey boy

Honey boy è il film che - con l'aiuto della regista Alma Har'el - Shia LaBeouf ha dedicato alla ricostruzione della propria infanzia e del rapporto con suo padre. Otis (interpretato da adulto da Lucas Hedges) fa l'attore e lo stuntman per il cinema, ma ha grossi problemi di dipendenza e disturbi psicologici che lo portano spesso in riabilitazione.

È durante uno di questi periodi che la terapista chiede a Otis di scrivere un diario per raccontare della sua infanzia e di suo padre. Da qui l'inizio dei flashback in cui il protagonista rievoca la propria infanzia: Otis ha 12 anni (e a quest'età è interpretato dal bravissimo e misuratissimo Noah Jupe) e vive con il padre James (interpretato dallo stesso LaBeouf) in un monolocale che forse sarebbe meglio chiamare baracca, i cui vicini sono degli sbandati e delle prostitute.

I genitori sono separati: James, che si presenta quasi come una versione devastata e dei bassifondi di David Foster-Wallace, è un clown ed ex-artista di strada fallito, alcolista e dedito al consumo di droghe, totalmente incapace non solo di prendersi cura di un figlio, ma anche di svolgere il ruolo di padre; la madre vive con un altro compagno e fa una vita normale, ma ha un rapporto burrascoso con l'ex marito in quanto - come scopriamo a un certo punto - ha dovuto lanciarsi da un'auto in corsa per non essere stuprata da lui. Non è chiaro perché Otis viva con il padre e non con la madre; in ogni caso, il ragazzo è già molto ben inserito nell'ambiente hollywoodiano ed è il protagonista di una serie televisiva nella quale dimostra di avere molto talento recitativo. Padre e figlio vivono con i soldi che guadagna quest'ultimo, ma il problema non è solo economico, bensì soprattutto affettivo.

Otis ama suo padre ed è sempre pronto a recuperare il rapporto con lui e a perdonargli tutto, ma soffre della mancanza di quell'amore e di quella protezione che è normale aspettarsi dalla figura paterna. Tra allontanamenti e riavvicinamenti, momenti di quasi tenerezza e di inaudita violenza, soprattutto psicologica, Otis si ritroverà da adulto con un disturbo da stress post-traumatico per il quale è in riabilitazione e sta scrivendo il diario del rapporto con suo padre.

E in fondo anche questo film - in cui Shia LaBoeuf interpreta proprio suo padre - non è altro che una tappa del percorso terapeutico che l'attore utilizza per superare il rancore, riconciliarsi con il padre e voltare pagina per guardare avanti nella propria esistenza.

Non v'è dubbio sul fatto che al cinema ne abbiamo visti parecchi di rapporti patologici tra padri e figli e di film che vengono girati quasi a scopo catartico e questo non fa eccezione, e da questo punto di vista non presenta una particolare originalità. Però - anche grazie alla splendida interpretazione di Noah Jupe e ad alcune trovate registiche e narrative molto azzeccate (penso a tutte le occasioni in cui nella vita di Otis si sovrappongono la finzione e la realtà, al rapporto complesso e onnipresente tra sincerità e recitazione, che non riguarda solo lui ma anche la vita e il modo di essere di suo padre) - il film è in grado di sollevarsi sopra la media e di colpire al cuore lo spettatore.

Voto: 3,5/5



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Per le recensioni degli altri film che ho visto quest'anno, vedi qui e qui.

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sabato 26 ottobre 2019

Ragazzi di vita / regia di Massimo Popolizio. Teatro Argentina, 16 ottobre 2019

Il successo di questo spettacolo, riportato in scena al Teatro Argentina dopo essere già stato in cartellone nel 2017-2018, ha convinto me e F. ad andare a vederlo.

Si tratta della trasposizione teatrale del primo romanzo di Pier Paolo Pasolini, quello in cui lo scrittore, appena trasferitosi a Roma (siamo negli anni Quaranta), racconta con sguardo da intellettuale, ma in fondo anche da antropologo, l'umanità delle borgate, in particolare dei ragazzi che le abitano.

Moltissimi anni fa avevo iniziato a leggere Ragazzi di vita, ma non sono nemmeno sicura di averlo finito. Serbavo però questo ricordo di un romanzo che, dietro la narrazione di questa romanità sguaiata e senza pudori, mostrava un'umanità dolente e derelitta, che agli occhi dello scrittore risultava profondamente vera, ma altrettanto profondamente disgraziata.

Ora, può darsi che io ricordi male, ma nella messa in scena di Popolizio non ho trovato praticamente nulla di tutto ciò. Non metto in dubbio lo sforzo della trasposizione del romanzo in una modalità fruibile a teatro e riconosco le capacità del regista di escogitare soluzioni narrative (vedi la narrazione in terza persona con cui si porta sulla bocca dei protagonisti il testo di Pasolini) e sceniche (con un allestimento tutto sommato piuttosto semplice e spartano - in cui tra l'altro si sceglie di mostrare il palco fino al cemento della parete di fondo - si riescono a evocare situazioni e contesti molto diversi e più o meno complessi).

Il compito di dare volto all'alter ego dello stesso Pasolini è affidato a Lino Guanciale, che fa da narratore-spettatore, ma talvolta viene anche coinvolto nell'azione sul palcoscenico. Il suo modo di proporsi al pubblico nel momento in cui compare sul palcoscenico dà subito agli spettatori la cifra dello spettacolo; la recitazione di Guanciale è infatti fin da subito enfatica e sopra le righe, a tratti quasi urlata.

Sarà poi questa la caratterizzazione di quasi tutti gli altri personaggi, dai principali come Riccetto, Agnolo, Begalone, Alvaro, il Caciotta, Amerigo, a quelli secondari e senza nomi, ma non certo meno determinanti per rappresentare il mondo variegato delle borgate romane.

Tutti ostentano una romanità sguaiata e sopra le righe, imitando mimeticamente non solo la parlata romanesca bensì anche la rasposità tipica del romano verace, mentre la narrazione procede per episodi, spesso arricchiti dalle canzoni di Claudio Villa cantate dal vivo dagli stessi protagonisti. L'episodio del combattimento dei cani viene chiosato - un po' didascalicamente - dalla poesia Er cane di Giuseppe Gioacchino Belli, mentre il glossario italiano-romanesco presente nel romanzo viene affidato, in un intermezzo, al dialogo tra due donne delle pulizie, una delle quali è italiana e interroga l'altra, slava, sulle espressioni romanesche.

La messa in scena di Popolizio sembra collocarsi a metà strada tra un musical e il teatro di avanspettacolo, togliendo pathos anche ai momenti più drammatici della narrazione, e trasformando lo sguardo affettuoso e commosso di Pasolini in una giostra la cui carica a molla è stata girata fino in fondo.

A me addirittura - ma questo è sicuramente molto soggettivo - è risultato a tratti noioso, per la monotonia dello stile narrativo che sembra avere pochissime sfumature.

Dentro questo stile voluto dal regista, gli attori sono tutti molto bravi, ma la scelta di fondo fa sì che persino un personaggio profondamente dolente, come il fusajaro del cinema Borgia, risulti più simile a un personaggio alla Montesano che a un povero disgraziato capace però ancora di sognare.

Del resto a Popolizio piace molto - anche quando recita - questo teatro caricato, e non v'è dubbio che questo stile faccia presa e abbia riscontri. Quindi può essere che quella strana e che non capisce sia io.

Voto: 2,5/5

mercoledì 23 ottobre 2019

Motherless Brooklyn. Antigone. 1982. Festa del cinema di Roma, 17-27 ottobre 2019

Ed eccomi al tanto atteso (almeno per me!) appuntamento con la Festa del cinema di Roma, 14° edizione. Mi rendo conto che non si tratta di un vero festival (non c'è nemmeno una giuria) e che, rispetto agli appuntamenti più blasonati e con maggiore tradizione, stiamo parlando di una kermesse decisamente di secondo livello per selezione dei film e organizzazione. Però, questo festival abbiamo a Roma e io cerco di godermelo al massimo grado per quanto possibile.

Quest'anno il mio programma è stato davvero battagliero, e credo di essere riuscita a vedere molti più film che negli anni passati (pubblico qui le prime tre recensioni e le prossime in successivi post), nonostante il fatto che le mie sortite alla Festa si siano concentrate in meno di una settimana. Mi spiace solo aver visto pochi film della rassegna Alice nella città, quella che propone film con protagonisti bambini, adolescenti e giovani e che spesso riserva belle sorprese, ma gli orari nei giorni in cui potevo andare erano praticamente impossibili.

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Motherless Brooklyn - I segreti di una città

Il primo film che vado a vedere - che è poi anche il film di apertura della Festa - è Motherless Brooklyn, di e con Edward Norton, che tra l'altro è stato protagonista anche del primo degli "Incontri ravvicinati".

Il film è tratto dall'omonimo romanzo di Jonathan Lethem che Norton - oltre che girare e interpretare - ha adattato per il grande schermo. È una classica detective story che il regista, discostandosi in questo caso dal romanzo, ha deciso di ambientare nella New York degli anni Cinquanta, in pieno boom edilizio dopo la fine della guerra, ma attraversata da forti tensioni razziali, e non solo.

Il protagonista è Lionel Essrog, un detective privato che lavora per Frank Musso (Bruce Willis), il quale non è solo il suo capo ma anche - dopo averlo tirato fuori dall'istituto di suore dove viveva in quanto orfano - il suo mentore e il suo unico amico. Lionel è affetto dalla sindrome di Tourette: come dice lui stesso nel film, è come avere un anarchico incontrollabile che governa una parte del tuo cervello, e per di più questo anarchico ha l'ossessione per l'ordine. Lionel - che Frank chiama Motherless Brooklyn - è pieno di tic e allergico alle relazioni sociali, nelle quali la sua sindrome crea situazioni imbarazzanti, ma ha anche un dono particolare nel ricordare le cose e dunque è molto bravo a ricostruire frammenti di vicende come fossero puzzle.

Quando, durante un'operazione che sta seguendo, Frank viene ucciso, Lionel - anche in preda al senso di colpa per non averlo saputo salvare - decide di scoprire chi lo ha ucciso e perché. A poco a poco scoprirà che l'indagine di Frank riguardava un potente uomo politico di New York, Moses Randolph (Alec Baldwin), da molti anni sulla scena politica e protagonista delle grandi trasformazioni che stanno cambiando il volto della città, e una giovane donna di colore, Laura (Gugu Mbatha-Raw), che è coinvolta nelle proteste dei neri della città contro le espropriazioni e per la difesa dei loro quartieri.

Non sarebbe giusto rivelare di più della trama del film che si sviluppa come una classica indagine investigativa, probabilmente con qualche lungaggine che avrebbe dovuto essere gestita meglio a livello di sceneggiatura, ma impreziosito dalla rappresentazione di quelle realtà sotterranee della città nelle quali in quegli anni si esibivano quelli che sarebbero diventati i grandi nomi del jazz internazionale. Nel film di Norton del resto la musica ha un ruolo centrale e molta cura è stata posta sull'intera colonna sonora, che è stata affidata al compositore Daniel Pemberton e nella quale, oltre alle sonorità jazz, trova posto un brano inedito di Thom Yorke, Daily battles.

Il film si lascia vedere volentieri e tiene alta l'attenzione dello spettatore, pur non potendo esibire nessun elemento di particolare originalità, a parte la curiosa sindrome del protagonista che strappa qualche sorriso qua e là, con i suoi giochi di parole pressoché intraducibili.

L'aspetto che personalmente ho trovato più interessante è la riflessione sullo sviluppo della città di New York e in generale sulla tensione tra la spinta - spesso anche mossa da secondi fini e intenzioni non esattamente lodevoli - verso il progresso e l'innovazione e la necessità di rispettare gli individui e preservare l'esistente. Il discorso che Moses Randolph fa a Lionel quando tenta di portarlo dalla sua parte e in cui porta l'esempio della realizzazione di Central Park è per me uno dei momenti più interessanti e densi di riflessione di un film che per il resto scivola via gradevole ma senza lasciare grosse tracce.

Voto: 3/5



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Antigone

Il film della giovane regista canadese di lingua francese Sophie Deraspe è un coraggioso tentativo di trasporre la storia di Antigone, la figlia di Edipo protagonista della tragedia di Sofocle, ai giorni nostri e di farne una specie di manifesto politico-sociale.

Antigone Hippoméne (Nahéma Ricci) si è trasferita parecchi anni prima dal Libano in Québec insieme alla nonna Meni e ai tre fratelli Etéocle, Polynice e Ismene, a seguito dell'uccisione in frangenti non meglio precisati dei due genitori.

Mentre i fratelli Etéocle e Polynice frequentano giri non proprio raccomandabili e la sorella Ismene lavora in un istituto di bellezza, Antigone è molto integrata nella società canadese e molto brava a scuola. Un giorno, durante una retata della polizia in cui viene arrestato Polynice, Etéocle viene ucciso dalla pallottola di un poliziotto.

A questo punto Antigone decide di attuare un piano per salvare suo fratello dalla galera: con l'aiuto della nonna effettua uno scambio di persona che consente a Polynice di fuggire auspicabilmente negli Stati Uniti, mentre Antigone dovrà affrontare il processo.

Durante la lunga causa che la vede protagonista, Antigone è sostenuta da Hémon, il ragazzo che ama e da cui è ricambiata, figlio di un importante politico locale.

Di fronte alla scoperta dell'affiliazione dei suoi fratelli alla gang degli Habibi e alla prospettiva di perdere qualunque futuro per sé, Antigone continuerà a scegliere la fedeltà all'affetto fraterno e il cuore rispetto al calcolo della ragione, ribellandosi a una giustizia ch'ella considera ingiusta.

Rapidamente Antigone diventa - anche grazie al ruolo attivo di Hémon e alla scelta del suo avvocato d'ufficio di trasformare il suo caso in un evento mediatico - un simbolo della protesta dei deboli e degli emarginati delle periferie contro il potere della legge e dei più forti, nonché della vittoria della passione contro la fredda legge degli uomini. Il coro di questa Antigone sono i social, dove le frasi da lei pronunciate diventano slogan di Twitter e Facebook, la sua immagine viene trasformata in icona per le stories, e la sua vicenda si trasforma in video rap su YouTube.

L'effetto complessivo è a mio avviso piuttosto straniante e lo spettatore - forse inevitabilmente - fa fatica a immedesimarsi in un personaggio oggettivamente fuori dal tempo per le sue posizioni inscalfibili. Nonostante la bravura di Nahéma Ricci, il suo personaggio risulta alla fine poco empatico e a noi umanità post-moderna questa lettura, sì libera nello sviluppo narrativo, ma fedele allo spirito se vogliamo monolitico della protagonista della tragedia sofoclea, appare un po' rigida e poco credibile, soprattutto quando si mescola con questo prepotente affacciarsi dei temi e degli stilemi della contemporaneità.

Voto: 2,5/5



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1982

Il film di Oualid Mouaness affonda fortemente le radici nell'autobiografia del regista, che nel 1982 aveva 11 anni come il protagonista del film e, insieme ai suoi compagni, fu fatto evacuare dalla scuola inglese che frequentava nella zona Est di Beirut a seguito dell'inizio della prima guerra del Libano.

Il film sceglie una quasi perfetta unità di tempo e di luogo, raccontando una giornata solo apparentemente normale nella vita dei suoi protagonisti.

Sono gli ultimissimi giorni di scuola e, durante la giornata, sono previsti gli esami per i bambini delle ultime classi. Wissam (magnificamente interpretato da Mohamad Dalli) è bravo a scuola e ha un talento particolare per il disegno; è molto amico dell'occhialuto Majid e innamorato della sua compagna di classe Joanna, cui vorrebbe dichiarare il suo amore prima che cominci l'estate.

L'insegnante Yasmine (Nadine Labaki) viene accompagnata a scuola dal fratello ed è preoccupata perché quest'ultimo ha deciso di arruolarsi nella milizia libanese. A scuola ha un diverbio con Joseph, un altro insegnante e suo fidanzato, per la difficoltà di condividere le relative posizioni politiche.

Mentre la giornata scolastica comincia apparentemente in modo normale, fin da subito è evidente che una tensione attraversa le vite di tutti. Wissam osserva la presenza dei piccioni sui davanzali della scuola e si chiede da quand'è che ci sono. Joseph ha l'orecchio continuamente attaccato a una radiolina per ascoltare le ultime notizie sull'invasione israeliana. Yasmine riceve alcune telefonate da casa, dove suo padre non sta bene e tutti sono preoccupati per suo fratello.

Mentre da lontano cominciano a sentirsi i boati dei bombardamenti e a poco a poco i segnali dell'inizio della guerra si fanno sempre più evidenti (i caccia militari attraversano il cielo e in mare all'orizzonte si vedono le navi da guerra), la giornata scolastica va avanti e, mentre gli insegnanti, la segretaria della scuola e il preside sono sempre più preoccupati perché consapevoli di quello che sta accadendo, i bambini e i ragazzi sono presi dalle loro attività usuali, come giocare a biglie e disegnare, e dalla gestione delle dinamiche relazionali, tra litigi, avvicinamenti, pettegolezzi e confidenze.

Wissam ancora non è riuscito a dichiararsi a Joanna quando i bombardamenti si fanno sempre più vicini e la scuola viene evacuata: alcuni bambini vengono portati via dei genitori, altri vengono caricati nei pulmini che li riporteranno a casa, altri ancora restano a scuola in attesa che qualcuno delle famiglie si faccia vivo.

Sul tema della prima guerra del Libano e dell'atmosfera nel paese immediatamente precedente e successiva alla conclusione del conflitto ho ormai visto e letto diverse cose (ricordo in particolare di recente Jeedar El-Sot e prima L'insulto, ma non va dimenticato nemmeno Valzer con Bashir) e il film di Mouaness mi offre un ulteriore punto di vista, anzi più d'uno. Lo scoppio della guerra qui è guardato non solo con gli occhi dei bambini, ma anche di bambini se vogliamo privilegiati, provenienti da famiglie benestanti e che non a caso frequentano una scuola internazionale. Se da un lato la loro condizione non li sottrae ai pericoli del conflitto, dall'altro nel loro sguardo si mescolano la paura che li accomuna ai grandi, ma anche l'ingenuità e la fantasia risolutrice che li caratterizza.

Le due scene finali del film - quella di Wissam e Joanna che guardano dall'alto Beirut sotto i bombardamenti mentre dal mare arriva Tigron, il grande robot che Wissam disegna così bene, a salvare l'umanità, e quella della classe vuota con i banchi in disordine e le sedie rovesciate mentre ormai i piccioni hanno preso possesso degli ambienti - sono in un certo senso la sintesi dei complessi e contraddittori stati d'animo che si mescolano nel film e che una volta di più contribuiscono a mostrare l'assurdità della guerra e la resilienza della normalità.

Voto: 4/5





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Per le recensioni degli altri film che ho visto quest'anno, vedi qui e qui.


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lunedì 21 ottobre 2019

I documentari dell’Internazionale: Human nature; Leftover women; XY Chelsea

Uno dei classici appuntamenti autunnali romani è la rassegna dei documentari di Internazionale a Roma, manifestazione giunta ormai alla 10a edizione. Quando posso, cerco di non perdere questa opportunità visto che già in passato ho avuto modo di appurare che la selezione di documentari dell’Internazionale è davvero di qualità.

Quest’anno, anche grazie alla membership card che F. mi ha gentilmente prestato e che mi ha consentito di prenotare il posto e saltare la fila, sono addirittura riuscita ad andare a vedere tre film, che hanno illuminato un intero fine settimana e mi hanno fatto entrare nel mood festivaliero che mi attende con la Festa del cinema di Roma.

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Human nature


Il primo documentario che vado a vedere si intitola Human nature ed è di Adam Bolt, noto soprattutto come sceneggiatore del documentario vincitore agli Oscar Inside job. Il documentario si focalizza su una particolare scoperta che sembra aver rivoluzionato l’ingegneria genetica, ossia CRISPR/Cas9, una scoperta che – come è accaduto per molte altre – è avvenuta quasi per caso. In un’azienda che vende batteri per uso alimentare (ad esempio per produrre lo yoghurt), ci si è accorti a un certo punto che alcune famiglie di batteri, pur se attaccate da virus, sopravvivevano, a differenza di tutte le altre, irrimediabilmente uccise. L’azienda in questione ha analizzato il dna di queste famiglie e ha scoperto che esso è caratterizzato dalle CRISPR, ossia brevi ripetizioni di codice genetico. Grazie a questa particolare configurazione, tali famiglie di batteri sono in grado di immunizzarsi al virus, incorporandone il codice genetico. La combinazione delle CRISPR con la molecola Cas9 è ciò che rende questo sistema incredibilmente accurato nel realizzare la modificazione genetica permanente.

Una volta scoperte le CRISPR, il mondo scientifico ha rapidamente realizzato di trovarsi di fronte a uno strumento dalle potenzialità incredibili, capace in modo efficiente ed economico, nonché estremamente preciso (cosa che in passato era impossibile o comunque con una bassa probabilità di riuscita) di modificare il codice genetico di qualunque organismo vivente, compreso l’uomo, soprattutto se combinato con le potenzialità del machine learning.

È evidente che una scoperta di questo genere, una volta dimostrata e verificate la sua funzionalità, ha un numero di applicazioni incredibilmente ampio, da quelle di importanza vitale (curare alcune malattie a base genetica, consentire il trapianto di organi tra specie diverse, invertire il processo di distruzione di alcuni ecosistemi) fino ad arrivare a quelle più futili (come ad esempio diventare più muscolosi). Quando poi questo strumento viene applicato alla linea germinale, ossia sperma, ovociti ed embrioni, diventa possibile persino intervenire sulle generazioni future.

Attraverso le interviste con numerosi scienziati, esperti di etica, responsabili di start up, nonché l’ausilio di una grafica molto efficace capace di rendere comprensibili concetti complessi anche a un pubblico che ne è a digiuno, il documentario affronta un tema centrale per il futuro dell’umanità senza semplificazioni e con grande equilibrio. Ne viene fuori un quadro inevitabilmente controverso, che da un lato riconosce l’impossibilità di mettere a lungo dei paletti al progresso scientifico che fa parte della storia stessa dell’umanità, e dall’altro si interroga sulle conseguenze di un’accelerazione come questa che deve fare i conti con la limitata lungimiranza dell’umanità per un verso e con la mancata conoscenza di tutte le variabili e dunque di tutte le possibili reazioni a catena che interventi così pesanti sull’evoluzione umana possono avere.

La natura – che tutti gli scienziati intervistati – considerano il più straordinario ingegnere genetico che si conosca ha tempi e processi evolutivi lenti e graduali, che selezionano le forme di adattamento migliori. Sarà in grado l’umanità – che pure della natura fa parte – di usare questo strumento in modo non autodistruttivo?

Voto: 4,5/5



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Leftover women

In Cina oggi – anche per effetto della politica del figlio unico in vigore dal 1979 al 2016 - gli uomini sono 30 milioni di più delle donne. Il governo considera questa situazione una minaccia sociale e promuove, attraverso una pesante propaganda, quei comportamenti sociali che spingono donne e uomini a sposarsi e ad avere figli entro i 25 anni.

A fronte di questo vero e proprio diktat politico e sociale, si è creato un vero e proprio mercato degli incontri, fatto di agenzie specializzate, app specifiche, speed date, appuntamenti al buio. Esiste persino un “mercatino matrimoniale” organizzato dai genitori preoccupati per i loro figli che hanno superato la fatidica età e che sono dunque già potenzialmente fuori gioco.

Dentro questo quadro si inserisce certamente anche la problematica di ragazzi e ragazze omosessuali che, per rispetto delle regole sociali, devono comunque sposarsi e possibilmente fare dei figli. Cosicché esiste un mercato parallelo che consente a queste persone di incontrarsi ed eventualmente combinare matrimoni di facciata. A questo è dedicato il documentario Inside the chinese closet che avevo visto qualche anno fa.

Il documentario delle registe israeliane Shosh Shlam e Hilla Medalia si concentra invece sul punto di vista delle donne cinesi, costrette spesso a mettere da parte le loro ambizioni e i loro desideri pur di rispettare i dettami familiari e sociali. Se infatti la pressione viene esercitata anche nei confronti degli uomini, sono però le donne di solito a pagare il prezzo più alto e a subire il maggior biasimo, a partire dal fatto che vengono definite letteralmente “avanzi” (leftover in inglese).

Protagoniste della narrazione sono in questo caso tre donne molto diverse ma accomunate dal fatto di avere più di 25 anni e di essere single: si tratta di Qiu Hua Mei, che è un’avvocatessa di 34 anni la cui famiglia di origine vive in un paese della Cina rurale, Xu Min, una conduttrice radiofonica di 28 anni, e Gai Qi, una docente di cinema di 36 anni.

Le due registe del film sono state più volte in Cina per raccogliere le storie delle numerose donne che dopo aver conseguito elevati titoli di studio si trovano a dover fare i conti con la pressione sociale che le vuole sposate e con figli. Molte di queste donne non hanno voluto però essere riprese per paura e per non mettere in difficoltà le loro famiglie, cosicché le tre donne protagoniste del film, oltre che esemplari per le loro storie, dimostrano anche un grande coraggio.

Hau Mei è una donna molto indipendente, con un lavoro soddisfacente e una vita sociale intensa, non desidera sposarsi né avere figli, ma per non deludere e non mettere in difficoltà la sua famiglia non si sottrae alla ricerca di un uomo. Tale ricerca si rivela però frustrante e a tratti umiliante, e gli uomini che Hau Mei incontra – anche quelli culturalmente più elevati – sono il prodotto di una società fortemente maschilista che considera normale la minorità della donna. È proprio Hau Mei che dice la frase secondo me più bella del film, quando spiega che questa costrizione al matrimonio e a fare i figli non è molto diversa dalle fasciature dei piedi che le donne cinesi in passato dovevano subire; e aggiunge che forse ci sono donne che in queste calzature ci stanno anche a loro agio, ma a lei che vuole correre stanno irrimediabilmente strette. Hau Mei sceglierà di trasferirsi a studiare in Francia per uscire dal cul de sac in cui si trova nel suo Paese.

Xu Min è invece una ragazza più giovane e vuole incontrare un ragazzo con il quale sposarsi, ma tutti gli uomini che incontra devono passare per l’approvazione dei genitori, in particolare della madre, che sembra non essere d’accordo su nessuna delle scelte della figlia. Il futuro di Xu Min non potrà che passare da un confronto aspro con la madre e da una ribellione per poter affermare la propria personalità e le proprie decisioni.

Infine, Gai Qi sceglie – anche grazie all’incontro con un uomo disponibile a delle scelte parzialmente condivise – la strada del compromesso. Dunque si sposa e ha una bambina, ma d’accordo col marito si trasferisce a Canton per ricominciare a lavorare e insegnare in Università. Il marito di Gai Qi, più giovane di lei, ha già dimostrato in questa scelta di saper andare parzialmente controcorrente rispetto ai desiderata della famiglia e della società, e dunque Gai Qi ha individuato in lui la possibilità di conciliare per quanto possibile le sue ambizioni lavorative con un percorso familiare.

Alla fine del film non posso fare a meno di chiedermi quanto potranno resistere questi delicati equilibri della società cinese di fronte all’impatto non solo e non tanto del progresso, quanto della crescente consapevolezza dei suoi cittadini, anche a fronte di livelli di istruzione più elevati. D’altra parte, quello che continua a impressionarmi – ogni volta che leggo, guardo o ascolto qualcosa che parla della società cinese – è il rapporto che il popolo cinese ha con i propri governanti, un rapporto fatto di fiducia e di obbedienza quasi cieca, frutto di una storia di forte paternalismo governativo. Anche questo però prima o poi è destinato a cambiare.

Voto: 3,5/5



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XY Chelsea

@xychelsea è il nickname che Chelsea Manning utilizza per il suo account Twitter e che il regista Tim Travers Hawkins ha scelto come titolo di questo documentario per suggerire agli spettatori la sua intenzione di proporre un ritratto di Chelsea Manning a metà strada tra il pubblico e il privato.

Il racconto prende le mosse dal maggio del 2017, quando il Presidente uscente Barack Obama decise di commutare la pena a 35 anni di prigione di Chelsea Manning, consentendole di uscire dal carcere dopo 7 anni e 4 mesi.

Durante il periodo di carcerazione, Chelsea, nata Bradley, ha vinto la causa per poter iniziare il percorso di transizione dal genere maschile a quello femminile pur essendo in prigione, ma nonostante questo è rimasta per l'intero periodo nelle carceri maschili.

La telecamera di Travers Hawkins sceglie di stare molto addosso alla sua protagonista, al punto tale che il viso di Chelsea va continuamente fuori fuoco fino a quando la telecamera non rimette a fuoco il dettaglio. Si tratta sicuramente di un modo di comunicare allo spettatore la difficoltà nel definire i contorni precisi di un personaggio complesso e controverso come è Chelsea, per alcuni un'eroina, per altri una traditrice della patria, sicuramente una persona di grande coraggio, ma anche di altrettanto grande fragilità e forse anche ingenuità.

Il documentario si concentra in particolare sull'anno che è seguito alla scarcerazione di Manning, fino ad arrivare alla sua campagna elettorale per la candidatura al Senato e infine al rifiuto di testimoniare contro Julian Assange, dopo l'arresto di questi a Londra nell'aprile del 2019, rifiuto che le è costato una nuova incarcerazione.

Seguendo Chelsea in questo anno di ricostruzione della propria vita e dei propri legami, nonché di ricerca di una propria collocazione nel mondo (non dimentichiamoci che oggi Chelsea ha 31 anni, e ai tempi dell'accusa ne aveva solo 21), non mancano i riferimenti alla sua storia personale: le sue origini in una famiglia povera dell'Oklahoma, la separazione dei genitori, il periodo vissuto in Galles, il non essere a suo agio con sé stesso e la decisione di arruolarsi nell'esercito. Da qui in poi la storia è nota: Bradley lavora in Iraq per l'intelligence e ha accesso a migliaia di documenti e video riservati di fronte ai quali non può rimanere indifferente, cosicché decide di caricarli su WikiLeaks. A seguito della denuncia di un hacker, Adrian Lamo, Bradley viene incarcerato prima in Kuwait e poi in una prigione militare della Virginia.

Chi è Manning è difficile dirlo e il documentario non scioglie tutti i nodi. Forse - come più volte emerge dalle sue parole - non lo sa neppure lei stessa, non avendo avuto fin qui una vita come quella di tutti gli altri e, nello stesso tempo, avendo già fatto più esperienze di quelle che normalmente si sperimentano in una vita intera. Sicuramente si tratta di una persona con grandi fragilità (non nasconde di essere sotto terapia, dopo aver tentato più volte il suicidio), ma al contempo ha un forte senso della giustizia e una ancora più forte aspirazione alla verità, costi quel che costi. Chelsea dimostra a suo modo - e non senza cadute - una resilienza e una capacità di recupero notevoli nell'ambito di una battaglia non sempre lineare e certamente controversa, soprattutto per le modalità in cui è combattuta, ma certamente centrale nella nostra società.

Voto: 3,5/5