venerdì 26 aprile 2019

Dracula / con Sergio Rubini e Luigi Lo Cascio. Teatro Ambra Jovinelli, 13 aprile 2019

Sergio Rubini, in veste di regista e attore, si è imbarcato in un progetto sicuramente ambizioso, quello di portare a teatro alcuni classici della letteratura mondiale, in particolare quelli da lui più amati e che più significato hanno avuto nella sua personale formazione.

La formula con cui vengono portati a teatro è una formula certamente originale e in parte sperimentale, come già visto con il primo lavoro di questo progetto, Delitto e castigo, che avevo visto a teatro l'anno scorso con grande soddisfazione.

Proprio sulla spinta dell'ottima impressione avuta dal precedente spettacolo, anche quest'anno io e F. abbiamo voluto dare fiducia alla coppia Rubini-Lo Cascio, che questa volta si cimentava con un classico della letteratura gotico-romantica, Dracula, scritto nel 1897 da Bram Stoker.

Come si accennava, la messa in scena riproduce le modalità già sperimentate con Delitto e castigo. Sul palco, oltre agli attori, trova collocazione - sebbene nascosto - un tecnico del suono che non solo gestisce gli effetti sonori dei microfoni che tutti gli attori portano attaccati al viso, ma sonorizza tutta l'azione, amplificando, sottolineando o aggiungendo suoni e rumori a quanto accade sul palco.

L'occasione della visione di questo spettacolo è buona per approfondire la storia originale del Dracula di Bram Stoker, che a volte si tende a dimenticare o ignorare sommersa dalle valanghe di rivisitazioni e semplificazioni che ne sono state tratte.

I protagonisti dunque sono il giovane avvocato Jonathan Harker (Luigi Lo Cascio), sua moglie Mina, lo psichiatra Seward, il professor Van Helsing (Sergio Rubini) e ovviamente il Conte Dracula.

La storia è un po' il tipico "polpettone" (fatemi passare l'espressione) ottocentesco, cui la messa in scena cerca di restare molto fedele sia nell'evoluzione della narrazione che nelle atmosfere.

Il fatto è che l'effetto ottenuto - e forse anche inevitabile proprio per questa fedeltà all'originale - risulta a tratti stucchevole e in alcuni casi persino esilarante (per esempio quando compare in scena il Conte Dracula che parla in russo).

Non si può dire che lo spettacolo sia confezionato male, e anzi dal punto di vista delle scelte registiche e sceniche è certamente apprezzabile, ma alla fine la sensazione - a differenza di quanto era accaduto per Delitto e Castigo - è quella di una storia che non riesce a nascondere i suoi anni e che la confezione se vogliamo ipermoderna, con un linguaggio a metà strada tra quello cinematografico, quello teatrale e quello radiofonico, non solo non aiuta a superare, ma addirittura finisce per accentuare.

Il pubblico al termine sembra spaccato a metà. Ci sono gli entusiasti che si spellano le mani in applausi e i tiepidi/scontenti che escono dal teatro mentre diluvia e si stanno chiedendo perché abbiamo deciso di uscire di casa in un sabato pomeriggio di un tempo da lupi per venire a vedere questo lavoro poco riuscito. Io sinceramente mi sento di appartenere di più a questa seconda categoria. Non me ne vorrà Rubini, a cui concederò certamente un'altra possibilità, se decide di proseguire in questo progetto.

Voto: 2,5/5

mercoledì 24 aprile 2019

Howe Gelb (+ Valerio Billeri). Unplugged in Monti, Spin Time Labs, 9 aprile 2019

Dopo esattamente tre anni, Howe Gelb torna a Roma e dietro questo nuovo appuntamento c'è di nuovo lo zampino dei ragazzi di Unplugged in Monti. Se allora Gelb era stato ospitato alla Chiesa Evangelica Metodista in una delle Church Sessions, questa volta la location è l'Auditorium dello Spin Time Labs, che da poco è diventato un altro dei luoghi della buona musica a Roma sempre grazie ad Unplugged in Monti.

Anche questa sera, come poche settimane fa con Blumberg, l'auditorium si riempie quasi completamente. Qualche ritardatario arriva durante l'opening di Valerio Billeri, che ci propone qualche assaggio del suo repertorio la cui originalità sta soprattutto nei testi, sia quelli scritti dallo stesso cantautore sia quelli che hanno ascendenze illustri, come le poesie di Gioacchino Belli.

A seguire arriva sul palco Howe Gelb, con la sua giacca di pelle e gli stivaloni da cowboy, nonché un cappellino da baseball sulla testa che gli copre quasi completamente gli occhi.

Si siede al pianoforte per darci un assaggio del suo ultimo lavoro, Gathered, in cui propone un sé stesso in versione crooner da jazz club. Le canzoni sono in parte delle cover di brani famosi, come A thousand kisses deep di Leonard Cohen, a volte canzoni originali scritte da lui o da amici, come ci racconta in merito alla canzone Storyteller.

Nell'album le canzoni si avvalgono della collaborazione di numerosi musicisti, sia a livello strumentale che a livello vocale. Dal vivo tutto è invece affidato al suo estro e all'inventiva del momento.

Gelb inizia un po' in sordina, ma a poco a poco - com'è nelle sue caratteristiche - si va scaldando e comincia a sperimentare liberamente: prima poggia la sua giacca sulle corde del pianoforte a coda per ottenere un certo risultato nel suono dei tasti, poi insoddisfatto tira fuori delle batterie e le mette in alcuni punti all'interno del pianoforte, alternando un suono pulito a un suono che si colloca a metà strada tra un clavicembalo e un mandolino. A un certo punto recupera la chitarra poggiata in un angolo, e nella stessa canzone passa dal pianoforte alla chitarra senza quasi soluzione di continuità.

Man mano che il concerto prosegue Gelb diventa sempre più loquace, chiacchiera col pubblico, racconta aneddoti, chiede se ci sono domande, spiega retroscena, e il rapporto con gli spettatori si fa sempre più empatico e disteso.

Peccato che dietro di noi c'è un signore che si sveglia solo quando Gelb smette di suonare e chiacchiera con il pubblico, mentre alle prime note torna a russare sonoramente con grande disappunto nostro e di tutti coloro che gli sono seduti vicino! Speriamo che almeno Gelb non se ne sia accorto!

A un certo punto del concerto, Gelb abbandona il pianoforte per dedicarsi totalmente alla chitarra con cui suona alcune canzoni, alternando un modo di suonare classicamente folk con brevi parentesi elettriche e rockettare.

Così, in men che non si dica si giunge all'ultima canzone, mentre Gelb preannuncia e già pregusta la pizza che lo aspetta. C'è però il tempo di un piccolo bis, prima con una canzone suonata in coppia con l'amico Lorenzo, che lo accompagna alla chitarra mentre lui riprende posto al pianoforte, e poi un'altra alla chitarra e in parte al pianoforte con cui il concerto si chiude.

Se all'inizio del concerto il musicista appariva quasi distratto e svogliato, al termine sembra visibilmente contento e - come ha scritto il giorno dopo su Instagram - quello di Roma è uno di quei concerti che gli fanno passare la voglia di smettere di suonare e che lo spingono a continuare.

Uno come lui che suona e canta da più di quarant'anni (ci regala anche l'esecuzione della prima canzone in assoluto da lui composta) e che in questi anni ha prodotto tantissima musica, ha sperimentato in varie direzioni, ha avuto mille collaborazioni, è stato il leader di una band mitica, i Giant Sand, ha poi fatto con successo carriera da solista, è certamente a un punto della vita in cui non deve essere facile trovare ancora la motivazione. Perché ho idea che la stanchezza e la routine non riguardi solo i lavori normali, ma anche quelli creativi come nel suo caso.

E devo dire che, pur percependo qualche svogliatezza nella sua performance, ho sentito una grande simpatia ed empatia per questo musicista che in fondo è ammirevole per la sua capacità di mettersi ancora in discussione e di continuare a creare. Non so se al posto suo ne avrei ancora la voglia e la forza.

Voto: 3/5

lunedì 22 aprile 2019

Low. Auditorium Parco della Musica, 8 aprile 2019

Nonostante il virus che mi perseguita in questi giorni di primavera, riesco a non perdere il concerto dei Low, storica band di Duluth in Minnesota, formata da Alan Sparhawk (voce e chitarra), la moglie Mimi Parker (batteria e voce) e un bassista, nel cui ruolo si sono avvicendati vari musicisti e che adesso è Steve Garrington.

Io li avevo conosciuti ai tempi di The great destroyer, sebbene a quella data - era il 2005 - la band aveva già più di 10 anni di attività alle spalle. E se si pensa che il loro ultimo lavoro Double Negative è stato osannato da critica e pubblico, se ne deve concludere che i Low rappresentano ormai una certezza nel panorama musicale internazionale nel quale sono sempre stati considerati dei paladini dello slowcore, pur essendo umanamente e musicalmente sempre alla ricerca e quindi difficilmente cristallizzabili dentro una categoria.


In particolare negli ultimi anni, soprattutto a partire da One and Sixes, i Low sembrano aver imboccato la strada dell'elettronica, pur non rinnegando la loro storia musicale.

Il concerto si tiene nella bellissima Sala Sinopoli dell'Auditorium, che per l'evento è quasi completamente piena. I Low salgono sul palco puntualissimi, posizionandosi ciascuno al proprio strumento, con alle spalle tre pannelli formati di neon sovrapposti (che creano un po' l'effetto persiana) su cui vengono proiettate immagini più o meno astratte, talvolta in sincrono con la batteria. Osservo che le immagini/luci proiettate sui neon rispecchiano da vicino il carattere delle canzoni, risultando più figurative e realistiche nei brani più pop/folk e facendosi invece puri guizzi di luce nei pezzi più elettronici.

A parte le luci di questi neon per il resto la sala è quasi completamente al buio, e quando vengono accese le luci sul palco vengono utilizzate solo per illuminare il pubblico.

Lo spettacolo musicale che la band ci offre si presenta come un meccanismo a orologeria perfetto, nel quale tutto pare essere stato studiato in anticipo, anche quello che apparentemente sembrerebbe improvvisato come i lunghissimi minuti di noise insistito e straniante che caratterizza la fase centrale del concerto.

Una metà circa del concerto è dedicata all'ultimo album Double negative, mentre qua e là sbucano brani che arrivano dal passato musicale dei Low e che anche sul piano sonoro si identificano chiaramente.

Io e F. facciamo un po' fatica a stare dietro alle sonorità elettroniche e alle distorsioni delle voci, a tratti quasi affogate nel suono, e all'uscita commentiamo che il mondo musicale vive un momento di grande fascinazione per l'elettronica, come testimoniano ad esempio gli ultimi lavori di John Grant, di Bon Iver (in particolare il suo progetto Red Machine) e di Antony and the Johnsons (con il nuovo progetto ANOHNI).

Ci chiediamo se c'è qualcosa che a noi sfugge e vorremmo imparare ad apprezzare queste sonorità che invece tendono ad allontanarci e percepiamo come fredde.

Così, anche dopo il concerto dei Low ci rimane addosso una sensazione di perfezione formale, ma anche di freddezza, interrotta solo dai pezzi dall'impianto più tradizionale.

Sarà anche il modo dei Low di stare sul palco: composti e minimali, a tratti quasi trascendentali, esattamente come la loro musica, nonché di pochissime parole. Alan Sparhawk si limita a ringraziare di tanto in tanto il pubblico, a un certo punto lo fa in maniera molto sentita riconoscendo l'attenzione e il silenzio che gli è stato riservato dal pubblico, e alla fine del concerto, prima del piccolo bis che ci viene concesso, presenta gli altri componenti della band e tutti coloro che hanno collaborato, dal tecnico dei suoni a quello delle luci, all'autista che li sta accompagnando nel tour.

Gli altri restano silenziosi, e Mimi Parker sembra quasi voler scomparire dal palco non appena si esaurisce la performance musicale.

In questa atmosfera è difficile anche comprendere la temperatura emotiva del pubblico, e capire se il silenzio che si percepisce è rapimento o perplessità. Gli applausi alla fine di ogni pezzo sono però molto convinti, così come qualche applauso e urletto spontaneo che talvolta scappa alle prime note di un brano.

Non c'è dubbio che il pubblico del concerto di oggi è fatto in buona parte di appassionati della band, come dimostrano tra l'altro le prime recensioni comparse in rete. A una di esse rimando per la scaletta completa del concerto.

Non me ne vorranno i fan dei Low per questa recensione che non ha toni entusiastici, e certamente è la mia cultura musicale piuttosto grezza a impedirmi di comprendere appieno la portata di questo concerto. E di questo me ne rammarico, perché evidentemente quella che si perde qualcosa probabilmente sono proprio io.

Voto: 3/5

sabato 20 aprile 2019

Les invisibles. Marche ou crève. Rendez-vous. Nuovo cinema francese, 3-8 aprile 2019

Il festival del nuovo cinema francese è per me un appuntamento fisso della primavera romana. Amo molto il cinema francese, e il Rendez vous è l'occasione di sentire raccontare i film dalla voce dei loro ideatori e protagonisti e per vedere un po' di film in lingua originale, film tra l'altro in molti casi destinati a non arrivare nelle sale cinematografiche italiane. 
Quest'anno il festival si svolge prevalentemente al Nuovo Sacher, che già lo aveva ospitato l'anno scorso, e solo pochi film sono invece proiettati nel bell'auditorium del Centre Saint Louis di Roma, che è una location che apprezzo particolarmente anche per la sua comodità.

Nonostante le intenzioni battagliere della vigilia, complice anche la disorganizzazione del Nuovo Sacher nella distribuzione dei biglietti, alla fine ho visto solo due film, molto diversi tra loro ma entrambi portatori di un'idea e/o un punto di vista originale sul mondo, e capaci di trasmetterci e aiutarci a capire non solo le vicende dei singoli, speciali e universali al contempo, ma anche gli umori di un'intera società, che pur così vicina ai nostri confini spesso ci sfugge nella sua complessità.

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Les invisibles

La serata inizia con una divertente chiacchierata con il regista del film, Louis-Julien Petit, per me sconosciuto e che invece mi ha incuriosito molto sia per il suo approccio che per l'attenzione ai temi sociali. Per questo ho accolto con grande entusiasmo la notizia che il Centre Saint Louis intende dedicare a questo giovane cineasta una retrospettiva nella sua futura programmazione cinematografica.

La sceneggiatura del film di stasera, Les invisibles, come ci racconta lo stesso regista, è tratta dal libro Sur la route des invisibles, femmes dans la rue, di Claire Lajeunie, autrice tra l'altro di un documentario sullo stesso tema, quello delle donne senza fissa dimora, persone due volte fragili e vulnerabili, sia in quanto donne, sia in quanto senza alloggio.

Il film di Petit non è però giocato sul registro drammatico, bensì sceglie un tono frizzante e giocoso, che ci fa ridere e sorridere per tutta la durata del film, ma attraverso queste situazioni spesso ai limiti della comicità ci fa nondimeno riflettere e commuovere, confermando il momento fecondo della commedia francese.

Les invisibles è la storia di un gruppo di donne senza fissa dimora, dai nomi - in realtà soprannomi - improbabili (Lady Di, Brigitte Macron, Edith Piaf), e delle assistenti sociali che lavorano con loro e per loro. La cosa buffa è che almeno per la prima mezz'ora del film ho fatto fatica a capire quali fossero le donne senza fissa dimora e quali le assistenti sociali, e i dialoghi talvolta surreali, ai limiti del nonsenso, mi hanno ulteriormente mandato in confusione. Mi sono detta che forse era la stanchezza, invece ho capito ben presto che in qualche modo si trattava di una scelta del regista. Le tre assistenti sociali, Manu (Corinne Masiero), Audrey (Audrey Lamy) e Hélène (Noémie Lvovsky), dimostrano di essere non meno 'folli' delle loro assistite quando - dopo la chiusura dell'Envol, il centro di assistenza dove vengono accolte queste donne - decidono di imbarcarsi nell'impresa quasi impossibile di reinserirle nella società e nel mondo del lavoro, per evitarne lo sradicamento a seguito del trasferimento in un centro lontano. Le donne e le loro assistenti iniziano questa avventura esilarante e surreale che mette tutte a nudo e che porta alla luce le fragilità, le potenzialità, le storie e i limiti di ciascuna. L'impresa si mostrerà in tutto il suo velleitarismo, ma le tre caparbie e scombinatissime assistenti sociali, donne che sacrificano al lavoro persino la vita personale, riusciranno in un obiettivo più alto, quello di restituire dignità e identità a queste persone cancellate dalla società e tenute ai margini del consesso civile. Gli sguardi fieri con cui sfileranno sulla loro passerella di materassi sarà la loro commovente, per quanto transitoria, vittoria su un mondo che punta alla pulizia sociale prima che alla comprensione delle persone.

Voto: 3,5/5



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Marche ou crève

Il film di Tatiana Margaux Bonhomme, ispirato alla propria vicenda personale, è un film asciutto e sincero. Di fronte a un tema complesso e delicato com'è quello della disabilità, la regista sfugge alla retorica dei buoni sentimenti e non ha paura di portare allo scoperto le contraddizioni connesse a una situazione di questo tipo.

Elisa (Diane Rouxel) vive in una casa in mezzo alle montagne insieme a suo padre François (Cédric Kahn), con cui condivide la passione per l'arrampicata, e a sua sorella Manon (la straordinaria Jeanne Cohendy), che ha una grave disabilità fisica e psichica. Durante l'estate in cui Elisa deve scegliere se iscriversi al liceo a Montpellier, sua madre ha deciso di allontanarsi dalla famiglia e di andare a vivere da un'amica, a seguito di una divergenza con il marito. La madre, dopo essersi occupata per vent'anni della figlia disabile, vorrebbe metterla in un istituto ma suo padre non è d'accordo.

Elisa, che è molto legata a sua sorella, vive la decisione della madre come un atto di egoismo e tradimento nei confronti della famiglia, e decide di aiutare come può il padre, sia assistendo Manon, sia valutando la possibilità di non continuare gli studi e continuare il lavoro stagionale nelle campagne vicino casa.

Man mano che il tempo passa, Elisa si rende conto che il carico pratico ed emotivo della gestione di una persona totalmente dipendente dagli altri consuma le energie, la pazienza e la volontà di chi gli sta accanto, mettendo in discussione gli equilibri del presente e aprendo interrogativi senza risposta sul futuro.

L'ostilità nei confronti della madre a poco a poco scema, ed Elisa scopre che anche la dedizione totale del padre alla sorella ha il suo rovescio della medaglia nella ricerca di un'esclusività del ruolo e di una minore attenzione verso la stessa Elisa, che nel frattempo si è infilata in una storia con un ragazzo (sposato?) che a un certo punto la scarica impunemente.

L'intera famiglia dovrà riconsiderare la possibilità di avere l'aiuto professionale di un istituto, accettando una cura non esclusiva verso la figlia e il potenziale rischio che non sempre tutto sarà fatto alla perfezione. Del resto, come un amico assistente sociale dice a Elisa, questo è un rischio che esiste per tutti nella vita - compresa Manon - ossia la possibilità di incontrare e fare i conti con chi non fa bene il proprio lavoro.

Quella di Margaux Bonhomme è una riflessione delicata ma senza infingimenti sull'onere per le famiglie della cura di chi non ha - o non ha più - alcuna autonomia, e sulla necessità ineliminabile di cercare un equilibrio tra i bisogni di tutte le persone in gioco, perché la strada del sacrificio per il sacrificio a tutti i costi e della non condivisione della cura e della responsabilità - anche al di fuori dei confini familiari - non è necessariamente la scelta eticamente più corretta e più altruistica, come una certa morale di corto respiro ci spinge a pensare.

Voto: 3,5/5

mercoledì 17 aprile 2019

Ricordi?

C'è una ideale linea di continuità che collega il primo film di Valerio Mieli, Dieci inverni, con questo nuovo, Ricordi?, che arriva dopo molti anni dal precedente, conseguenza - come dice il regista - della difficoltà di far arrivare i progetti in sala.

In entrambi i casi protagonista è una coppia: in Dieci inverni erano i bravi Michele Riondino e Isabella Ragonese; in Ricordi? gli altrettanto bravi Luca Marinelli e Linda Caridi (una vera scoperta, che già avevo avuto modo di apprezzare a teatro nella Trilogia sull'identità di Liv Ferracchiati).

In entrambi i casi il film si propone di approfondire l'azione del tempo sull'evoluzione del rapporto di coppia: lì era la cadenza con cui i due protagonisti si incontravano ogni inverno per dieci anni a dare il senso dell'alternarsi delle situazioni e del mutare dei sentimenti, rafforzando al contempo il legame tra queste due persone. Qui invece il tempo non segue il suo regolare andamento, bensì i piani temporali si sovrappongono e si confondono nella dimensione dei ricordi, innescando un ping pong di flashback e flashforward resi intellegibili e godibili dal buon lavoro di montaggio.

In Ricordi? - ancora più che in Dieci inverni - a incontrarsi quasi fatalmente sono due persone profondamente diverse, con uno sguardo sulla vita che potremmo dire opposto: lui è un giovane ombroso e pessimista, il cui rapporto con i ricordi oscilla tra l'angoscia e la nostalgia e che teme lo scorrere del tempo in quanto livellatore delle esperienze, strumento che produce banalizzazione e squallore; lei è una giovane solare, con i piedi piantati nel presente, che guarda al passato con tenerezza e al futuro con trepidazione e speranza.

Forse entrambi sono estremi in questo loro modo di rapportarsi all'esistenza: il fatto che tutto finisce è l'occasione per vivere intensamente il presente, come dice lei, ovvero la spada di Damocle che getta un'ombra su quello che viviamo, come pensa lui? La bellezza delle esperienze sta solo nella nostalgia dei ricordi, come sostiene lui, oppure le cose erano belle anche quando le abbiamo vissute solo che non siamo stati attenti a cogliere la bellezza in quel momento, come ipotizza lei?

La verità è che forse hanno ragione entrambi, e non a caso queste due anime - in fondo entrambe alla ricerca dell'unica cosa che interessa tutti nella vita, ossia quella felicità che forse sarebbe meglio declinare in stare bene con noi stessi e con gli altri - sono destinate, nel corso della storia, a influenzarsi a vicenda e a maturare verso posizioni più complesse e sfumate. Lui comprenderà che il momento perfetto è per sua stessa natura transitorio e che bisogna accogliere e apprezzare la vita nella sua mutevolezza, lei scoprirà la nostalgia e quei lunghissimi giri che talvolta ci riportano al punto di partenza.

Tutto questo avviene in un'atmosfera rarefatta e bisbigliata (in una bellissima ambientazione tutta laziale), e passa attraverso veri e propri flash che attraversano la mente di ognuno di noi in ogni momento, stimolati da un'immagine, un odore, un suono. Ma questi ricordi - sembra dirci Mieli - non sono altro che la proiezione di quello che siamo sul nostro passato: c'è poco di oggettivo - a parte alcuni elementi essenziali - e tanto invece della nostra visione della vita e del modo in cui sentiamo gli eventi. I due protagonisti hanno in fondo storie personali abbastanza normali, non  più tragiche o più felici di quelle di molti altri, ma ciascuno di loro distilla i ricordi e li ricostruisce in sintonia con il proprio modo di sentire. In un certo senso i ricordi diventano per ognuno i pilastri con cui sostenere sé stessi e la propria visione del mondo, e per questo possono cambiare man mano che anche noi cambiamo e come conseguenza dell'influenza che l'interazione intima e profonda tra due persone esercita sull'universo mentale di ciascuno.

Forse il film di Mieli resta un po' cerebrale, e anche il suo lato profondamente romantico rimane fortemente malinconico e in fondo irrisolto nella constatazione di quella che io definisco l'evoluzione incompiuta della specie umana, ossia la capacità di proiezione sul futuro che è evidentemente una straordinaria opportunità ma anche una condanna per ciascuno di noi. Non essendo capaci di vivere esclusivamente nel presente, possiamo solo cercare di fare l'uso migliore possibile della consapevolezza del fatto che ogni cosa ha una fine.

Voto: 3,5/5

lunedì 15 aprile 2019

Border – Creature di confine

Tina (la strepitosa Eva Melander) lavora alla dogana e vive insieme a un amico/fidanzato in una casa in mezzo ai boschi. Il suo aspetto è decisamente poco ordinario e un po’ repellente – come gli sguardi degli altri non mancano di farle notare -; il suo essere ha un che di animalesco, così come animalesche sono alcune sue caratteristiche decisamente straordinarie, come l’olfatto sviluppatissimo capace di cogliere anche le emozioni delle persone e un feeling particolare con gli animali del bosco, mentre invece i cani domestici le abbaiano impazziti. Tina ha un padre, forse avviato sulla strada della demenza, che va regolarmente a trovare in una casa di cura.

Un giorno, durante il lavoro, Tina incontra Vore (Eero Milonoff), di cui percepisce l’affinità ma che al contempo le causa una sorta di inquietudine. Vore la incuriosisce e la attrae irresistibilmente, al punto da offrirgli di stabilirsi nel capanno vicino casa sua. La vicinanza di Vore e la crescente intimità con lui le permetteranno di conoscere la verità su sé stessa e di comprendere alfine la sua effettiva identità, una scoperta straordinariamente vivifica e liberatoria, ma anche sconvolgente nella misura in cui la spinge a riconsiderare il passato e la mette di fronte a scelte non semplici.

Mentre è in atto questo processo di scoperta di sé, Tina si trova coinvolta attivamente in un’indagine – di cui lei stessa ha reso possibile l’avvio – che rivela un grosso giro di pedofilia perpetrato da persone apparentemente normali su bambini piccolissimi. La rivelazione di tutte le verità su Vore e la sua storia con lui procederà parallela all’indagine della polizia fino a metterla di fronte a decisioni che interpellano la sua coscienza.

Quello di Ali Abbasi, il regista iraniano che vive ormai da tempo in Svezia, è – come è stato osservato – un fantasy realistico, che attinge a piene mani all’immaginario della mitologia scandinava portandolo però all’interno di una realtà riconoscibile e plausibile e facendone, proprio per questo, un prodotto unico nel suo genere. Certamente il film deve molto anche alla scrittura di John Ajvide Lindqvist, già autore del celebre romanzo Lasciami entrare, nonché del racconto a cui il film di Abbasi è ispirato.

Dentro questa confezione sorprendente in cui si mescolano molteplici generi – dal fantasy appunto al poliziesco, dall’horror al dramma toccando finanche la commedia – Abbasi riesce a iniettare occasioni di riflessione ad ampio spettro, dalla ricerca dell’identità al concetto di normalità, dal rapporto con le minoranze all’universalità dei valori morali, dall'incontro con il simile al riconoscimento delle differenze, dall’amore alla violenza.

In particolare ho trovato mirabile il percorso che conduce lo spettatore da una sensazione di disagio e disgusto nei confronti di Tina fino all’identificazione piena con il suo processo di liberazione e di appropriazione dell’identità: le scene di Tina e Vore che corrono nei boschi e fanno il bagno nudi nel fiume, nonché quelle dei loro amplessi amorosi e del primo orgasmo di Tina, trasmettono una gioia che va al di là dei corpi animaleschi dei due e che appartiene a tutti coloro che nella vita hanno compiuto un percorso di riconnessione con sé stessi, quella che io chiamo la seconda nascita, e che è il momento in cui finalmente non ci si sente più fuori posto ma riconciliati con sé stessi e con la propria natura, e che passa anche - ma non solo - attraverso l'incontro con l'altro.

All’uscita dalla sala, la quantità di commenti e riflessioni che si condividono (scambio in cui mi pare tutti gli spettatori sono impegnati, anche quelli a cui il film non è piaciuto) è la conferma della densità di questo film che – attraverso il suo sguardo laterale – ci conduce al cuore di molte tematiche universali e insieme contemporanee.

E, alfine, ci lascia con un messaggio di speranza, ossia che si può essere diversi e irriducibili nella propria diversità, ma condividere gli stessi valori, e che anzi proprio la possibilità per ciascuno di essere quello che è senza assimilazioni forzate rappresenta la condizione migliore non solo della felicità individuale, ma anche del benessere collettivo.

Nella sua apparente follia il film di Abbasi colpisce dritto al cuore, ed è destinato a rimanere negli occhi e nella mente a lungo.

Voto: 4/5

venerdì 12 aprile 2019

Un nemico del popolo / con Massimo Popolizio e Maria Paiato. Teatro Argentina, 29 marzo 2019

Il dottor Tomas Stockmann (Massimo Popolizio) vive con la sua famiglia ed esercita la sua professione di medico in una piccola cittadina la cui economia e prosperità molto deve al locale stabilimento termale, il cui presidente è il sindaco del paese, nonché fratello del dottore, Peter Stockmann (una Maria Paiato credibilissima anche in ruolo maschile).

Quando Tomas scopre, attraverso dei prelievi, che le acque sono inquinate e rappresentano un pericolo per la salute pubblica, si rivolge ai giornali locali per pubblicare il suo rapporto e mettere in guardia la comunità. Appena le intenzioni del dottore giungono all'orecchio del sindaco, quest'ultimo - preoccupato dell'economia del paese e del costo della bonifica - fa pressioni sulla stampa perché si astenga dal pubblicare il rapporto e trascina il dottore in un confronto pubblico con la comunità, chiamata a decidere cosa fare.

Il dottore si ritroverà ben presto non solo isolato, ma anche osteggiato dalla sua comunità che finirà per considerarlo un pericolo, se non addirittura un traditore mosso da interessi personali.

Il dramma in cinque atti di Ibsen è un testo che Popolizio, in qualità di regista e anche di interprete principale, cerca di rendere accattivante e di portare alla luce in tutta la sua modernità, e lo fa sia a livello di messa in scena sia a livello testuale, anche grazie alla traduzione di Luigi Squarzina.

Scenografia e costumi sembrano fare riferimento a un immaginario industrial/steampunk/far west, e le musiche fanno pensare a un profondo sud americano, fors'anche per la figura del giovane ragazzo di colore ubriaco che fa da narratore della vicenda, e che è una invenzione del regista non presente nel testo originario di Ibsen.

La scenografia è apparentemente molto semplice ed essenziale, però man mano che lo spettacolo prosegue e cambiano le scene, le pareti mobili dimostrano di essere un congegno piuttosto sofisticato che può diventare a seconda dei casi la casa di Stockmann, la redazione del giornale "La voce del popolo" ovvero l'aula dove si tiene l'assemblea cittadina.

Sul piano dei contenuti, a una lettura più superficiale la vicenda sembra configurarsi come la contrapposizione tra i compromessi e la capacità manipolatoria della politica da un lato e l'idealismo e l'etica dello scienziato dall'altro, mentre la stampa ne viene fuori come una cassa di risonanza del più forte o comunque di chi ha il maggiore sostegno pubblico. In questa contrapposizione sembra essere stigmatizzata la fallibilità della maggioranza, le cui scelte e decisioni sono spesso il frutto di reazioni di pancia, ovvero di stupidità e manipolazioni.

Come nello spettacolo di Germano - visto solo il giorno prima - il sistema democratico fondato sul potere della maggioranza sembra essere preso di mira per mostrarne tutti i difetti e le fallacie, ma senza che questo porti con sé soluzioni di governo più convincenti e migliori. Del resto, come enuncia la frase attribuita a Churchill, la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre forme che sono state sperimentate finora.

Ho però idea che a una lettura più profonda e meno superficiale, il testo di Ibsen e la messa in scena di Popolizio siano molto meno lineari nel tracciare una linea netta di demarcazione tra bene e male e tra giusto e sbagliato, e in un certo senso puntino a svelare la naturale tendenza umana alla semplificazione e alla polarizzazione, che è invece l'esatto opposto del governo della società.

La politica - nella sua accezione più nobile - è per sua stessa natura ricerca del compromesso e composizione di interessi contrapposti, ed è evidente che in una situazione come quella rappresentata (che potrebbe richiamare alla mente una vicenda come quella dell'ILVA di Taranto) esiste da un lato la salute pubblica che deve essere tutelata e dall'altra l'economia locale e il lavoro della comunità che devono essere salvaguardati. Qualunque soluzione non può prescindere dalla ricerca di una strategia politica che persegua parallelamente questi due obiettivi, ed è evidentemente in malafede chi propone di affidare all'opinione pubblica la scelta della linea da attuare.

Quello che è in discussione nello spettacolo di Popolizio, così come nello spettacolo di Germano, non è dunque il sistema democratico, bensì il populismo riduzionista che si appella alla maggioranza come sommo giudice in qualunque situazione, anche complessa. Come ci hanno insegnato i più grandi costituzionalisti, un sistema costituzionale ben congegnato e funzionante è un delicato meccanismo di pesi e contrappesi, i cosiddetti checks and balances, nel quale molteplici elementi - compreso il voto popolare - concorrono alle scelte migliori possibili, tenendo conto che ogni situazione chiama in causa interessi concorrenti e interpretazioni contraddittorie, ed è dunque al miglior equilibrio possibile che bisogna tendere.

A essere in crisi non è dunque, a mio modesto parere, il meccanismo democratico nella sua accezione complessa, bensì la sua semplificazione e il suo svuotamento nella direzione di un meccanismo decisionale basato sull'acclamazione, che è quanto di più lontano possa esistere dalla ricerca del consenso attraverso il confronto tra le opinioni e la adeguata rappresentazione di maggioranza e minoranze.

Voto: 4/5

mercoledì 10 aprile 2019

La mia battaglia / con Elio Germano. Teatro Ambra Jovinelli, 28 marzo 2019

La presentazione dello spettacolo La mia battaglia nel cartellone del Teatro Ambra Jovinelli è un po' criptico. Lo stesso dicasi per i depliant di promozione. Difficile dire che tipo di spettacolo ci attende, anche se una ricerca in Internet stimolata da un eccesso di curiosità potrebbe rivelare parte del mistero e oggettivamente togliere un po' di fascino a questo spettacolo.

Elio Germano (anche autore del testo insieme a Chiara Lagani) entra nel teatro dagli ingressi alle spalle del pubblico. Con il suo microfono che gli pende dall'orecchio alla bocca e il suo abbigliamento casual sembra un imbonitore pubblico venuto a venderci qualcosa. In realtà la prima parte dello spettacolo, durante la quale Germano non sale sul palco, è finalizzato a conquistare la fiducia del pubblico, a instaurare un dialogo e una vera e propria conversazione con le persone. Non è chiaro persino dove cominci lo spettacolo vero e proprio e fino a che punto le chiacchiere di Germano siano un diversivo ovvero facciano parte dello spettacolo stesso.

In ogni caso, dopo un primo momento di perplessità, il pubblico - tra l'altro lusingato dall'attore che ne elogia la volontà che lo ha portato a venire in teatro e ad abbandonare il divano di casa - si lascia andare a questa "conversazione" e comincia a seguire l'attore nei suoi ragionamenti.

Germano ci parla delle modalità dell'organizzazione sociale, a partire dall'esempio di un gruppo di persone che dopo un naufragio si ritrovi su un'isola deserta nella necessità di sopravvivere; i suoi discorsi risultano in buona parte plausibili e condivisibili e spaziano attraverso numerosi tra i temi all'ordine del giorno del dibattito sociale e politico: le conseguenze dei social network, la disintermediazione, la fine delle competenze, la meritocrazia, i sistemi parlamentari, le elezioni, la democrazia.

Il pubblico applaude, talvolta convinto, talaltra un po' meno, ma in linea di massima si riconosce in un atteggiamento di critica e preoccupazione per lo stato del mondo contemporaneo e la deriva della politica.

Da qui in poi l'attore prende un abbrivio che sarebbe un delitto raccontare e rivelare a chi non ha ancora visto lo spettacolo, e di cui dunque tacerò.

Vi dico solo che il procedere di questo percorso si fa sempre più inquietante, e lo si comprende man mano anche osservando il pubblico intorno a sé e i segnali di imbarazzo e di fastidio che risultano sempre più evidenti. Al termine dello spettacolo anche l'applauso tarda ad arrivare, in una specie di paralisi collettiva, che sconfina quasi nella paura.

Lo spettacolo di Germano e Lagani è una specie di esperimento sociale collettivo che funziona molto bene nel darci la misura dei confini che ci sono tra il discorso pubblico e la manipolazione e dell'ambiguità che può nascondersi dietro parole e ragionamenti apparentemente lineari.

Alla fine dello spettacolo si esce con la sensazione che se da un lato è sempre necessario tenere la guardia alta, dall'altro il rischio del cinismo e del complottismo sono sempre dietro l'angolo, e che dunque in un mondo complesso com'è quello nel quale viviamo possiamo solo cercare continuamente di mantenerci lucidi ed equilibrati, e di non abdicare al buon senso.

Voto: 3,5/5

lunedì 8 aprile 2019

Any Other. Spazio Diamante, 26 marzo 2019

Now that I've learnt these lessons:
I gotta love myself, regardless of anybody else
My happiness must not depend on anybody else
I cannot rely upon anybody else

Now, you can come inside
The door is open


Questi sono gli ultimi, per me molto significativi, versi della canzone Mother Goose, l'unico pezzo acustico dell'album Two, Geography, l'ultimo lavoro degli Any Other di Adele Nigro che ha visto la luce nell'autunno dell'anno scorso e ha ricevuto molte ottime recensioni e vari riconoscimenti anche fuori dall'Italia.

Avevo acquistato l'album appena era uscito e ne avevo colto fin da subito il salto di maturità e di crescita, sia musicale che personale, rispetto al già bello Silently. Quietly. Going away. E infatti il disco è già diventato un piccolo cult del panorama indie-rock non solo nostrano.

Nel frattempo avevo sentito molti commenti positivi di chi era andato ad ascoltarli dal vivo, così aspettavo già da tempo una loro tappa romana, che finalmente è arrivata in uno spazio da poco riaperto al pubblico, lo Spazio Diamante, che ha un bel auditorium utilizzato sia per spettacoli teatrali e di danza, sia per concerti.

L'auditorium si riempie lentamente, e a un certo punto temo che la piazza romana non riservi a questa giovane band l'attenzione che merita. Ma sono paure infondate, visto che verso le 22 l'auditorium è praticamente al completo e il pubblico è davvero un bello spettacolo: gente di tutte le età, dai più giovani fino ai meno giovani, e di tutte le facce, tante delle quali sono belle facce di immigrati di seconda generazione che parlano italiano meglio di me :-)

Gli Any Other si fanno attendere un po', ma eccoli sbucare da dietro le quinte intorno alle 22,15. La formazione con cui sono in tour per Two, Geography è formata - oltre che dalla cantante, compositrice e musicista Adele Nigro - dallo storico collaboratore Marco Giudici alle tastiere, da Giacomo Di Paolo al basso e infine da Clara Romita alla batteria.

Adele Nigro è un po' sofferente (ci dirà più avanti che è un po' malata e aveva temuto per la serata), ma si presenta sul palco con la sua gonnellina glitter argento e le classiche scarpe da ginnastica, nonché con il suo consueto piglio serio e concentrato. Così, nonostante la tossetta che la perseguiterà tutta la sera, ci canterà con grande potenza e perizia praticamente tutte le canzoni del suo ultimo lavoro, per la maggior parte accompagnata dai compagni di avventura, tranne due (tra cui la succitata Mother Goose) che suonerà da sola.

Se Adele è magnetica nel suo modo timido e al contempo autoritario di stare sul palco e di cantare, la batterista Clara Romita mi ipnotizza letteralmente per il suo modo di "abbracciare" la batteria e quasi sorvolarla con i vari tipi di bacchette che utilizza. Guardarla è un piacere e costituisce quasi uno spettacolo nello spettacolo.

Di Marco Giudici, storica spalla di Adele Nigro fin da principio (anche autore di un lavoro solista dal titolo Malamocco), c'è poco da aggiungere, se non confermarne l'umiltà e la bravura.

Giacomo Di Paolo è una bella scoperta, anche lui ben integrato nel gruppo sia sul piano musicale che nell'atteggiamento complessivo.

Il pubblico ascolta silenzioso e concentrato; partecipa spellandosi le mani al termine di ogni brano. Una piccola fitta al cuore collettiva la si sente quando Adele ci dice che per questo tour hanno deciso di non fare bis e che dunque quelli che canteranno saranno gli ultimi due brani del concerto.

E così al termine dell'ultima canzone, il pubblico - pur a malincuore - accetta la scelta degli artisti, ricompensato subito dal fatto che Adele e gli altri musicisti ritornano sul palco quasi subito, questa volta però non per essere guardati e ascoltati, ma per mescolarsi a tutti gli altri nel clima rilassato e solidale che ha caratterizzato questo concerto.

Adele è evidentemente una giovane donna dalle mille risorse e potenzialità (basta leggere una qualunque delle sue interviste per capirlo) e, quando la vedi sul palco, ti sorprende per quel mix di fragilità e di durezza, che poi appena finisce di cantare e suonare si scioglie in sorriso.

Sono passati tre anni dal lavoro precedente e anche dal concerto in cui l'avevo vista suonare la prima volta, e non c'è dubbio che oggi Adele è un'artista molto più completa e matura, con molte più frecce al suo arco, e una musica che ha una personalità sempre più spiccata e articolata sia a livello di testi che di arrangiamenti, esattamente come lei stessa.

Un'artista che promette tanto e bene, e che dunque vale la pena di tenere d'occhio per il futuro.

Voto: 4/5

venerdì 5 aprile 2019

Misantropo / con Giulio Scarpati e Valeria Solarino. Teatro Ambra Jovinelli, 24 marzo 2019

Quando all'inizio dell'anno teatrale abbiamo studiato i cartelloni dei teatri romani, il Misantropo non era contemplato tra gli spettacoli da andare a vedere. Era ancora troppo fresca la sostanziale delusione di quando avevo visto gli stessi attori, Giulio Scarpati e Valeria Solarino, ormai coppia fissa a teatro, interpretare Una giornata particolare. E certo non mi aspettavo che sarebbe stato meglio vederli impegnati nella famosa opera di Molière.

Poi, su sollecitazione di alcune amiche, mi sono lasciata convincere a prendere i biglietti. Sono andata a teatro senza aspettarmi niente, che di solito è la condizione migliore per apprezzare quello che si vede, ma purtroppo in questo caso lo spettacolo ha rispettato pienamente le mie aspettative.

Gradevole, ma niente di più.

Il Misantropo di Molière, portato in scena con la traduzione di Cesare Garboli (anche se dubito che alcune scelte lessicali e modernizzazioni del testo recitato vengano da Garboli) e con la regia di Nora Venturini, è la storia di Alceste (interpretato da Giulio Scarpati), un uomo che punta alla massima trasparenza delle relazioni sociali e non ama l'ipocrisia che la vita di corte impone, e di conseguenza si autocondanna all'isolamento sociale.

Il paradosso di Alceste consiste nel fatto ch'egli è innamorato di Celimene (Valeria Solarino), una donna bella e mondana, che è il suo esatto opposto in quanto ama circondarsi di adulatori e spasimanti, pur apprezzando la devozione esclusiva di Alceste.

Tra confronti talvolta aspri, talvolta buffi, di cui oltre ad Alceste e a Celimene sono protagonisti Filinte (Blas Roca Rey), amico di vecchia data di Alceste che prova ad ammorbidirne il carattere e a convincerlo a una maggiore diplomazia sociale, Clitandro e Acaste, i marchesi innamorati di Celimene, Oronte, cortigiano appassionato di poesia, nonché Arsinoè, amica di Celimene e innamorata di Alceste, ed Eliante, cugina di Celimene.

La narrazione si compie nell'arco di una giornata, durante la quale i personaggi si alternano sul palco in conversazioni uno a uno, oppure in duelli verbali con veri e propri arbitri, mentre Alceste insegue vanamente la possibilità di un confronto con Celimene che spinga quest'ultima a prendere una posizione chiara. Il momento della resa dei conti arriverà dopo che Alceste avrà avuto la prova del fatto che Celimene ama flirtare e circondarsi di uomini, e non desidera un rapporto di tipo esclusivo.

Non posso dire che lo spettacolo non sia ben costruito e ben recitato, nonostante il suo impianto piuttosto convenzionale da diversi punti di vista. Così come non si può dire che nel testo di Molière non ci siano elementi di modernità che possono parlare ancora all'uomo contemporaneo.

Resta il fatto che a me la commedia settecentesca resta inevitabilmente distante e datata, sia dal punto di vista dei temi che del modo un po' farsesco e macchiettistico con cui questi temi vengono messi in scena, riducendo spesso i protagonisti a personaggi monodimensionali o comunque molto caratterizzati.

Solo una messa in scena con forti elementi di originalità e magari un tema maggiormente vicino ai miei interessi (come era stato nel caso de La scuola delle mogli portato in scena da Arturo Cirillo) può rendermi uno spettacolo di questo tipo un po' più stimolante. E purtroppo questo non mi è accaduto nella visione del Misantropo.

Voto: 2,5/5

mercoledì 3 aprile 2019

Guilty = Il colpevole

Guilty, il film del regista danese Gustav Möller, piacerà molto a tutti coloro che a suo tempo - come me - avevano visto e amato Locke. I due film, pur molto diversi a livello di contenuti narrativi, hanno in comune il fatto di ruotare intorno a un unico personaggio che interloquisce con gli altri quasi esclusivamente attraverso il telefono e di affidare dunque lo sviluppo narrativo a quello che ascoltiamo di queste conversazioni telefoniche.

Nel caso di Guilty il protagonista è Asger Holm (il bravissimo Jakob Cedergren che riesce a reggere quasi un'ora e mezza di primissimi piani), un poliziotto che lavora al centralino del 112. Capiamo quasi subito che Holm è stato demansionato e sottratto al lavoro su strada, perché ha in sospeso un procedimento la cui udienza è prevista il giorno dopo.

Durante il suo turno, Holm raccoglie la telefonata di una donna, Iben, che finge di parlare a sua figlia rimasta a casa, ma in realtà sta chiedendo aiuto in quanto è stata rapita da suo marito. La linea cade quasi subito, ma Holm è catturato da questa vicenda e decide di indagare con i mezzi che ha a disposizione. Individua il numero di casa della donna e riesce a parlare con la figlia di costei, Mathilde, scoprendo che il fratellino è molto più piccolo ed è nell'altra stanza, e poi con l'ex marito della stessa che risulta avere precedenti penali.

Man mano che emergono nuovi tasselli sulla dinamica della vicenda, Holm si fa una propria idea di come sono andate le cose e opera nel tentativo di salvare la donna, decidendo di fermarsi e di continuare a seguire il caso anche al di là del suo orario di lavoro.

Nel frattempo altre telefonate rivelano a poco a poco anche i contorni della sua vicenda personale e permettono di intuire i motivi per cui il poliziotto è sotto procedimento.

Il caso di Iben, man mano che si profila nella sua interezza fino al pieno svelamento, mette in discussione lo stesso Asger e la sua capacità di valutazione, costringendolo a fare i conti con sé stesso e le conseguenze del proprio modo di essere e delle proprie azioni.

In una perfetta unità di tempo e di luogo (la vicenda si svolge tutta nell'ora e mezza di durata del film nella stanza della centrale operativa del 112), il film da un lato ci spinge a immaginare quello che sta accadendo al di là della cornetta, solo attraverso le voci e i rumori che ascoltiamo, dall'altro riesce a farci guardare nell'animo di Asger fino a comprendere i sentimenti contraddittori che gli si muovono dentro e la sua progressiva presa di coscienza.


Un bel thriller tutto costruito sul potere che ha la parola di attivare l'immaginazione, al punto da poter essere quasi paragonato alla lettura di un libro, in cui i pensieri raccontati sono qui espressi attraverso il volto di Cedergren, strumento interpretativo aggiuntivo del racconto verbale.

P.S. Avrei voluto vedere il film in lingua originale, e infatti avevo appositamente scelto uno spettacolo al cinema Farnese, ma alla fine ho dovuto vederlo doppiato perché le altre 3-4 persone (anziane!) in sala preferivano questa soluzione e hanno chiesto al gestore della sala di mandare la versione italiana! Sinceramente avrei volentieri fatto a meno del doppiaggio, ma tant'è!

Voto: 3,5/5

lunedì 1 aprile 2019

Settimo cielo / di Caryl Churchill. Teatro India, 19 marzo 2019

L'anno scorso, nel momento in cui io e F. ci siamo informate su questo spettacolo e abbiamo deciso che poteva essere interessante vederlo, le date possibili erano sold out. E dunque abbiamo dovuto rinunciarci.

Così, quest'anno quando lo abbiamo ritrovato in cartellone al Teatro India, non ci siamo lasciate sfuggire l'occasione di accaparrarci i biglietti per la prima del 19 marzo.

Settimo cielo, traduzione italiana dall'inglese Cloud nine, è ormai praticamente un classico del teatro contemporaneo: il testo fu scritto alla fine degli anni Settanta da Caryl Churchill, una drammaturga inglese tra le più note, soprattutto per il suo stile e per l'attenzione a tematiche legate alla guerra, al colonialismo, alle politiche sessuali.

La pièce è articolata in due atti.

Nel primo siamo nel 1879, in piena epoca vittoriana, in una colonia inglese in Africa, e protagonisti sono Clive, il capofamiglia, sua moglie Betty, i due figli Edward e Victoria, la governante Ellen, la signora Saunders, l'avventuriero Harry, e il servo di colore Joshua.

Sul palcoscenico campeggia una insegna al neon con la scritta "Africa 1879": i personaggi sono seduti su due panchine addossate al muro, da dove si alzano a turno per conquistare il centro della scena, allestita con quattro poltroncine. In fondo al palco man mano che l'azione prosegue si va gonfiando un grande mappamondo.

In questo mondo apparentemente ordinato, in cui esiste una precisa gerarchia di potere (la Gran Bretagna su tutti, il marito sulla moglie e sui figli, i padroni sui servitori, i bianchi sui neri, i seduttori sui sedotti), in realtà niente è come sembra e tutto viene rimescolato. Clive tenta di sedurre la signora Saunders, ma è lei che governa un gioco con piglio quasi masochistico, il servo Joshua è nero, ma è interpretato da un bianco, e nella sua apparente sottomissione al padrone dimostra di covare ben altri intenti e di perseguire una precisa strategia, la moglie Betty (interpretata da un uomo), pur completamente sottomessa al marito e privata apparentemente di qualunque volontà propria, è innamorata di Harry, ma concupita dalla governante Ellen, mentre Harry - in apparenza un dongiovanni e un tombeur des femmes - è omosessuale e insidia persino il figlio di Clive e Betty, Edward, decisamente effeminato (e di fatto interpretato da una ragazza). La figlia Victoria è una bambola, senza vita né parola, ultimo e dunque infimo anello della catena di potere.

Nel secondo atto, l'insegna luminosa ci ricorda che siamo a Londra nel 1979. Sul palcoscenico ci sono due panchine coperte di graffiti, mentre i personaggi continuano a stare seduti ai lati del palco, entrando a turno in scena.

Pur essendo passati cento anni, i personaggi sono in continuità con la storia precedente: Betty, questa volta interpretata da una donna, ha deciso di lasciare il marito Clive ma si ritrova a fare i conti con la propria fragilità dovuta al fatto di non aver mai potuto governare la sua vita e dunque condizionata dalla convinzione di non essere in grado di farlo; la figlia Victoria è sposata con Martin, un uomo prepotente e manipolatorio, ma a un certo punto cede alle avances di Lin, l'amica lesbica che ha una figlia piccola, Cathy (interpretata da un uomo) e un fratello militare a Belfast. Edward vive con il suo compagno Gerry, ma quest'ultimo è insofferente alla vita di coppia e continua a cercare avventure esterne, mentre Edward non ha ancora trovato il coraggio di parlare a sua madre della sua omosessualità. Lin, Victoria ed Edward a un certo punto iniziano una relazione poliamorosa, attraverso cui ognuno di loro cercherà di sfuggire alle insoddisfazioni della propria vita.

Verso la fine del secondo atto compare in scena un grande manifesto raffigurante Margareth Thatcher, diventata primo ministro britannico proprio nel 1979, inizio di un'epoca di conservatorismo sul piano politico e sociale dopo gli anni della rivoluzione sessuale.

In Settimo Cielo Caryl Churchill porta in scena - con grande coraggio e altrettanta naturalezza - temi scomodi e certamente controversi, mescolando scientemente le carte per costringerci a mettere in discussione qualunque convincimento morale e a riflettere in primis sulla trasversalità delle dinamiche di potere, vero nodo cruciale delle dinamiche sociali e fattore primario di condizionamento delle vite dei singoli.

Se nel 1879, pur nel contesto un po' defilato delle colonie africane che forse offriva margini di libertà maggiori, gli individui erano costretti a sottostare a rigide regole sociali soffocando le proprie aspirazioni e la propria natura, nella Londra del 1979 si aprono possibilità prima sconosciute, sebbene il retaggio del passato non può certo dirsi sconfitto, soprattutto di fronte alle nuove offensive di movimenti politici e sociali retrogradi e conservatori.

Per questo il testo della Churchill, pur figlio del proprio tempo e senza nascondere i suoi anni, resta di stringente attualità nel momento in cui continua a interpellarci su quanto possano ancora essere messi in discussione oggi diritti faticosamente conquistati e quanta strada c'è ancora da fare per dare a ognuno un compiuto potere e una sovranità effettiva sulle proprie scelte di vita. Perché - sembra dirci la Churchill - le uniche scelte inaccettabili e incompatibili con una società civile sono la guerra e la sopraffazione.

Personalmente mi aspettavo uno spettacolo forse più scoppiettante e dal ritmo molto più sostenuto, più giocato sul piano emotivo che su quello razionale; invece il testo della Churchill punta molto sul peso delle parole, sull'importanza dei dialoghi e sulla capacità dello spettatore di costruire parallelismi e interpretare sottotesti, pur all'interno di una scelta che sfugge al realismo nella rappresentazione. Al contempo, lo spettacolo di Giorgina Pi (del collettivo Angelo Mai) accentua ulteriormente le caratteristiche del testo con il minimalismo della sua messa in scena, pur cavalcando la giostra degli scambi di genere e degli effetti che ne conseguono, supportata in questo dall'ottimo cast formato da Michele Baronio, Marco Cavalcoli, Tania Garribba, Aurora Peres, Xhulio Petushi, Marco Spiga e Sylvia De Fanti, anche in versione cantante sia nel primo che nel secondo atto.

Voto: 3,5/5