lunedì 10 dicembre 2018

Un cuore di vetro in inverno / di e con Filippo Timi. Teatro Ambra Jovinelli, 1 dicembre 2018

Dalla tenda che chiude il palco si affaccia una donna in abito da sposa; ah no, non è una donna, è lo stesso Timi, che si guarda intorno e poi scompare. Dopo poco, ricompare – sempre in abito da sposa – portando con sé una sedia e una chitarra, e comincia a suonare una canzone d’amore un po’ strampalata. Poi di nuovo scompare dietro la tenda.

Quando la tenda si apre, sulla scena, a sinistra la silhouette di cartone di una nuvola, a destra una casa sul cui ingresso campeggia la parola BAR fatta di lettere luminose. Lo spettacolo inizia raccontando dell’impresa che ha spinto l’uomo a esplorare la luna e poi a raggiungerla, il sogno tutto umano di superare i propri limiti, di sfidare continuamente sé stesso per raggiungere sempre nuovi obiettivi.

Poi sul palco c’è lui: Filippo Timi, scanzonato e picaresco, che parla con un curioso accento umbro, circondato da personaggi altrettanto buffi e stralunati: un menestrello triste che porta palloncini (Andrea Soffiantini), uno scudiero napoletano, ingenuo e malfidato (Michele Capuano), una prostituta sguaiata che parla con accento romagnolo (Elena Lietti), infine un angelo che vive su un trabiccolo che porta in giro una luna illuminata e che assomiglia e si atteggia un po’ come Marilyn Monroe (Marina Rocco).

In questo universo improbabile, il nostro antieroe si trova a un bivio della sua esistenza, quei momenti della vita in cui si fa un bilancio e ci si ritrova insicuri e in crisi, terrorizzati dal futuro, assaliti dai dubbi, paralizzati dalla paura. Che fare? Tocca partire per affrontare i propri mostri e sconfiggerli.

Ma quello di Timi è un viaggio donchisciottesco venato di follia e di nonsense, in cui ciascuno dei personaggi in scena incarna una sfaccettatura di un io multidimensionale, in cui convivono tante componenti, quella intellettuale, quella carnale, quella triviale, quella infantile, quella ridicola, quella seria, quella depressa, quella stupidamente allegra.

Ne viene fuori una narrazione che molte parentele ha col teatro dell’assurdo, sia per la totale destrutturazione della coerenza narrativa e spazio-temporale, sia per il modo in cui, in diversi momenti dello spettacolo, viene infranta la barriera invisibile tra gli attori e il pubblico, e quest’ultimo viene coinvolto e chiamato a partecipare ai pensieri del protagonista dello spettacolo, e persino alle difficoltà di chi sta dietro il personaggio, lo stesso Timi. Non è chiaro se, durante il momento di lungo silenzio in cui Timi dice di non ricordare la battuta, tutto ciò faccia parte dello spettacolo in una sofisticata operazione di destabilizzazione dello spettatore, ovvero stia accadendo nella realtà giustificando l’imbarazzo che si coglie nell’aria.

Lo spettacolo di Timi sembra fatto apposta per togliere all’uditorio qualunque certezza e aspettativa, costringendolo a lasciarsi andare a un nonsense in cui tutto si mescola: Lucio Battisti e Gigi D’Alessio, le barzellette e la poesia, i riferimenti colti e quelli popolari.

Lo spettacolo sembra dirci che, mentre noi tutti ci prendiamo sul serio in questi nostri percorsi di autoanalisi, la verità è che quello che possiamo fare è solo ridere di noi stessi, perché forse è la stessa vita umana a essere un pazzesco scherzo del destino, di cui accanto al lato profondo e tragico dovremmo cogliere anche quello ridicolo e leggero.

Non posso dire che lo spettacolo di Timi lì per lì abbia risuonato con il mio modo di essere. Sono uscita alquanto perplessa e ho cercato nelle ore successive di razionalizzare il senso di quello che ho visto, senza riuscirci mai del tutto.

Però in qualche modo qualcosa mi è rimasto dentro e ha agito su un piano che non è razionale e non è neanche emotivo, ma che ha lasciato qualche sedimento indecifrabile in angoli sconosciuti del mio cervello.

Voto: 3/5

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