martedì 27 febbraio 2018

La forma dell'acqua

Siamo a Baltimora negli anni Cinquanta, in pieno clima da guerra fredda e in una società americana in cui i diritti civili sono ancora lontani dall’essere riconosciuti, mentre domina un soffocante modello familiare amplificato dal mondo della pubblicità e alimentato dal consumismo ed emerge l’ideologia - altrettanto soffocante - dell’uomo di successo e del think positive.

In questo mondo rievocato con toni da amarcord e rappresentato con un accentuato gusto vintage (e non a caso senza effetti speciali), si innesta la favola di Elisa (Sally Hawkins), un’orfana muta che vive in un appartamento sopra una sala cinematografica ormai quasi deserta e lavora come donna delle pulizie in un laboratorio scientifico. Elisa ha per vicino e amico Giles (Richard Jenkins), un disegnatore e pittore gay che ha perso il lavoro e si è ritrovato improvvisamente vecchio, solo e frustrato, e Zelda (Octavia Spencer), un’afroamericana che fa anche lei le pulizie al laboratorio e casa i conti con un marito con cui comunica poco e male.

Un giorno al laboratorio viene portata una strana creatura, una specie di uomo-pesce, che gli scienziati vogliono utilizzare per ottenere un vantaggio competitivo nella corsa allo spazio rispetto ai russi. A capo di questo progetto è Richard Strickland (Michael Shannon), l’incarnazione – ma allo stesso tempo in un certo senso anche una vittima – della società americana di quegli anni.

Al primo sguardo Elisa e l’uomo-pesce si riconosceranno e altrettanto presto si innamoreranno.

Il film di Guillermo Del Toro è una favola fantasy e come tale si presenta fin dalle prime battute; questa favola però, nel raccontare una storia semplice e forse anche semplicistica – come è tipico delle favole – non rinuncia a mettere sul piatto tanti temi, che forse si possono riassumere nella critica a una modernità che porta via la bellezza del passato (vedi le onnipresenti immagini dei film, soprattutto musical americani degli anni Trenta e Quaranta, e la tristezza per un cinema semideserto di fronte al quale la strana creatura si incanta) e annuncia il mondo ipercompetitivo che sta arrivando, un mondo ideologicamente appiattito sul consumismo e sul successo e incapace di accogliere e promuovere la forza e le potenzialità della diversità.

Il linguaggio è un mix di suggestioni e di generi: a me l’inizio del film ha immediatamente riportato alle atmosfere de Il favoloso mondo di Amelie, mentre l’amore per il cinema che trasuda da questo film mi ha fatto pensare a The artist. La creatura mostruosa mi ha invece addirittura richiamato alla mente Avatar! Sono ovviamente associazioni mentali del tutto personali e forse anche un po’ anodine, mentre senza ombra di dubbio il film – oltre a far vedere spezzoni di film e a incrociarne le parole con quelle dei personaggi – cita, anche visivamente, molte pellicole che io nella mia ignoranza sulla cinematografia del passato non ho ovviamente riconosciuto. Alla fine dei conti però il film è soprattutto una storia d’amore in cui il romanticismo è nei piccoli dettagli, nel tema musicale di fondo, nelle frasi che Elisa legge sul retro dei fogli che giorno dopo giorno strappa dal suo calendario (la più bella tra tutte per me:”La vita è il naufragio di tutti i tuoi piani”), e soprattutto nella poesia con cui l’amico Giles, che è anche il narratore della storia, la riassume: “Incapace di percepire la tua forma, ti ritrovo ovunque intorno a me. La tua presenza mi riempie gli occhi con il tuo amore, e commuove il mio cuore, perché sei ovunque”.

E l’acqua che avvolge tutto è metafora di un diluvio che distrugge e, al contempo, salva ciò che c'è da salvare consegnandolo all’eternità.

Voto: 4/5

domenica 25 febbraio 2018

The party

Janet (Kristin Scott Thomas) è appena diventata Ministro della salute del governo ombra britannico e ha deciso di organizzare una festa a casa con i suoi amici più cari. Mentre è di là in cucina a preparare e suo marito Bill (Timothy Spall) è in sala sulla poltrona con lo sguardo fisso sul giardino e attento solo a cambiare i vinili, arrivano uno dopo l’altro l’amica April (Patricia Clarkson) con il marito new age Gottried (Bruno Ganz), l’amica lesbica Martha (Cherry Jones) presto raggiunta dalla compagna (Emily Mortimer) che aspetta tre bambini a seguito dell’inseminazione artificiale, e Tom (Cillian Murphy), il marito di Marianne, la collaboratrice di Janet e amica di famiglia che invece si fa attendere. Tutti sembrano in preda a una qualche forma di isteria e la serata diventerà presto l’occasione per far emergere segreti e tensioni.

Quello della cena o festa o piccola vacanza tra amici destinate a far esplodere le dinamiche relazionali è uno dei soggetti da sempre più utilizzati al cinema, a tutte le latitudini e in tutti i contesti culturali.

Tra le cose più recenti che ho visto e che il film di Sally Potter mi ha in qualche modo riportato alla mente ci sono l’italianissimo Perfetti sconosciuti e il francesissimo Piccole bugie tra amici. So che molti storceranno il naso a questi miei paragoni. Ovviamente di differenze ce ne sono tante, ma queste differenze sono fondamentalmente di tipo culturale e in qualche modo esterno: i protagonisti di Perfetti sconosciuti incarnano molto quel mix di comicità compagnona e malinconia un po’ cinica tipicamente italiana, quelli di Piccole bugie tra amici trasudano da tutti i pori la filosofia del bien vivre tipicamente francese. E qui i protagonisti di The party sono la massima rappresentazione dello humour - più o meno nero - tipicamente britannico.

Un’altra differenza merita di essere sottolineata ed è il diverso livello di permeabilità di questi gruppi di amici al contesto sociale e politico circostante. Nel film italiano il mondo esterno è praticamente assente, nessun riferimento (o quasi) alla condizione sociale e politica dell’Italia; più o meno lo stesso nel film francese, sebbene in questo caso i protagonisti siano chiaramente l’espressione di quel mondo radical-chic, alternativo e un po’ new age che in fondo è anch'esso il portato di un’evoluzione socio-culturale.

Nel film di Sally Potter invece i personaggi sono quasi inscindibili dall’universo politico e sociale dal quale provengono; e non solo perché la protagonista Janet è impegnata in politica ed è stata nominata ministro ombra, ma anche perché in qualche modo tutti esprimono posizioni “politiche”, anche quando sono posizioni di profonda delusione verso la politica come nel caso di April o quando sono scelte che attengono alla vita privata, come quella di avere figli con l’inseminazione per la coppia lesbica. Anche il “confronto” tra Janet, rappresentante delle politiche pubbliche per la salute, e Gottfried, critico acerrimo della medicina occidentale e sostenitore di una medicina alternativa, nonché la rivelazione di Bill di essersi fatto visitare da un medico privato, sono tutte questioni che pur attenendo alla sfera personale divengono inevitabilmente una riflessione ironica di carattere certamente più ampio e che va al di là dei personaggi. Persino lo stato iper-ansioso di Tom sembra in parte avere a che fare non solo con i suoi tormenti sentimentali, ma anche con quel mondo iper-competitivo nel quale lavora, ossia la finanza.

E però, nonostante queste differenze, l’umanità alla fine resta la stessa ovunque e le dinamiche relazionali si assomigliano tutte, tra frustrazioni, ipocrisie, tradimenti, insoddisfazioni, paura del futuro, e sostanziale autoreferenzialità di ciascuno di questi adulti, ognuno impegnato a perseguire qualche brandello di felicità indipendentemente e forse nonostante la vita nella quale si trova a vivere, tutti sospesi sul filo di quel fragilissimo equilibrio emotivo – più o meno patologico o idiosincratico – sul quale si regge la vita di tutti noi e col quale noi e chi ci circonda - non potendo farne a meno - giochiamo pericolosamente tutti i giorni.

Una nota finale per la bella colonna sonora, il coraggio della scelta del bianco e nero e la durata – eccezionalmente contenuta e non strabordante come invece ormai è d’uso nel cinema – che caratterizzano questo film.

Voto: 3,5/5

venerdì 23 febbraio 2018

Lampedusa / Anders Lustgarten. Teatro Piccolo Eliseo, 18 febbraio 2018

Un palcoscenico in cui domina un piccolo faro giallo, mentre al soffitto sono appese decine di luci che si accendono o si spengono a seconda dei momenti.

Sulla scena due personaggi che alternativamente si rivolgono al pubblico raccontando le proprie vite.

Da un lato un pescatore di Lampedusa, che ha smesso di pescare pesci perché nell'isola è diventato molto più redditizio occuparsi di recupero dei cadaveri in mare.

Dall'altro una giovane donna italo-marocchina che vive a Milano e lavora per una società che si occupa di recupero crediti.

I due si dividono il palco, estranei l'uno all'altra e destinati a non incontrarsi mai nella "realtà", ma il contatto dei loro sguardi dice che hanno molto più in comune di quanto le loro storie e i loro racconti facciano pensare.

Ad entrambi la vita ha insegnato l'indifferenza verso il dolore e le sofferenze altrui, il giudizio verso chi si trova in difficoltà e reagisce come può. Per entrambi la durezza è una reazione alla propria frustrazione, al proprio fallimento e alla difficoltà di fare i conti con la propria vita.

L'uno si è dovuto adattare al lavoro che fa non avendo alternative, ma lo vive insieme con cinismo e senso di colpa, l'altra sfugge al difficile rapporto con la madre e ai propri sogni legati al compimento degli studi, e contemporaneamente deve fare i conti con le proprie origini che continuano a renderla straniera agli occhi di una parte degli italiani.

In entrambi i casi sarà un incontro a cambiare il corso degli eventi e a mettere queste due persone di fronte a se stesse: per il pescatore l'incontro con un meccanico malese giunto a Lampedusa sul barcone e che aspetta con trepidazione l'arrivo di sua moglie, per la giovane donna l'incontro con una madre single portoghese che la invita a cena a casa sua.

"Praticate gentilezza a casaccio e atti di bellezza privi di senso": questa frase di (forse) Anne Herbert, diventata virale grazie ai social network, può essere considerata la sintesi del testo di Anders Lustgarten. In un contesto individuale e sociale sempre più difficile, sul quale ricadono gli squilibri di un mondo sempre più globalizzato e interconnesso, la gentilezza tra gli esseri umani rappresenta l'unica strada possibile di salvezza, o almeno questo è quanto ci suggerisce l'autore, supportato in questo caso da due interpreti credibili e straordinari, Fabio Troiano e Donatella Finocchiaro (che curiosamente recitano il primo - torinese - in siciliano, e la seconda - siciliana - in milanese).

È piuttosto sorprendente che un testo così calato nel contesto italiano e così capace di riflettere sentimenti e umori della società italiana odierna sia stato scritto da uno svedese, forse perché le realtà bisogna guardarle dall'esterno per capirle appieno. Esattamente come uno psicologo che arriva a scavare nelle profondità della nostra vita e della nostra interiorità proprio grazie al suo punto di vista esterno.

Vero è che il testo di Lustgarten parla di temi decisamente trasversali a geografie e culture, sentimenti che accomunano tutto il mondo occidentale - rabbia, disincanto, pessimismo, paura, incertezza del futuro - e che spingono molti singoli e comunità a rinchiudersi nei propri confini e ad assumere un atteggiamento difensivo.

I due protagonisti di questo spettacolo hanno imparato a non fidarsi di nessuno nella propria, quotidiana, lotta per la sopravvivenza, fino a non fidarsi neppure delle persone che gli stanno vicine e che appartengono al loro mondo, e persino di se stessi.

Saranno la gentilezza inaspettata e la speranza oltre qualsiasi ragionevole attesa di speranza a svegliarli dal loro torpore e a rompere la dura armatura ch'essi si sono costruiti, infelici e sofferenti, ma almeno apparentemente al sicuro.

Questa apertura di speranza è ciò che al termine dello spettacolo fa sollevare qualche "grazie" dal pubblico che applaude convintamente questo lavoro e i suoi interpreti. Io personalmente - forse proprio come i protagonisti - ho qualche resistenza di fronte a una svolta narrativa che mi appare un po' buonista e retorica (quanto invece mi era suonata forte, contraddittoria e per questo molto vera tutta la prima parte dello spettacolo). Ma magari la sfida di Lustgarten è proprio questa: provare ad aprire un varco anche negli animi più resistenti e negli approcci più razionali e realistici come il mio.

Da vedere.

Voto: 4/5

mercoledì 21 febbraio 2018

Vincent Van Gogh. L'odore assordante del bianco. Teatro Eliseo, 15 febbraio 2018

La stanza di un ospedale psichiatrico. Le pareti un po' sbilenche, quasi come nelle prospettive delle stanze dipinte da Van Gogh. Sui muri si intravede in rilievo la riproduzione di un quadro dell'artista olandese, Campo di grano con volo di corvi. Ma non ci sono colori, tutto è bianco, un bianco che - con un'efficace sinestesia - l'autore di questo testo, Stefano Massini, connota con un odore assordante.

Dentro questa stanza un Van Gogh che oscilla tra il lucido e l'allucinato, incapace di distinguere tra ciò che è reale e ciò che non lo è e di ritrovare i propri punti di riferimento. Parla con suo fratello Théo, ma gli infermieri e lo psichiatra della clinica lo mettono di fronte al fatto che Théo è solo nella sua mente.

Deprivato dei suoi colori, la follia del pittore sembra non trovare vie d'uscita e si scontra con gli antiquati metodi di cura dell'ospedale in cui si trova e con l'egocentrismo dello psichiatra. Sarà il direttore del Centro, che crede nei nuovi metodi della psicanalisi, a ristabilire una comunicazione con Vincent, a dargli la possibilità di esprimersi e di ridare colore e calore al mondo circostante attraverso le parole.

Alessandro Preziosi - che vedo per la prima volta a teatro - è davvero un Van Gogh straordinario nella mimica e nella recitazione: allucinato e misurato al tempo stesso, capace di rendere perfettamente l'idea di un uomo in preda ai deliri del suo inconscio tormentato, accecato dal bianco che lo circonda.

Molto bella la scenografia, suggestive le luci, ottima la regia di Alessandro Maggi.

Devo dire invece che in questo caso la cosa che ho trovato più "debole" è il testo di Stefano Massini, soprattutto nella prima parte, quella del dialogo con il fratello fino all'arrivo degli infermieri. Il testo diventa poi persino un po' grottesco nell'incontro con lo psichiatra narcisista.

È solo nell'incontro e nel dialogo con il direttore dell'Istituto che il dramma prende quota e sale di livello emotivo, in un crescendo che accompagna lo spettatore fino allo scioglimento finale della tensione sulle note - nientepopodimenoche - dei Depeche Mode.

Esperimento molto interessante, ma a mio modesto parere non pienamente riuscito.

Voto: 3,5/5