lunedì 29 maggio 2017

Orecchie

Il film di Alessandro Aronadio è secondo me uno di quei film di nicchia destinati a diventare un piccolo cult.

Orecchie racconta una giornata della vita del protagonista (un bravissimo Daniele Parisi, che a tratti mi ha ricordato Mastandrea), dal momento in cui si sveglia, con un fastidioso fischio all'orecchio, a casa della sua fidanzata Alice (Silvia D'Amico) fino alla partecipazione al funerale del presunto amico Luigi.

Nel mezzo una serie di incontri ai limiti del surreale: le due suore che gli suonano il campanello per parlargli della Bibbia, la vicina di casa che gli vuole mostrare le foto del defunto marito, la receptionist del Pronto soccorso che non smette un attimo di chattare al cellulare, il ragazzino rapper a cui dà lezioni private, i due folli medici che lo visitano, il colloquio di lavoro con la direttrice di un giornale, l'incontro con la madre e il suo nuovo compagno performer, la visita a casa di un suo vecchio professore e di sua moglie, infine la chiacchierata con il prete che celebrerà il funerale di Luigi. Tra questi personaggi molti volti noti del cinema tra cui Pamela Villoresi, Massimo Wertmuller, Milena Vukotich, Piera degli Esposti, Ivan Franek, Rocco Papaleo.

Il tutto in un bianco e nero bello e poetico che, attraverso le lunghe passeggiate del protagonista, ci fa riscoprire non solo la Roma del centro e i suoi vicoli, ma anche le periferie, i palazzi e la street art.

E poi prestate attenzione a quello che accade sullo schermo, dove il formato del girato inizia dal verticale, poi diventa quadrato (difficilissimo e bellissimo) e finisce gradualmente in un più tradizionale 4:3, senza che questo provochi nello spettatore il minimo senso di straniamento e di discontinuità grazie al sapiente uso della composizione dell'immagine, sempre studiata in relazione al formato.

Parallelamente a questo ampliamento degli orizzonti di visione si compie il percorso del protagonista, un antieroe, insegnante supplente mite e un po' sfigato e forse anche un po' depresso e al contempo narcisista, certamente deluso dalla vita e dalle persone che sono - entrambe - molto lontane da quello a cui aspirerebbe e su cui non vuole scendere a compromessi. Un percorso volutamente sopra le righe alla scoperta della follia del mondo e della sua incomprensibilità per tornare infine a se stessi e comprendere che la radice della propria insoddisfazione sta nell'incapacità di accettare e un po' anche di rassegnarsi, nel rifiuto di condividere una superficialità che talvolta è anche leggerezza, nel cinismo che impedisce di fare delle scelte e anche di rischiare, con l'esito di ritrovarsi soli in questa che è l'unica vita che ci è stata data.

Un film, quello di Aronadio, tutto giocato su una cifra ironica che diventa a tratti esilarante, a volte amara, e che ricorda a livello di sensazione il cinema di Ciprì e Maresco. Una commedia in fondo a lieto fine, ma il cui messaggio non riesce a essere del tutto confortante.

Un invito a riflettere su noi stessi quando ci muoviamo sul fragile crinale che sta tra l'esercizio dello spirito critico e l'essere disadattati, tra una felicità superficiale e una tristezza profonda, tra la difesa della nostra identità e l'incapacità di esprimere e condividere le nostre emozioni.

Come non riconoscersi nel disagio esistenziale, nel male di vivere, nel senso di inadeguatezza e al contempo di superiorità del personaggio interpretato da Daniele Parisi?

Voto: 4/5

giovedì 25 maggio 2017

Frida Kahlo: il ritratto di una donna. Teatro Quirino, 20 maggio 2017

Mi faccio tentare da un’offerta per lo spettacolo su Frida Kahlo in programmazione al Quirino, un teatro che a dire la verità frequento pochissimo.

Non sono un’appassionata di Frida e anzi – se devo essere sincera - faccio un po’ fatica a comprendere la vera e propria ossessione collettiva che si è sviluppata intorno a questo personaggio e che ha fatto sì che a lei siano state dedicate iniziative di ogni genere, tra cui mostre, fumetti, film, spettacoli. È evidente che si tratta di un personaggio estremo per la vita – sfortunata e piena di coraggio – che ha avuto e dunque proprio per questo iconico, capace di suscitare emozioni e di affascinare. Ma io personalmente non riesco né a comprendere né a empatizzare con la mitologia che è stata costruita intorno a Frida, né ne capisco pienamente il ruolo rispetto all’immaginario femminile.

Detto ciò, proprio quello che non capisco e non comprendo è ciò a cui – quando mi capita l’occasione – rivolgo la mia attenzione. E così è stato in questo caso.

Lo spettacolo interpretato da Alessia Navarro nei panni di Frida racconta un suo punto di vista su questo personaggio sfaccettato, facendo emergere in particolare alcuni temi, tra cui il rapporto con la madre e quello con Diego Rivera. La scelta è quella di prendere spunto da alcuni quadri di Frida proiettati sullo sfondo e parzialmente ricostruiti in scena, dove alla rappresentazione si affianca un’interpretazione non necessariamente strettamente fedele alla biografia della protagonista. Queste scene sono inframmezzate da momenti danzati da una ballerina che rappresenta una sorta di alter ego di Frida e proiezioni sul sipario abbassato con scene ispirate all’immaginario pittorico di Frida e in generale evocative.

Il risultato è fortemente enfatico da ogni punto di vista (la recitazione, le musiche, le immagini), e le diverse parti dello spettacolo fanno fatica ad amalgamarsi in modo armonioso. Alcune cose sono molto belle (per esempio alcuni dei balletti), in altri momenti però lo spettacolo scade nel didascalico e a tratti nel grottesco.

A me – ma anche alle tre persone che erano con me a vederlo – lo spettacolo non ha aggiunto molto sulla figura di Frida e, anzi, se da un lato l’ha caricata di una sovrastruttura un po’ stucchevole dall’altro in fondo l’ha semplificata quasi eccessivamente.

Insomma, non posso dire di essere uscita decisa ad approfondire la complessità di questa donna e ad aderire alla mitologia dilagante. Anzi, a dire la verità l’ultimo monologo sull’amore di Frida per Diego mi ha un pochino raggelato e un pochino anche infastidito. Ma forse sono io…

Voto: 2/5

martedì 23 maggio 2017

Play Strindberg / di Friedrich Dürrenmatt. Teatro Eliseo, 18 maggio 2017

Come è tipico della mia "superficialità" intellettuale, vado a vedere questo spettacolo a teatro solo perché c'è Maria Paiato (del resto ormai vado a vedere qualunque cosa in cui lei reciti); per il resto non solo non so nulla, ma quando leggo qualcosa sullo spettacolo non c'è niente che risuoni con il mio bagaglio conoscitivo.

Non conosco il testo originale di August Strindberg, Danza macabra, né conosco l'adattamento di Friedrich Dürrenmatt ad esso ispirato e intitolato appunto Play Strindberg.

Quando arrivo a teatro mi trovo di fronte a una scenografia che rappresenta una stanza arredata che però è sistemata all'interno di un ring con tanto di corde e di gong.

La rappresentazione è infatti articolata in undici riprese segnate dal suono del gong e da un breve momento di riposo e di riflessione all'interno di quello che è un vero e proprio combattimento senza esclusione di colpi.

I protagonisti sono Alice (una Maria Paiato sempre strepitosa soprattutto nei ruoli fortemente cinico-ironici come questo), Edgar (Franco Castellani, che interpreta il capitano nonché marito di Alice) e Kurt (Maurizio Donadoni, cugino e amante di Alice).

Il tema è una riflessione fortemente sarcastica e amara sull'istituto del matrimonio, legame nel quale - secondo gli autori - sono inevitabili frustrazioni e recriminazioni reciproche, qui espresse in modo spietato al punto da suscitare spesso un amaro sorriso.

Alice ed Edgar trascorrono la vita ad accusarsi reciprocamente della propria infelicità e a rinfacciarsi la propria pochezza, i propri difetti e alfine la propria inutilità. L'ingresso sul ring di Kurt sembra inizialmente apportare un tocco di umana compassione a questa dinamica perversa e senza esclusione di colpi, finché lo stesso Kurt, risucchiato nella tenzone tra Alice ed Edgar, rivela il suo vero volto di lestofante e manipolatore.

Nel rileggere Strindberg Dürrenmatt porta all'attenzione del pubblico quanto la vita familiare - nella totale innaturalità che la caratterizza - possa scatenare i sentimenti più beceri e gli istinti più bassi dell'individuo, producendo sul palco un effetto tra il comico e il drammatico.

Bella la prova degli attori.

Peccato per un teatro Eliseo semivuoto e con un pubblico mediamente piuttosto molesto che non ha contribuito a un'immersione piena nello spettacolo.

Voto: 3,5/5

domenica 21 maggio 2017

Il prezzo del sogno / Margherita Giacobino

Il prezzo del sogno / Margherita Giacobino. Milano: Mondadori, 2017.

In un certo senso posso dire che questo libro mi ha salvata. In un momento di umore veramente sotto i piedi e di letture più o meno deprimenti iniziate e poi mollate lì dopo qualche decina di pagine, l'incontro con la Patricia Highsmith raccontata da Margherita Giacobino mi ha riconciliata con la lettura e mi ha offerto un'occasione di piacere vero, così poco frequente in questo periodo della mia vita.

Attenzione, quello della Giacobino non è un capolavoro, però è una bella operazione di scrittura che si muove avanti e indietro tra realtà e finzione, ossia tra il grosso lavoro d'archivio fatto dall'autrice sulle carte della grande scrittrice americana e una ricostruzione della sua vita e soprattutto del suo modo di essere che è inevitabilmente filtrato dagli occhi e dalla sensibilità della Giacobino.

Ne viene fuori una Patricia Highsmith con un rapporto mai risolto con la madre, volubile e incostante nei rapporti con le numerose donne della sua vita, alla ricerca del grande amore e nello stesso tempo incapace di crederci veramente, un po' misogina e asociale, con una punta di sadismo e tirannia che abita soprattutto sogni e pensieri e si traduce in scrittura nei suoi libri, offrendole una via di sfogo alle situazioni di rabbia e di frustrazione.

Attraverso la lettura de Il prezzo del sogno scopriamo una donna per la quale la scrittura informa la vita e che sarebbe disponibile a rinunciare a tutto fuorché al sogno di scrivere. Ma che non per questo si è sottratta alla possibilità di vivere la vita nella sua pienezza e l'ha vissuta senza mai cedere a compromessi rispetto alla propria identità, senza mai accettare di sottomettersi alle convenzioni sociali.

In un'epoca in cui il suo essere omosessuale avrebbe condizionato la sua possibilità di essere una scrittrice a tutto tondo ha scelto di mantenere apparentemente separate la scrittura e la vita, la sua immagine pubblica e quella privata, senza però rinnegare se stessa e in qualche modo trasfigurando se stessa e il suo mondo nei suoi romanzi.

Il libro della Giacobino è un racconto biografico appassionante, a tratti doloroso, a tratti divertente, in cui si alternano una narrazione in terza persona e le lettere della stessa Highsmith, non vere, ma verosimili come dice l'autrice. Al proseguire delle pagine, la Highsmith ci appare un personaggio al cui fascino non possiamo sfuggire come molte delle persone che ha incontrato nella sua vita, ma anche dispotica e burbera, non certo simpatica in alcune manifestazioni, ma profondamente umana nel mix di forza e di debolezza che la caratterizza.

E nella scoperta di lei scopriamo anche un contesto sociale, un pezzo di mondo, una cultura che - pur se solo tratteggiati - ci appaiono vividi e riconoscibili, per quanto lontani dalla nostra contemporaneità.

Voto: 3,5/5