mercoledì 27 luglio 2016

Blonde Redhead. Auditorium Parco della musica, Cavea, 23 luglio 2016

Avevo preso il biglietto per il concerto dei Blonde Redhead quando avevo visto che nel tour estivo di quest'anno proponevano in versione integrale il loro album più famoso, Misery is a butterfly, un lavoro che a suo tempo avevo ascoltato parecchio.

Poi quando mio nipote ha deciso di venire a Roma proprio negli stessi giorni ho preso il biglietto anche per lui, pur sapendo che mi avrebbe detto (come infatti è successo): "E chi sono i Blonde Redhead?".

Ho pensato però che tutto sommato già solo la location nella cavea dell'Auditorium (lì dove si svolgono i concerti estivi della rassegna Luglio suona bene) poteva valere la pena anche per lui.

Arriviamo al concerto dopo aver mangiato un ottimo kebab e ci posizioniamo nei posti centrali in tribuna; in realtà la cavea è piena solo per un terzo circa, e le ali laterali sia della platea che della tribuna sono quasi vuote.

Il concerto inizia puntualissimo: salgono sul palco prima i musicisti dell'ensemble di archi (sei in tutto tra violini, viola e violoncello), poi i tre componenti del gruppo Kazu Makino (voce, tastiere e chitarra elettrica), e i due gemelli Simone (batteria) e Amedeo Pace (voce e chitarra).

Il palco è allestito con una gigantografia che riproduce la copertina del disco e, senza preliminari, i Blonde Redhead cominciano a suonare in religioso ordine le canzoni del CD una dopo l'altra. All'inizio l'atmosfera è piuttosto fredda, anche perché i musicisti sono molto avari di parole verso il pubblico e anche l'atmosfera della cavea, in cui tutti sono rigidamente seduti ai propri posti, non aiuta.

Man mano però che le esecuzioni vanno avanti il pubblico comincia a dare segni di approvazione crescente e a partecipare in maniera via via più affettuosa, cosicché quando dopo gli 11 brani dell'album i Blonde Redhead e gli altri musicisti lasciano il palco, il pubblico li richiama a gran voce per un bis, che viene prontamente concesso, mentre Kazu diventa un pochino più loquace e finalmente interagisce un po' con il pubblico.

Alla fine del bis, il pubblico ancora non ne ha abbastanza e non vuole andare via con l'amaro in bocca, cosicché di nuovo richiama il gruppo che questa volta suona da solo (senza l'accompagnamento degli archi) una canzone molto ballabile che fa alzare quasi tutti e affollare il pubblico sotto il palco.

Un concerto raffinato e qualitativamente alto, ma non pienamente coinvolgente. Probabilmente, anche le sonorità e il tipo di arrangiamenti musicali che a suo tempo avevano fatto di Misery is a butterfly un piccolo cult in certi ambienti musicali oggi risultano meno originali e meno emotivamente speciali.

Resta il fatto che c'è sempre un buon motivo per andare a un concerto, e non ci si pente mai - o quasi mai - di ascoltare dal vivo dei bravi musicisti.

Voto: 3/5

lunedì 25 luglio 2016

Il settimo splendore / Favia e Bufi

Il settimo splendore / Favia e Bufi. Milano: Bao Publishing, 2014.

Modì è un giovane alla ricerca di se stesso e della propria storia. E per farlo ha deciso di trasferirsi a Parigi, la città d'elezione dove sua madre lo portava spesso da bambino e dove ha voluto essere seppellita dopo il suo suicidio.

Qui Modì si metterà sulle tracce lasciate dalla madre per dare una risposta alle tante domande senza risposta, allo scopo di riconciliarsi con se stesso e riscoprire la propria capacità di amare e di aprirsi agli altri.

A Parigi incontrerà nuovi amici, come Henry e Jacob, e forse un nuovo amore nella persona di Isabelle, ma - prima di trovare spazio dentro se stesso per l'amicizia e l'amore - Modì dovrà fare i conti con la propria identità e la propria storia.

Il settimo splendore è un graphic novel realizzato a sei mani: la sceneggiatura di Leonardo Favia, i disegni di Ennio Bufi e i colori di Walter Baiamonte.

Esteticamente bello, narrativamente ambizioso, il lavoro di Favia e Bufi resta però un po' convenzionale all'interno dell'universo dei graphic novel - soprattutto italiani, che ormai si muovono in buona parte in una dimensione che oscilla tra l'autobiografico e il tardo-adolescenziale.

In realtà, in questo caso le intenzioni sono apprezzabili e il livello di complessità psicologica vuole essere elevato, però l'esito - a mio parere - non è del tutto soddisfacente. Il settimo splendore resta un po' superficiale nella trattazione e nell'approfondimento soprattutto dei personaggi secondari, e non riesce a creare una vera empatia con il lettore e dunque a muovere emozioni forti, cosicché alla fine della lettura si rimane parzialmente insoddisfatti per quello che avrebbe potuto essere e non è stato.

Le potenzialità tecniche e autoriali ci sono. A questo punto aspettiamo Favia e Bufi alla prossima prova.

Voto: 3/5

venerdì 22 luglio 2016

Laurence Anyways

Ed eccomi al mio secondo appuntamento con la retrospettiva dedicata a Xavier Dolan nel cinema all'aperto di piazza San Cosimato organizzato dai ragazzi del Cinema America.

Stessa trafila dell'altro martedì; arrivo in anticipo, mangio qualcosa nei dintorni e stavolta alle 20 sono già seduta e ho già occupato un posto per F. che arriva un pochino più tardi.

Il film dura 2h e 40 e temo di non farcela a tenere gli occhi aperti fino alla fine, ma in realtà Laurence Anyways conferma la grande capacità del regista canadese di catturare l'attenzione dello spettatore, trascinandolo dentro il film senza mollarlo fino alla scena finale.

La storia raccontata in Laurence Anyways è quella di Laurence (Melvil Poupaud) e della sua compagna Fred (Suzanne Clément). Nel giorno del suo 35° compleanno Laurence confessa a Fred il suo desiderio, a lungo represso, di diventare una donna. All'interno di un rapporto di grande intensità e connessione quale è quello tra Laurence e Fred, questa rivelazione è come una bomba che frantuma tutti gli equilibri, sebbene Fred decida - dopo un momento di grande crisi - di stare accanto al suo compagno.

I due dovranno affrontare, nell'ordine, le famiglie (la reazione della madre anaffettiva di Laurence, l'incomprensione della sorella di Fred); il mondo del lavoro (Laurence è un insegnante di scuola superiore e dunque si espone alle preoccupazioni e alle critiche di colleghi, genitori e studenti); la società (appena comincia a vestirsi da donna Laurence dovrà fare i conti con gli sguardi e la riprovazione, fino alla molestia e alla violenza, del mondo esterno nella sua nuova condizione che in un attimo lo ha trasformato da "integrato" a "emarginato").

All'interno del caos che investe la sua esistenza, il punto centrale della storia raccontata da Dolan è però il rapporto tra due persone che si amano, e si amano di un amore intenso e profondissimo, e la tensione insanabile tra la necessità ineludibile di essere se stessi e di cercare la propria strada (necessità che è di Laurence, ma è anche di Fred) e il valore e il significato che questo legame dà alla vita di ciascuno di loro.

Man mano che la storia va avanti, vediamo srotolarsi davanti a noi gli innumerevoli tentativi di Laurence e Fred di tenere in piedi l'amore che li unisce, ma anche il rispetto del percorso e dell'identità individuali, e man mano prendiamo coscienza insieme ai protagonisti dell'impossibilità di una conciliazione, dell'inevitabilità della scelta. Non c'è strada che non comporti una perdita, che si tratti della perdita di un legame importante che  definisce queste due persone o la perdita della propria identità individuale.

Rispetto a Les amours imaginaires, Xavier Dolan - pur non rinunciando ad alcune delle invenzioni stilistiche che sono una delle cifre caratterizzanti del suo cinema (l'uso dei filtri colorati, della musica e del ralenti, spesso combinati; le sequenze oniriche e/o surreali che traducono in immagini gli stati d'animo; l'ossessione per la composizione visiva dell'inquadratura) - realizza un maggiore equilibrio tra la forma del suo cinema e la sostanza della narrazione, senza far quasi mai prevalere l'uno sull'altro.

Questa compattezza conferisce al film una grande potenza, che si sfilaccia solo nelle sequenze relative ad alcuni personaggi "secondari", e che imprime nelle viscere dello spettatore il dissidio insanabile di queste due persone e trasmette - come in altri film di Dolan - la tragica ironia per cui la complessità e la consapevolezza dell'essere umano sono al contempo strumenti di una straordinaria possibilità espansiva ma anche precondizione di una felicità mai piena e completa.

Voto: 4/5

mercoledì 20 luglio 2016

Il Barbiere di Siviglia / Gioachino Rossini. Terme di Caracalla, 18 luglio 2016

Erano almeno due anni che lisciavo l'appuntamento con il Teatro dell'Opera alle Terme di Caracalla per i motivi più vari e non sempre piacevoli, tanto che avevo cominciato a pensare che questo appuntamento portasse un po' sfiga.

Così, per esorcizzare questo trend negativo, ho subito accolto l'invito di L. e F. di andare con loro a vedere Il barbiere di Siviglia. E questa volta - senza alcun contrattempo - mi sono ritrovata davanti all'ingresso delle Terme con una bellissima luna quasi piena nel cielo e i colori del tramonto a illuminare le rovine romane.

C'è tantissima gente, e soprattutto moltissimi stranieri. Il mio amico E. mi ha avvisata che si tratta di un allestimento molto moderno che non è piaciuto a molti.

E qualcosa si capisce subito, visto che la scenografia sul palco riproduce delle pellicole cinematografiche e al termine di quello che sembra una specie di prologo - che inizia con un gruppo di persone vestite da antichi romani e finisce con dei gendarmi - nella parte posteriore del palco vengono montate le lettere che formano la parola Hollywood.

Come ho ricordato più volte nel mio blog, sul fronte musicale sono aperta alle esperienze più diverse, ma mi mancano decisamente le basi, e quando ci si sposta nel reame della musica lirica e classica mi sento totalmente ignorante.

Quindi, è evidente che io non sono certamente la persona più adatta a dare un giudizio sull'allestimento de Il barbiere di Siviglia che ci viene proposto dal direttore franco-canadese Yves Abel.

Nella mia lettura totalmente priva di basi conoscitive della musica lirica, questa versione dell'opera di Rossini si caratterizza per una serie di elementi che la allontanano dalla tradizione: uno spostamento temporale che colloca la vicenda negli anni Venti-Trenta (con tanto di costumi e di personaggi propri del cinema di quegli anni), un'attenzione preminente sulle scene collettive piuttosto che sulle interpretazioni individuali, una coreografia frizzante in cui il ballo ha un ruolo centrale, una scenografia di grande impatto che non solo utilizza le quinte naturali delle Terme di Caracalla, ma porta sul palco oggetti sovradimensionati (una grande gabbia nella quale è rinchiusa la povera Rosina, un enorme barber pole, una divano che fa sembrare le persone che ci si siedono delle bambole).

In pratica, Yves Abel rilegge Il barbiere di Siviglia come fosse un musical o un film degli anni Trenta (le atmosfere richiamate anche da Hazanavicius in The artist). Ne risulta sacrificato - come mi fanno notare le mie amiche certamente più esperte di me - l'aspetto musicale, giacché i solisti sono quasi inghiottiti nella folla che per gran parte del tempo popola il palco e non c'è spazio per virtuosismi e performance canore di rilievo.

Nonostante la stanchezza cronica che mi porto dietro e che - devo ammetterlo - ogni tanto mi fa socchiudere gli occhi, sono abbastanza convinta del fatto che una messa in scena tradizionale mi avrebbe dato il colpo di grazia, mentre il mix tra la verve della musica rossiniana e la giocosità colorata e frizzante dell'allestimento riescono a farmi godere lo spettacolo fino alla fine.

Al termine di questa fragorosa cavalcata, organizzata in un atto unico, le luci si spengono e il pubblico si riversa fuori. Nessuno dei cantanti esce a salutare ed è un po' tutto un fuggi fuggi. Io, L., F. e G. restiamo un po' perplessi e pensiamo che evidentemente lo spettacolo non deve essere piaciuto molto.

Ma a me, che sono totalmente ignorante, alla fine non è dispiaciuto e anzi in qualche modo è sembrato molto adatto al contesto un po' magico e un po' surreale delle mastodontiche terme romane nel quale è stato rappresentato.

Voto: 3/5

lunedì 18 luglio 2016

Les amours imaginaires

Nella strepitosa cornice della rassegna cinematografica organizzata ogni anno a piazza san Cosimato dai ragazzi del Cinema America Occupato vado a vedere uno dei film della bella retrospettiva dedicata a Xavier Dolan, in attesa dell'uscita del suo ultimo film Juste la fin du monde.

Il film in questione è Les amours imaginaires, uscito nel 2010. Mi posiziono in una delle poche sedie a disposizione nonostante manchi ancora un'ora all'inizio del film, e mangio la seconda delle due pizze fritte comprate da Don. L'atmosfera è un po' quella da sagra di paese ed è curioso vedere un pubblico che in parte sarebbe andato anche al cinema a vedere questo film, in parte invece è qui perché fa caldo, la piazza è vicina e un film gratis sul grande schermo buttalo via.

Il film di Dolan vede protagonisti Francis (lo stesso Xavier Dolan) e Marie (Monia Chokri), due amici di vecchia data che a una cena conoscono il giovane Nicolas (Niels Schneider), un ragazzo biondo e boccoloso che è una via di mezzo tra una statua greca e un angelo. Entrambi se ne innamorano e Nicolas - non è chiaro se in maniera un po' ingenua ovvero maliziosa - dedica a entrambi le sue attenzioni e alimenta con i suoi atteggiamenti i sentimenti di ciascuno dei due, probabilmente per soddisfare più o meno consapevolmente il proprio narcisismo. Man mano che il tempo passa e questo strano menage à trois continua, i rapporti tra Francis e Marie si fanno tesi, a causa della gelosia, mentre ciascuno di loro si fa sempre più assorbire dall'ossessione per Nicolas, anche a scapito delle storie che ognuno sta vivendo. Francis, in modo tendenzialmente masochistico, colleziona rifiuti sentimentali che segna con delle tacche sul muro; Marie sembra quasi a disagio nel tempo in cui vive ed è alla ricerca di una propria personale bolla sentimentale fuori dal tempo.

La vicenda di Francis, Marie e Nicolas è inframmezzata da brani di interviste a giovani che raccontano le loro storie d'amore sfortunate, ossessive, interrotte, mai iniziate, che più volte strappano un sorriso tra il deridente e l'amaro.

Il racconto di Dolan utilizza un registro in parte ironico, in parte autocompiaciuto, e tutto il film oscilla tra questi due poli. Il giovane regista canadese dimostra anche in questo lavoro la sua straordinaria capacità di mettere a nudo le contraddizioni dei sentimenti umani e la nostra fragilità emotiva, e fa sicuramente centro quando utilizza il linguaggio ironico-tragico. Dall'altro lato, però, l'abuso del ralenti, la ripetitività di alcuni moduli narrativi, il virtuosismo dei filtri colorati e l'uso un po' stucchevole della musica dal mio punto di vista non fanno un buon servizio a un film che pure riesce a indagare le complesse sfaccettature dell'amore non corrisposto, mettendone a nudo i corticircuiti psicologici che ne sono alla base.

A questo punto, perché non andare avanti con l'intera retrospettiva? :-)

Voto: 3/5


giovedì 14 luglio 2016

Wilco. Villa Ada, 5 luglio 2016

Ed eccomi all'immancabile appuntamento estivo con la rassegna Villa Ada incontra il mondo, la location dell'estate romana che si sviluppa intorno al laghetto di Villa Ada.

Quest'anno - come l'anno scorso - gli spazi sono articolati in due: una parte è ad ingresso gratuito ed è stato attrezzato non solo con poltrone, tavolini, bancarelle e chioschetti per mangiare qualcosa, ma anche con un piccolo palco dove si tengono dei concerti gratuiti prima di quelli previsti sul palco grande; un'altra parte, più ampia, è quella a pagamento dove si tengono i concerti principali, e anche lì ci si può sedere e mangiare.

Io arrivo un po' prima, innanzitutto perché voglio mangiare qualcosa e poi perché mi fa piacere ascoltare un po' del concerto di Bea Sanjust (già conosciuta al concerto dei Leisure Society), organizzato dai ragazzi di Unplugged in Monti che quest'anno hanno messo un piedino anche a Villa Ada.

E così, con una birretta e un cartoccio di calamari e gamberi fritti di Sor Duilio in mano, mi posiziono per un po' nell'area del piccolo palco dove Bea Sanjust sta già cantando. Il tempo di ascoltare qualche canzone e mi accorgo che forse è già ora di andare verso il palco principale, anche perché l'afflusso sembra piuttosto elevato. Ed effettivamente la gente ha già occupato le prime file sotto il palco dove anche io trovo la mia collocazione.

Sul palco c'è una quantità di strumentazione che forse non avevo mai vista tutta insieme, il che fa presagire un concerto in grande stile. Per fortuna i Wilco non ci fanno attendere molto e intorno alle 22 sono sul palco in formazione completa: Jeff Tweedy, lo storico fondatore, nonché cantante e chitarrista, il bassista John Stirratt, il chitarrista Nels Cline, il batterista Glenn Kotche, il polistrumentista Pat Sansone e il pianista Mikael Jorgensen.

Da questo momento in poi i Wilco riempiono della loro musica un'ora e mezza della nostra vita, spaziando dai lavori più recenti agli album degli anni Novanta, e proponendo sia novità che successi consolidati. Il pubblico è appassionato e partecipe, e Tweedy sembra apprezzare molto, tanto da innescare battiti di mano ritmati e altre piccole forme di coinvolgimento.

La parte principale del concerto è un trionfo di musica, di cui sembra che i Wilco vogliano sperimentare tutte le possibilità e le sonorità, facendo dialogare gli strumenti, tantissimi (praticamente a ogni brano i chitarristi, in particolare Tweedy, cambiano le chitarre - acustiche ed elettriche - con cui suoneranno), ma anche i sintetizzatori, nonché talvolta il rumore che sovrappongono alle melodie.

Se anche non foste stati tra quelli che conoscono le canzoni del gruppo e cantano a squarciagola i testi insieme al cantante, vi assicuro che lo spettacolo vi avrebbe lasciati a bocca aperta. L'ensemble musicale dei Wilco appare come una macchina da musica perfetta, che funziona e si incastra al centesimo di secondo, ma dà anche spazio alle straordinarie individualità dei musicisti.

Al termine dell'ora e mezza di concerto, siamo tutti stanchissimi per essere stati fermi in piedi (non abbiamo più l'età evidentemente), ma certamente non siamo pronti a lasciar andare questa straordinaria band. Il pubblico infatti si rasserena quando vede che, una volta usciti dal palco i musicisti, gli aiutanti allestiscono un'area quasi unplugged, quasi chamber, dove il gruppo tornerà a esibirsi, questa volta lasciando i grandi spazi e stringendosi a far dialogare gli strumenti in maniera molto più melodica e folk (come alle origini del gruppo). Compaiono così il banjo a sostituire una delle chitarre, la diamonica a sostituire le tastiere, una batteria jazz a sostituire la grande batteria rock e uno strumento musicale che non saprei come si chiama (ma è una specie di chitarra che si suona tenendola poggiata sulle gambe). L'effetto diventa intimo e la connessione col pubblico si fa ancora più palpabile.

Quando dopo mezzanotte il concerto finisce, tutto il pubblico è consapevole di aver assistito a un grandissimo spettacolo musicale, di quelli che fanno amare perdutamente la musica e soprattutto quella del vivo.

Voto: 4/5