venerdì 20 maggio 2016

La pazza gioia

Come ha detto la mia amica A. con cui sono andata al cinema, non v'è dubbio sul fatto che Virzì non è Bergman. Insomma, voi tutti intellettuali snob e puristi del cinema d'autore, non vi aspettate un film di alto spessore intellettuale perché quello di Virzì non lo è e non pretende di esserlo.

Con questo film, il regista (con la collaborazione alla sceneggiatura di Francesca Archibugi, perché forse serviva un occhio femminile per raccontare una amicizia tra donne) torna in parte ai luoghi e alle atmosfere de La prima cosa bella, e - come allora - ci fa ridere e sorridere, e infine ci strappa il lacrimone.

Perché pochi altri registi hanno la capacità di Virzì di creare un'empatia così profonda tra il pubblico e i suoi personaggi, di raccontarceli con questo sguardo affettuoso e partecipe della fragilità e della bellezza dell'umanità.

Anche qui tornano in primo piano i rapporti tra genitori e figli, in particolare quello tra Donatella (Micaela Ramazzotti) e il figlio che le è stato tolto, e ancora quello tra Donatella e i suoi genitori assenti ed egoisti. Ma ne La pazza gioia su tutto campeggia l'amicizia strampalata tra due donne, la stessa Donatella e Beatrice (una strepitosa Valeria Bruni Tedeschi) scombinate e diversissime, che si nascondono e si arroccano dietro la tragica comicità del loro essere borderline (e oltre) e consapevoli di esserlo.

Dal mondo protetto del centro di accoglienza per donne con situazioni di disagio mentale all'avventura on the road, Donatella e Beatrice ripercorrono le loro vite disgregate, le lacerazioni affettive, gli uomini sbagliati, la solitudine, che le hanno condotte sull'orlo del baratro della follia, ma che non ha tolto loro nemmeno un grammo di umanità, alla ricerca di un senso, di un motivo per andare avanti, per non cedere all'autodistruzione. E il motivo arriva nel valore di un'amicizia che va al di là della diversità e della pazzia per comprendere il dolore e che restituisce fiducia.

Paolo Virzì parla alla pancia dello spettatore, e tutto - la splendida ambientazione toscana, le musiche, la carica autodistruttiva di Beatrice e la depressione devastante di Donatella - ci spinge a parteggiare per queste due donne, a desiderare per loro quel lieto fine (se di lieto fine si può parlare) che forse la vita non gli ha concesso, a veder vincere quei buoni sentimenti che spesso fanno difetto nella realtà, senza per questo rinunciare al sorriso e all'ironia. In questo quadro appare leggera e commovente anche la palese citazione di un grande classico dell'amicizia femminile, Thelma & Louise.

Probabilmente il mondo di Virzì è una versione un po' buonista del mondo reale, eppure dal mondo reale è in grado di ereditare la vitalità e la complessità dei sentimenti, così come anche la comprensione e la compassione verso la debolezza umana.

Trovo infine apprezzabile la scelta del regista di portare in primo piano una tematica sociale enorme, quello del disagio sociale che si fa anche disagio psicologico, senza però proporre ricette semplici, senza voler insegnare nulla, senza doverci costruire per forza intorno un trattato di sociologia.

A me personalmente sembra che in questo tipo di film Virzì riesca - meglio che in altri - a parlare al pubblico e direi che l'applauso spontaneo alla fine del film in un qualunque cinema di periferia com'era quello in cui mi trovano e la standing ovation a Cannes lo confermano.

Voto: 4/5


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