giovedì 18 febbraio 2016

Perfetti sconosciuti

Il film di Paolo Genovese (anche sceneggiatore insieme a Filippo Bologna, Paolo Costella, Paola Mammini e Rolando Ravello) secondo me è perfettamente racchiuso in una delle tante risposte spiazzanti e anticonformiste che Dan Savage (la cui corrispondenza viene pubblicata sulla rubrica Savage Love de L’Internazionale) dà a uno dei suoi lettori: «Se una persona è in cerca di scuse per uscire da un matrimonio di merda pieno di conflitti — perché il divorzio consensuale non gli basta — allora ok, magari cercare il nome del marito o della moglie può servirle [parla del sito di incontri hackerato Ashley Madison]. Ma chi ha un matrimonio in cui ci si ama, che funziona, senza troppi conflitti e più o meno felice è meglio che ci pensi due volte.»

In Perfetti sconosciuti quattro amici che si conoscono da una vita, si incontrano per una cena (tre di loro con le rispettive mogli e un single) e decidono di "non pensarci due volte", facendo un gioco molto pericoloso: mettere al centro del tavolo i telefoni di tutti e rendere pubblici qualunque telefonata o messaggio arrivi.

Da qui inizia un vero e proprio gioco al massacro, in cui si ride moltissimo, ma si assiste anche a una escalation emotiva che mette ognuno di loro di fronte a verità – più o meno imbarazzanti, più o meno inconfessabili, più o meno moralmente inaccettabili – che rimangono sepolte anche nei matrimoni, nell’amore, nelle amicizie di lunga data.

Inizio dalle cose che non mi sono piaciute nel film di Genovese: non mi è piaciuto l’ormai abusato espediente – onnipresente nella commedia italiana di questi ultimi anni - della cena tra amici che si trasforma in una piccola carneficina (vedi Dobbiamo parlare, I nostri ragazzi, Il nome del figlio ecc.), non il sovraccarico di “colpi di scena” che crea un effetto talmente pieno da risultare in parte poco realistico, non la necessità di un personaggio (quello di Rocco) che – per equilibrio e consapevolezza di sé – finisce per fare troppo contrasto con gli altri, infine non l’escamotage finale che sembra volerci pacificare e inquietare al contempo.

Però, Perfetti sconosciuti è un film che mette sul tavolo non soltanto gli smartphone dei suoi protagonisti, bensì diverse questioni centrali delle dinamiche relazionali. E il punto non è il telefonino, in quanto strumento infernale in cui sono nascosti tutti i nostri segreti, il punto non è nemmeno la “liquidità” delle relazioni nella nostra società: dal mio punto di vista, il tema centrale è l’ipocrisia di ciascuno di noi nel pensare che l’amore e l’amicizia significhino sincerità totale, sincerità che pensiamo ci sia dovuta da chi ci sta accanto ma che sappiamo benissimo di non poter garantire in prima persona a nessuno. Il corollario di questo tema è il condizionamento morale e sociale per cui un rapporto non è vero se non si basa su questa sincerità assoluta, che dunque pretendiamo più o meno tutti, anche se sappiamo benissimo – per esperienza personale – che non possiamooffrirla, e che non è neanche giusta per nessuno.

Centinaia di anni di romanticismo spalmato su amore e amicizia ci hanno totalmente disabituato da un lato al fatto che una relazione è una negoziazione e che negoziare i termini del proprio rapporto con la persona che si ama o che si vuol bene non è prosaico né disdicevole, bensì è un difficile passo da compiere nella verifica della tenuta di un rapporto, dall’altro al fatto che fiducia e fedeltà non sono necessariamente antinomici rispetto a bugia e tradimento.

Quando il personaggio di Carlotta dice che nella vita bisogna imparare a lasciarsi secondo me sta dicendo una grandissima verità il cui naturale complemento dal mio punto di vista è che bisogna imparare a stare insieme, il che forse vuol dire che ognuno di noi dovrebbe provare a capire (e non dico che sia facile) qual è la soglia di benessere o di malessere che ci spinge a continuare una relazione o ci dovrebbe convincere a chiuderla. E questa soglia non ha certamente a che vedere con il dominio e il controllo del mondo segreto che ognuno si porta dentro e con la condivisione obbligatoria di ogni frammento della propria vita con l’altra persona, ma con il tasso di serenità, affetto, benessere che riusciamo a vivere dentro quel rapporto e con la negoziazione sulla quantità di verità che si vuole condividere, e che certamente cambia da rapporto a rapporto.

Peppe (Giuseppe Battiston), Rocco (Marco Giallini), Eva (Kasia Smutniak), Lele (Valerio Mastandrea), Carlotta (Anna Foglietta), Cosimo (Edoardo Leo) e Bianca (Alba Rohrwacher) sono lo specchio di ciascuno di noi, ingenui, bugiardi, frustrati, meschini, scontenti, ma incredibilmente veri, umani, quasi adorabili, nel loro essere sempre convinti che i nostri piccoli/grandi segreti siano sempre più giustificabili di quelli di chi ci sta accanto. Ma alla fine – come dice Rocco – siamo tutti frangibili, e per questo è giusto che in qualunque relazione – come avviene per i porcospini – si trovi la giusta distanza e la si rinegozi giorno per giorno fino a quando si ha ancora la voglia di cercare il calore della vicinanza dell’altro.

Il film di Genovese non sceglie la comoda strada del moralismo o della semplificazione, e sposa appieno il principio che non esiste alcuna risposta facile, lasciando allo spettatore l’occasione di vivere il gioco sulla propria pelle e al contempo l’opportunità di assistervi dall’esterno.

Voto: 3,5/5

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