sabato 31 ottobre 2015

Girls lost = Pojkarna

Siamo in un piccolo paese della Svezia. Kim (Tuva Jagell), Momo (Louise Nyvall) e Bella (Wilma Holmén) sono tre amiche adolescenti, la cui “diversità” dagli altri ragazzi della scuola che frequentano le espone alle angherie, alle sopraffazioni e alle prese in giro degli altri.

La sera le tre ragazze si incontrano nella serra dove Bella si dedica al giardinaggio e qui chiacchierano e giocano. Un giorno nella serra di Bella nasce una strana pianta dal fiore nero, che trasuda uno strano liquido che odora di vaniglia. Le ragazze decidono di assaggiarlo e magicamente si trasformano in ragazzi.

Questa possibilità crea in loro una straordinaria eccitazione per le possibilità che tale magia apre loro davanti e perché nella loro temporanea identità maschile non solo nessuno le prende in giro, ma molte cose che erano loro precluse diventano possibili. 

Il cambio di sesso - che per Momo e Bella è un gioco che perde rapidamente di interesse - per Kim diventa invece straordinaria occasione di conoscenza di sé e di ricerca della propria reale identità. Kim nei suoi panni maschili trova la propria vera natura e il corpo cui sente veramente di appartenere, sebbene la ritrovata unità tra mente e corpo non necessariamente porti con sé un'identità sessuale altrettanto definita e conseguente. 

L'amicizia tra le tre ragazze viene messa in discussione da questa vicenda, mentre Kim procede in solitudine il suo percorso di scoperta che è però anche un percorso di smarrimento di sé. Le dinamiche relazionali si complicano in un inseguirsi di possibilità identitarie che sembrano non trovare quadrature. Quando la pianta magica muore e Momo – per porre fine a quello che è diventato un gioco sempre più pericoloso - dà fuoco alla serra in cui la pianta è conservata, chi resta intrappolata in un assurdo mondo di mezzo è Kim che di fronte a un corpo nel quale non si riconosce è ormai in un vicolo cieco.

L'idea di questo film di Alexandra-Therese Keining è molto interessante e devo dire che, quando a suo tempo avevo studiato il programma della Festa del cinema, la lettura della trama mi aveva immediatamente incuriosita. Al termine della visione devo riconoscere che si tratta di un film coraggioso, che sul tema dell'identità di genere è capace di sfidare qualunque categorizzazione e modello acquisito (altro che stupidaggini sulla teoria gender di cui si parla tanto in Italia ultimamente). Anche sul piano cinematografico è certamente un film ambizioso che si muove in quel terreno che sta tra i film a tematica adolescenziale e quelli un po' fanta-gotici. 

Alla fine però la sensazione che la regista abbia voluto osare troppo e calcare un po' troppo la mano è forte e inevitabilmente il film ne risulta squilibrato sul piano sia visivo sia narrativo (sarebbe interessante verificare se altrettanto si può dire del romanzo da cui è tratta la sceneggiatura del film). Come se il volume alzato un po' troppo avesse in qualche modo distorto il suono di una melodia che invece avrebbe potuto essere molto bella e interessante.

Voto: 3/5


giovedì 29 ottobre 2015

Dobbiamo parlare

Siamo a metà strada tra Carnage e Il nome del figlio.

Dobbiamo parlare, l’ultimo film di Sergio Rubini (presentato in anteprima alla Festa del cinema di Roma), eredita infatti da Carnage una sceneggiatura caratterizzata da un climax ascendente che dai toni della conversazione passa a quelli della violenza verbale, mentre de Il nome del figlio riproduce il conflitto socio-culturale tra mondi ideali e materiali diversi che in parte sono complementari e in parte divergenti. Con entrambi i due succitati il film di Rubini ha inoltre in comune un impianto fortemente teatrale, caratterizzato da una sostanziale unità di tempo e di luogo.

Tutto avviene in una notte, in un attico nel centro di Roma dove abitano in affitto Vanni (lo stesso Sergio Rubini), scrittore, e Linda (Isabella Ragonese), la sua compagna e collaboratrice. Mentre i due stanno per uscire per una cena di lavoro, irrompe in casa Costanza (Maria Pia Calzone), un’amica di Linda, nonché moglie di Alfredo (Fabrizio Bentivoglio), un chirurgo molto bravo, ma anche molto coatto e politicamente scorretto. Costanza ha scoperto che il marito la tradisce e dunque chiede il supporto della coppia di amici. Ma di lì a poco arriva anche Alfredo, il Professore, e la sua entrata in scena non solo fa precipitare il litigio tra lui e Costanza, ma trascina - in un crescendo di rivelazioni e recriminazioni a tutti i costi - anche Linda e Vanni, e persino il rapporto di amicizia tra le due coppie.

Il risultato – pur a tratti esilarante, soprattutto grazie alla figura un po’ macchiettistica del Professore – appare piuttosto convenzionale e banale, e non aggiunge nulla, anzi semmai semplifica, cose già in parte viste e sentite.

Devo dire che se questa pièce l’avessi vista a teatro sarei probabilmente uscita contenta, perché in quel contesto si sarebbe potute apprezzare la recitazione (anche nella sua modalità un po' sopra le righe) e anche la dinamica relazionale sarebbe risultata in qualche modo più appropriata.

Al cinema invece il tutto appare un po’ forzato e non colpisce in profondità come forse un testo tutto incentrato sulle dinamiche di coppia avrebbe voluto fare.

Un film che si guarda gradevolmente e che certamente conferma le qualità attoriali di alcuni dei suoi protagonisti, ma nella retorica del dualismo destra vs. sinistra, cultura vs. denaro, amore vs. convenienza finisce per essere un po’ stucchevole e irritante, persino nella sua componente più leggera e ironica.

Voto: 2,5/5

martedì 27 ottobre 2015

Monogamish

Sempre grazie alla Festa del cinema di Roma, vado a vedere (gratis!) questo documentario di Tao Ruspoli. Sì, è proprio lui, il discendente della famiglia nobiliare dei Ruspoli, qui in veste di regista per interrogarsi su come si sono evoluti nel tempo i rapporti di coppia, a partire dalla dolorosa esperienza personale del divorzio dalla moglie.

L'idea nasce dalla corrispondenza che, dopo la separazione, Tao aveva avviato con l'editorialista americano Dan Savage (che in Italia viene tradotto in una rubrica della rivista Internazionale), sostenitore della necessità di rivedere il modello tradizionale della coppia totalmente monogama, nella convinzione che esiste un paradosso non eliminabile tra il bisogno di stabilità, di sicurezza e di accudimento che porta l'essere umano a scegliere il matrimonio o comunque un rapporto di coppia stabile e l'altrettanto innato bisogno di novità e scoperta che ci avvicina relazionalmente e fisicamente ad altre persone. A Dan Savage il regista è debitore anche per il titolo del documentario, che è un'espressione appunto coniata da Savage per fare riferimento a una monogamia che non è più assoluta, ma tendenziale e i cui confini sono in qualche modo definiti dalla coppia stessa.

È a partire da queste premesse che Tao Ruspoli comincia una vera e propria indagine fatta di interviste a membri della propria famiglia, a esperti in tema di matrimonio e sessualità, a psicologi e terapisti di coppia, a storici della vita quotidiana, nonché a numerose persone e coppie che hanno vissuto e avuto esperienze diverse in campo sentimentale.

La domanda che accomuna tutte queste interviste e indagini sul campo è se l'essere umano è biologicamente fatto per la monogamia, ovvero se la monogamia è fondamentalmente una costruzione sociale e culturale. Il dato che emerge da questo viaggio è che nella vita di coppia – come in molti altri aspetti dell'esistenza – non esiste un modello che vada bene per tutti e che, in ogni caso, la monogamia non è totalmente naturale per l'essere umano, ma - pur rispondendo a delle necessità che ci sono proprie - è fondamentalmente un costrutto sociale. La conferma arriva dal fatto che quando si vanno a indagare le coppie dall'interno le situazioni che si incontrano sono molto più mobili e variegate di quanto non appaiano all'esterno e di quanto non venga reso pubblico. E così se da un lato esistono i monogami “volta per volta”, ossia coloro che nella vita chiudono una storia e ne aprono un'altra quando nasce un sentimento per un'altra persona (il che significa accettare la almeno parziale distruzione e la necessaria ricostruzione di reti sociali), dall'altro esistono coloro che, pur essendo impegnati in una relazione stabile, lasciano nella propria vita di coppia – in accordo con il partner – lo spazio per altre relazioni. Così come esistono persone che non riuscendo a trovare equilibri adeguati scelgono di non avere legami stabili ovvero persone che - pur adottando il modello della monogamia – si trovano a un certo punto a fare i conti con il paradosso di cui si diceva prima.

Il documentario non dà una risposta, e probabilmente non esiste una risposta a questioni così complesse e delicate come quelle che hanno a che fare con i sentimenti umani, bensì si limita ad accompagnare Tao Ruspoli nel suo percorso sentimentale che in quattro anni dopo la separazione lo porta a un equilibrio nuovo e certamente imprevisto.

Cinematograficamente il risultato è godibile e, nonostante la delicatezza del tema la trattazione, riesce ad essere sempre leggera e ironica, ma non per questo banale né superficiale, sebbene a mio avviso la scelta delle immagini di commento alle parole non sempre sia appropriata e anzi talvolta risulti fuorviante. Personalmente l'ho comunque trovata un'operazione coraggiosa, che sfida pregiudizi e perbenismo e che non ha paura di riflettere su un dogma che noi tutti riteniamo indiscutibile, ma con cui tutti nella vita ci troviamo a fare più o meno pesantemente i conti, con esiti spesso devastanti sulle vite individuali.

Sinceramente non so se la società sia pronta a una riflessione così dirompente rispetto ai modelli consolidati, ma bene che se ne cominci a parlare e che qualcuno abbia il coraggio di dire che non esiste un solo modello possibile e che anche in questo campo moralismi e chiusura mentale sono spesso causa di forzature e infelicità. L'alternativa è complessa e non scontata, ma è giusto che ognuno cerchi la propria strada come singolo e come coppia.

Voto: 4/5

domenica 25 ottobre 2015

Angry indian goddesses

Dimenticatevi di Bollywood.

O anzi meglio: no, non ve lo dimenticate, perché Pan Nalin, il regista, sceneggiatore e produttore di Angry indian goddesses, non si dimentica certo quanto Bollywood condizioni l'immaginario collettivo - soprattutto occidentale - sul cinema e la società indiana, e sembra voler utilizzare alcuni dei topoi che più lo caratterizzano in chiave ironica o - in alcuni casi - per ribaltarli completamente.

Innanzitutto, in Angry indian goddesses l'occasione da cui prende avvio la trama è quella di molti film indiani (e non solo). Frieda (Sarah-Jane Dias), una fotografa di moda, sta per sposarsi e vuole intorno a sé a Goa per questo importante evento, oltre la domestica nonché amica Lakshmi (Rajshri Deshpande), tutte le altre amiche sparse per l'India: Jo (Amrit Maghera), sua cugina anglo-indiana che vorrebbe fare l'attrice di Bollywood, Mad (Anushka Manchanda), aspirante cantante depressa, Pam (Pavleen Gujral), l'amica tanto brava a scuola che ha accettato un matrimonio combinato, Su (Sandhya Mridul), la donna in carriera con una figlia, e Nargis (Tannishtha Chatterjee), l'attivista politica.

Sono le nostre dee Kali arrabbiate con l'ingiustizia e le brutture del mondo, donne forti, libere, appassionate, sentimentali, sensibili, confuse, ironiche e determinate e - a parte il fatto che parlano Hindi (e in parte inglese) - offrono un punto di vista sull'universo femminile che non sarebbe molto diverso in altre parti del mondo.

E però, queste donne sono indiane e vivono in un'India in cui il loro desiderio di essere se stesse a tutto tondo entra in conflitto con una società profondamente maschilista e con un approccio pesantemente aggressivo, prevaricante se non violento nei confronti della donna.

La dinamica interna al gruppo - pur attraversata da conflitti e rivelazioni non sempre felici né pacifiche sulle vite di ciascuna - si muove comunque su un tono spensierato e quasi goliardico, in cui il background culturale emerge a più riprese, nonché le contraddizioni che attraversano queste donne così moderne e disinibite, ma costrette o in alcuni casi desiderose di trovare un punto di incontro con il mondo dal quale provengono.

Quando però la loro femminilità dirompente esce allo scoperto la violenza sociale rende inevitabile il dramma e la condizione della donna in India appare in tutta la sua fragilità e ingiustizia, tanto da suscitare un estremo atto di ribellione di queste dee arrabbiate.

Il film di Pan Nalin, rutilante visivamente e narrativamente (tanto da fare fatica a tratti a stare dietro a tutte le storie che intreccia), e in questo fortemente debitore della tradizione indiana, sa mantenersi in equilibrio tra la commedia e il dramma, tra l'universalità di questo mondo femminile e la specificità del contesto socio-culturale a cui appartiene. Così come non ha paura di sfidare non solo i tabu della società indiana, bensì anche i pregiudizi di noi occidentali verso di essa.

Di Frieda, Lakshmi, Jo, Mad, Pam, Su e Nargis vi innamorerete tutti. Riderete con loro, piangerete con loro, vi arrabbierete con loro, come fareste con le vostre amiche di sempre, cosicché perdonerete anche i difetti di questo film.

Alla fine vi rimarrà un unico grosso interrogativo: perché e come è possibile che un film tutto al femminile come questo sia stato non solo diretto ma anche scritto da un uomo? Voglio credere nella capacità e sensibilità di Pan Nalin, e mi auguro che non sia stato sottaciuto qualche merito femminile nella scrittura di questi bei personaggi.

Comunque meritatissimi i dieci minuti di applauso e la sala tutta in piedi per regista e attrici presenti alla conclusione della proiezione alla Festa del cinema di Roma. E - per la cronaca - va detto che fin dagli straordinari titoli di testa Nalin aveva strappato il primo applauso, cosicché non mi sorprende e sono ben contenta che questo film si sia infine aggiudicato il Premio del pubblico.

Voto: 4/5

sabato 24 ottobre 2015

Mistress America

Noah Baumbach, il regista di Frances Ha, torna al cinema con un nuovo film (presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma), che pur non avendo ufficialmente niente a che fare con il precedente, ne è in qualche modo l'ideale continuazione.

Stessa ambientazione, stessa protagonista, stesso contesto divertente e stralunato. Ma... qualche anno dopo.

Affidandosi ancora una volta alla sua attrice feticcio, Greta Gerwig (qui anche sceneggiatrice del film), Baumbach porta sullo schermo una giovane donna, Brooke, piena di vitalità e di charme, mondana e attiva come si conviene alla frenetica New York, ma che a trent'anni vive ancora in una perenne fase di transizione verso la realizzazione di qualcosa che non si realizza mai.

Dopo la visione di questo secondo film sempre di più penso a Baumbach come a un Woody Allen del terzo millennio, che per fortuna non si mette davanti alla macchina da presa, sebbene di fatto utilizzi allo scopo il suo alter ego femminile Greta Gerwig, e che ci racconta storie tutto sommato piccole e di persone piccole, ma lo fa con dialoghi brillanti e strampalati, acuti e surreali, dialoghi a volte banali, a volte capaci di rivelare - con una semplicità imbarazzante - grandi verità della vita.

Mistress America è il nome della supereroina in cui si trasforma di notte la protagonista del racconto che la giovane matricola Tracy (Lola Kirke) scrive per poter entrare nella Società letteraria del College e per il quale trova ispirazione proprio dopo aver incontrato Brooke.

Tracy si è da poco trasferita nella Grande Mela e non riesce a integrarsi nell'ambiente del college né a sfruttare le potenzialità di una città come New York, almeno fino a quando non conosce Brooke, sua futura sorellastra. Brooke la introduce alla frenesia della città con le sue mille possibilità, affascinandola con i suoi folli progetti e trascinandola nella sua vita scoppiettante, ma inconcludente.

Quest'amicizia non solo darà a Tracy l'ispirazione alla scrittura, ma la costringerà a confrontarsi con la verità - in buona parte triste - che sta dietro il sogno di una donna libera, moderna, piena di interessi e di fascino, ma perennemente incompiuta.

A tre anni dall'uscita americana di Frances Ha (era il 2012, anche se in Italia il film è uscito solo l'anno scorso), Noah Baumbach sembra volerci dire che quella ventisettenne alla ricerca di se stessa è ancora sulla soglia della realizzazione dei propri sogni e si ostina a non guardare in faccia la realtà. Figli del carpe diem, del mordere la vita, della socialità e della radicalità delle scelte, brillanti e anticonformisti, i trentenni come Brooke faticano a dismettere il filtro adolescenziale che portano sugli occhi, e appaiono paradossalmente molto più adolescenti della diciannovenne Tracy, più disincantata e - seppure sociopatica - più in contatto con il mondo reale e alla fine anche con se stessa.

Nel frattempo si ride, si sorride, si pensa, si apprezza l'arguzia e l'intelligenza che il meglio di questa generazione ci regala, ma al contempo si compatisce la totale astrazione che la caratterizza. Come andrà avanti questa saga?

Voto: 3,5/5

mercoledì 21 ottobre 2015

Freeheld = Amore, giustizia, uguaglianza

È iniziata la Festa del cinema di Roma e io mi sono dotata di un certo numero di biglietti che occuperanno quasi tutto il mio tempo libero della settimana dal 17 al 24 ottobre.

Ad alcuni film che volevo vedere ho dovuto rinunciare perché non erano compatibili con il resto della mia vita, in altri casi ho dovuto accettare un compromesso nella scelta, ma alla fine sono felicissima che la mia settimana cinematografica abbia avuto inizio.

Il primo film che vado a vedere è l'americano Freeheld, che il regista Peter Sollett ha tratto dal documentario omonimo dedicato alla storia vera di Laurel Hester, una detective cui nel 2002 venne diagnosticato un cancro incurabile ai polmoni e decise di avviare una battaglia legale contro la Contea affinché i benefits pensionistici fossero trasferiti alla sua giovane compagna, Stacie Andree.

Freeheld appartiene di diritto alla categoria dei film "stand up for your rights" in versione melodramma. Ora, sia chiaro, qui non c'è nulla di inventato veramente, e la vicenda di queste due donne - richiamata anche dalle foto vere che passano sui titoli di coda - è stata un passo importante nella storia del riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali negli Stati Uniti fino al recente pronunciamento della Corte Suprema che ha esteso il diritto al matrimonio a tutti, e dunque anche a persone dello stesso sesso.

E dunque, in quanto operazione di advocacy sempre necessaria ovunque, credo si tratti di un film che merita un plauso. Però, dovendo parlare anche dell'aspetto cinematografico, non posso tacere dei suoi limiti.

Julianne Moore ed Ellen Page sono molto brave nei loro ruoli (direi la prima soprattutto nella parte drammatica del film, la seconda invece molto meglio nella parte iniziale, più leggera), per quanto improbabili come coppia e, per vari motivi, poco coinvolgenti (anche se poi a guardare le foto delle due donne reali protagoniste di questa storia l'inverosimilità si ridimensiona enormemente).

Il film ci prova anche a non essere solo un melodrammone per far piangere la sala (cosa che riesce a fare benissimo), e dunque nonostante la drammaticità del tema e della situazione durante il film si ride anche parecchio, e non solo grazie all'ebreo attivista gay interpretato da Steve Carell.

Il tutto rimane però fortemente convenzionale nell'impianto, nonché piuttosto monodimensionale e prevedibile nella rappresentazione psicologica dei protagonisti del film, senza guizzi né alcun gioco di luce e ombra.

I giusti si sa dove sono e i cattivi pure; e quando i cattivi cedono non si può far a meno di far partire l'applauso. Insomma, come ho già detto, un'operazione educativa, ma non certo grande cinema.


Voto: 3/5

P.S. Ma Julianne Moore si sta specializzando in ruoli da malata terminale? Comincio a pensare che la sua sia una forma di scaramanzia ;-)

lunedì 19 ottobre 2015

L'insostenibile leggerezza dell'essere / Milan Kundera

L'insostenibile leggerezza dell'essere / Milan Kundera. Milano: Adelphi, 1985.

Questo romanzo di Milan Kundera è ormai un vero e proprio classico della letteratura contemporanea al punto tale che anche chi non l'ha letto ne utilizza il titolo - straordinariamente evocativo - nel parlare corrente.

Io stessa non l'avevo letto e alla fine è stato ancora una volta il libro di Missiroli a farmi venire la curiosità.

La prima impressione che ho avuto leggendo questo romanzo è stata quella di avere a che fare non con uno scrittore, una storia e una lingua contemporanei, bensì con un testo apparentato con la grande letteratura est europea dell'inizio del Novecento. Probabilmente la resa italiana della lingua ceca e le modalità narrative di Kundera sono talmente lontane da quelle della letteratura occidentale contemporanea a cui siamo abituati che il senso di distanza temporale e geografica è quasi inevitabile.

Da un punto di vista narrativo il romanzo parla della storia di Tomáš e Tereza, lui un medico costretto dopo l'occupazione russa del 1968 a rinunciare alla professione, non avendo accettato di sconfessare le sue opinioni comparse in un articolo, lei una cameriera con ambizioni da fotografa che il destino - attraverso una serie di coincidenze - ha fatto incontrare con Tomáš.

Tomáš però non riesce a rinunciare alla leggerezza delle avventure con altre donne, e tra queste in particolare si lega a Sabina, una pittrice, che a sua volta è amata anche da Franz, un professore universitario.

Alle vicende di questi quattro personaggi si mescola la storia della Cecoslovacchia e della città di Praga, i suoi rapporti con la Russia e con il comunismo, cosicché le amarezze personali si sommano a quelle di un intero popolo e nazione.

Ne viene fuori un quadro in cui non c'è molto spazio per l'ottimismo, nell'amara riflessione che la leggerezza è sostanzialmente un obiettivo impossibile da realizzare stabilmente per l'essere umano e che - in qualche modo - l'amore e tutte le passioni dell'uomo costituiscono un campo privilegiato di esplorazione e riflessione su questa amara verità.

Il libro di Kundera non resterà per me memorabile dal punto di vista narrativo, ma certe considerazioni sulla natura umana sono entrate stabilmente nel mio bagaglio di riflessione individuale.

Voto: 3,5/5

giovedì 15 ottobre 2015

La dittatura dell'inverno / Valeria Ancione

La dittatura dell'inverno / Valeria Ancione. Milano: Mondadori, 2015.

Avevo comprato questo libro dopo aver letto un articolo online ed essermi incuriosita. Poi - quando il libro mi è arrivato - mi sono accorta, cercando un po' di notizie in rete, che forse mi ero presa una fregatura.

Ho letto stroncature senza appello, recensioni ai limiti del sarcastico nei confronti della scrittrice e qualunque altro tipo di variante sul medesimo genere. Ero dunque preparata al peggio.

In realtà, alla fine della lettura di questo romanzo e dopo averci pensato un po', anche se non posso certamente dire di aver letto un capolavoro, ho capito qual è il difetto principale del libro: Valeria Ancione ha voluto strafare e dunque la storia risente di una - a tratti insopportabile - sovrabbondanza narrativa.

Cinque figli sono decisamente troppi per rendere credibile la vita di questa donna, un marito a questi livelli di pazienza è irreale, buttarsi nelle braccia di due uomini inutili e mai chiamati per nome (il Professore e il Direttore) per riempire un vuoto appare un po' eccessivo, pur senza alcuna valutazione moralistica, e poi le lettere all'amico e psicologo Alessandro sono un po' appiccicate lì come un espediente narrativo non proprio riuscito.

Anche la scrittura non è certo di alto profilo; frasi brevi e un po' concitate, qualche dialogo un po' sopra le righe, qualche descrizione un po' scolastica, qualche frase un po' da bacio perugina.

E allora, mi direte, perché leggere questo libro?

Perché secondo me riesce a esprimere molto bene la confusione di sentimenti, l'esaltazione che l'amore produce, il dolore della separazione, la forza di un legame che può sconvolgere una persona a metà della sua vita, costringendola a fare i conti con tutto quello che ha già costruito e tutti gli affetti in cui ha investito tanta della propria esistenza.

E sinceramente la derisione e il giudizio moralistico contenuto in alcune recensioni che ho letto mi sono sembrati l'espressione più tipica di chi crede che sia possibile incasellare i sentimenti e governarli in modo sempre razionale; invece credo che, una volta messo da parte il nostro snobismo, è difficile negare di aver scritto o letto o provato alcune delle sensazioni e dei sentimenti romantici che la storia di Nina, divisa tra suo marito e la giovane Eva, ci racconta.

Ok, magari qualcuno lo definirà un grosso Harmony del terzo millennio (e - aggiungerò - con scene erotiche molto meno interessanti ;-))) ), ma io a tratti ne sono stata conquistata. Ma si sa, io sono un'intellettuale solo molto per finta.

Voto: 2,5/5

martedì 13 ottobre 2015

Per amor vostro

Il film di Giuseppe M. Gaudino è un'esperienza cinematografica decisamente originale.

Se infatti sul piano narrativo apparentemente non ci sono elementi di particolare dirompenza, sul piano della confezione cinematografica l'effetto sorpresa è assicurato.

Anna (una splendida Valeria Golino) è sposata con Gigi (Massimiliano Gallo), un uomo violento e insensibile, coinvolto in affari loschi, e ha tre figli, di cui uno sordomuto. Anna è la responsabile del gobbo per una produzione televisiva, dove è molto apprezzata per la qualità del suo lavoro. Qui subisce il fascino dell'attore Michele Migliaccio (Adriano Giannini) che le fa intravedere la possibilità di una vita diversa e di una felicità che le sfugge ormai da tempo.

Ma Anna è anche una "capasciacqua", una specie di Alice nel paese delle meraviglie, che guarda al mondo con curiosità e terrore, con altruismo e scarso senso della realtà, al punto da perdere la cognizione della verità e lasciarsi vivere, accettando le regole di una vita che non è stata certamente generosa nei suoi confronti.

La musica - onnipresente - ci introduce la storia di questa donna attraverso un canto popolare che ricorda gli antichi cantastorie, e poi ne accompagna ogni emozione passando dal Quartetto Cetra a Handel e soprattutto alla musica napoletana tradizionale rivisitata in chiave moderna.

Il regista ci conduce negli occhi e nella mente di questa donna, facendoci vivere i suoi ricordi di un'infanzia infelice e spavalda, nonché i suoi incubi, quelli ad occhi aperti e quelli notturni. Così, a fronte di un film tutto in bianco e nero come ormai è la vita di Anna, divisa tra momenti di felicità quasi ingenua e momenti drammatici, si aprono squarci di colore quando la protagonista si confronta con i propri incubi, il mare di Napoli coperto da nuvoloni neri, mostri e strani personaggi che le si affollano nella mente, frammenti di ricordi e situazioni fantastiche che le tormentano i sogni. E così d'improvviso Anna si trasforma in un santino, una madonna napoletana dai colori sgargianti.

Il risultato è un film che trasuda napoletanità da tutti i pori: nelle sonorità, nella drammatizzazione, nelle contraddizioni, in quel mix unico di leggerezza e di pesantezza che è proprio della cultura napoletana, nell'immaginario "barocco" che la caratterizza. Come ha detto qualcuno, forse la stessa Anna incarna questa città generosa, cui tutti si aggrappano, tutti chiedono, senza mai dare nulla in cambio, questa città che è allegra con poco, ma è percorsa da incubi orribili, questa città che minimizza i propri problemi ma in questo modo svende la propria anima.

Voto: 3/5

giovedì 8 ottobre 2015

Io e lei

Se volessi fare la snob radical chic comincerei ad elencare tutti i difetti e le semplificazioni che caratterizzano questo film di Maria Sole Tognazzi, e certamente non mi mancherebbe la materia per farlo.

E invece di Io e lei voglio parlarne bene, perché credo che - oltre ad essere un film gradevole e divertente - sia un'operazione delicatamente istruttiva, potremmo dire un'operazione di condivisibile populismo, di cui in questo paese su certi temi abbiamo bisogno. Cosa di cui mi rendo ancora più conto quando all'uscita del film ascolto commenti maschili di questo tenore: "Vabbè, in fondo tra due donne è una cosa accettabile...".

Leggo che qualche critico si lamenta del fatto che si tratti di una commedia senza originalità né guizzi, che riproduce il perbenismo che caratterizza ormai quasi tutte le commedie italiane. E potrei anche essere d'accordo se non fosse che in questo caso si tratta di una scelta del tutto consapevole e voluta, perché qui l'aspetto dirompente sta già nelle protagoniste, due donne mature (interpretate tra l'altro da due attrici famose e fortemente presenti nell'immaginario collettivo, Margherita Buy e Sabrina Ferilli) che stanno insieme da cinque anni e che vivono un momento delicato del loro rapporto di coppia. La crisi comincia quando Marina (la disinibita e popolare Sabrina Ferilli), che ha lasciato il cinema per fare l'imprenditrice, decide di tornare a recitare in un film contro il parere della sua compagna (che non ama troppo l'esposizione mediatica), mentre Federica (l'insicura e preoccupata Margherita Buy) incontra una sua vecchia fiamma, un oculista trasferitosi da poco a Roma e fresco di separazione, e tradisce la sua compagna.

La parola chiave di questo film è normalità, ossia raccontare l'amore tra queste due donne esattamente come si farebbe per un amore eterosessuale, evitando stereotipi e forzature, facendone emergere l'universalità di alcune dinamiche e contemporaneamente le difficoltà specifiche, in buona parte determinate dal contesto socio-culturale. L'unico elemento macchiettistico è il domestico filippino gay, Rolando, che però - oltre a portare una nota divertente e colorata - può essere considerato una specie di citazione.

Le due attrici sono brave, per quanto qualcuno le dica poco credibili come amanti (la Ferilli eccelle soprattutto nella sua dimensione ironica e romanesca, meno secondo me in quella drammatica, la Buy è invece perfetta nella sua recitazione "dimessa" ma intensa) e - anche se è un po' vero che i personaggi di contorno restano un po' superficiali (l'ex marito di Federica, il figlio Bernardo, l'amante Marco, la famiglia un po' coatta di Marina) - è altrettanto vero che non ci sono demonizzazioni né tentativi di creare contrapposizioni tra buoni e cattivi. Ciascuno è quello che è e fa quello come può, come accade nella vita di tutti.

Con tocco delicato e venato di ironia, gli sceneggiatori affrontano il tema con un efficace piglio nazional-popolare ma colgono anche l'occasione per sollevare alcune problematiche specifiche, portando allo scoperto difficoltà e pregiudizi che ancora oggi rendono una storia come questa (basata sull'amore e sui normali problemi di una coppia) "diversa" agli occhi degli altri e di chi - come Federica - non vuole farsi incasellare in una categoria, ma semplicemente vuole poter amare la persona di cui è innamorata senza essere giudicata.

Io l'ho trovato sopra tutto un film "sincero". E questo mi basta.

(Poi ha ragione anche Claudio Rossi Marcelli, ma credo che la decisione della regista di non portare sullo schermo l'atto sessuale faccia parte di un tentativo di sottrarsi alla morbosità e di poter parlare a tutti. Anche se di fronte a chi non riesce a uscire dai propri pregiudizi c'è poco da fare e qualunque scelta non è mai azzeccata).

Voto: 4/5