martedì 28 luglio 2015

Mumin e i briganti / Tove Jansson

Mumin e i briganti / Tove Jansson. Bologna: Black Velvet editrice, 2010.

Chi sono i Mumin? Sono dei troll tenerissimi e totalmente folli che assomigliano a degli ippopotami e che abitano in qualche sperduto posto della Finlandia, la nazione da dove arriva la loro creatrice Tove Jansson, la quale prima aveva dedicato a questi buffi personaggi dei racconti e romanzi e poi ne ha fatto anche una serie a fumetti (Se volete ascoltare la lettura del racconto "L'ultimo drago" o volete farlo ascoltare ai vostri bambini, eccolo su Soundcloud).

Per me erano totalmente sconosciuti prima che qualcuno mi mettesse tra le mani questo albo pubblicato da Black Velvet.

Nell'albo sono contenute quattro storie: Mumin e i briganti; La famiglia di Mumin; Mumin in vacanza; Mumin e l'isola deserta. Una più stralunata ed esilarante dell'altra.

Nella prima il troll Mumin (protagonista assoluto di queste storie), dopo aver perso la casa, viene coinvolto dall'amico Sniff in una serie di tentativi - più o meno assurdi - di fare soldi. In questo episodio, Mumin conosce Grugnina, che diventerà la sua fidanzata. Nel secondo racconto Mumin ritrova la sua famiglia, papà e mamma Mumin, di cui aveva perso traccia da tempo, e introduce alla sua famiglia la fidanzata Grugnina e i suoi amici. Nel terzo episodio la famiglia Mumin parte per una vacanza in un albergo di lusso, senza sapere di dover avere i soldi per pagare i servizi; avventure e disavventure, nuovi e vecchi incontri metteranno a repentaglio gli equilibri della famiglia fino al rincuorante happy end. Nell'ultima storia i Mumin partono con la loro barchetta verso un'isola deserta, dove li attendono pirati e pericoli che ancora una volta - nella loro totale naiveté - riusciranno in qualche modo a superare.

Ogni personaggio delle storie dei Mumin è chiaramente caratterizzato e la cosa più divertente è che - a differenza di quanto accade in altre storie per bambini - tali personaggi hanno caratteristiche e comportamenti in cui la linea di confine tra bello e brutto, positivo e negativo, giusto e sbagliato, simpatico e antipatico è molto sottile. I Mumin sono abbastanza politicamente scorretti: papà Mumin è uno che ama l'avventura e che dà la sensazione che la vita familiare lo annoi veramente moltissimo; per questo trascina la sua famiglia in avventure e situazioni improbabili mettendone a rischio persino la vita. Mamma Mumin è paziente e dedita alla casa; asseconda suo marito in qualunque buffa e assurda impresa perché sa che lo deve lasciar fare e che prima o poi si ritorna alla normalità. Grugnina è vanitosa e amante dei gioielli e dei vestiti, e in nome di questi sarebbe disposta a tradire persino il povero Mumin.

E poi c'è appunto Mumin, disorientato in questo mondo di mezzi matti, quando invece lui vorrebbe solo essere amato e la sua filosofia di vita si riassume nella frase: "Io voglio solo vivere in pace, piantare patate e sognare!". Ma poi, alla fine, si ritrova travolto nella baraonda della vita e nell'inquietudine degli altri, e forse rinuncia alla pace della solitudine in cambio del bisogno - universale - di appartenere e partecipare.

Per la serie: andare a dormire con un sorriso tenero e un po' stupido sulle labbra.

Voto: 4/5

domenica 26 luglio 2015

Of monsters and men. Roma, Auditorium Parco della Musica, 8 luglio 2015

In questa caldissima estate romana - che sta passando rapidissimamente - non potevo farmi mancare un concerto della rassegna "Luglio suona bene", alla cavea dell'Auditorium. Quest'anno ho scelto di andare a sentire gli islandesi Of monsters and men, dei quali avevo amato e ascoltato parecchio l'album My head is an animal e che ora sono tornati in pista col nuovo album dal titolo Beneath the skin.

La musica degli Of monsters and men in realtà è molto più conosciuta del loro nome, dal momento che alcuni dei loro singoli sono stati utilizzati in colonne sonore di importanti film (per esempio, Silhouettes in Hunger games: La ragazza di fuoco e Dirty Paws in I sogni segreti di Walter Mitty di Ben Stiller), nonché in famose campagne pubblicitarie; anche se - a dire il vero - io li avevo cominciati ad ascoltare ben prima che le loro sonorità diventassero così popolari ;-)

Per quanto mi riguarda mi avevano incuriosita sia i punti di contatto con la musica dei Mumford & sons, depurata di qualche eccesso folk, sia il mix di voci dei due cantanti del gruppo che mi ricordano molto - in alcuni passaggi - la sensazione trasmessa dalle voci degli The xx.

Il cuore della band è rappresentato dalla giovane cantante e chitarrista Nanna Bryndís Hilmarsdóttir e da Brynjar Leifsson, un suo compagno di scuola con cui ha condiviso la passione per la musica e avviato questo progetto. Accanto a loro un cantante-chitarrista, un bassista e un batterista.

Nell'esibizione romana il gruppo è completato anche da un tastierista e due donne ai fiati.

Insomma, tanta tanta roba sul palco e tanta tanta musica. Pubblico abbastanza numeroso - soprattutto in platea - e devo dire davvero molto variegato (cosa che mi ha stupita piacevolmente). La combinazione di queste due condizioni ha fatto sì che, dopo nemmeno dieci minuti dall'inizio del concerto, tutti hanno abbandonato le loro paludatissime poltrone e in buona parte si sono precipitati sotto il palco a ballare e cantare, mentre gli altri ballavano in piedi tutti intorno o dai loro posti.

I due cantanti del gruppo hanno dimostrato di essere magnetici e trascinanti: in particolare, Nanna Bryndís Hilmarsdóttir ha portato nella cavea dell'Auditorium il mistero dei paesaggi islandesi con la sua aria eterea e complice, mentre Brynjar Leifsson con la sua non alta statura e la sua corporatura robusta, nonché con la sua voce affascinante e graffiante, ci ha trascinato nel mondo magico degli dei minori dell'isola dei ghiacci (nonostante la serata quasi bollente).

L'allestimento del palco è semplice, ma molto efficace. I musicisti hanno alle spalle delle luci che creano effetti vari in consonanza con l'andamento musicale, e così si alternano momenti di luce piena a momenti quasi al buio, in cui solo il volto di Nanna viene illuminato da una luce chiara.

Gli Of monsters and men non lesinano sulla musica. Ci presentano diverse canzoni del loro nuovo album, ma ci propongono quasi tutti i loro successi, quelli con i quali sono diventati famosi e sui quali il pubblico si scatena nel ballare e cantare.

La cosa più fastidiosa della serata resta l'intervento del personale di assistenza, che almeno un paio di volte viene a dirmi che non posso fotografare con la mia macchina fotografica; tutto questo mentre dall'inizio alla fine del concerto c'è chi fotografa con il cellulare e chi riprende integralmente il concerto con le videocamere GoPro. A un certo punto sto per rispondergli male anche se capisco che fa solo il suo lavoro.

Ma quand'è che impareremo (e lo dico anche per esperienza diretta in altri contesti) a superare istituzionalmente (e non per la comprensione del singolo) certe regole assurde e obsolete che sono ridicole anche solo per chi deve farle rispettare? (Io comunque un po' di foto le ho fatte lo stesso... ;-))

Voto: 3,5/5

giovedì 23 luglio 2015

In bici tra fiumi e canali della Franche Comté

La cosa buffa è che pensavamo di andare in Borgogna!

Eccerto, perché la scelta del viaggio quest'anno è stata ancora più avventurosa del solito e - esclusa una cosa, esclusa l'altra - alla fine abbiamo deciso per la Francia, che dal nostro punto di vista è sempre una garanzia. In realtà - a nostra parziale giustificazione - dobbiamo dire che il viaggio da noi prescelto "Da Digione a Montbéliard" era classificato sotto Francia / Borgogna e pure nella descrizione si insiste in questo senso.

Al punto tale che eravamo pure un po' preoccupate di annoiarci un po', visto che in Borgogna ci eravamo già state qualche anno fa e avevamo pedalato tra filari e filari di vigne... (il resoconto qui e qui). E invece praticamente il giorno prima - e dopo aver già comprato la guida Routard della Borgogna - mi accorgo che - a parte Digione - nella guida non c'è nemmeno uno dei paesi dove pernotteremo e che attraverseremo. E così finalmente mi decido a guardare una carta ed ecco svelato l'arcano: a parte la prima tappa (da Digione a Dole), praticamente siamo per tutto il viaggio in un'altra regione francese che si chiama Franche-Comté. Sì, avete capito bene, Comté come il formaggio, perché lo fanno proprio lì. Siamo ai piedi del massiccio del Jura e risaliamo il fiume Le Doubs andando verso la Svizzera.

Allora, eccoci pronte alla partenza. Dopo il solito viaggio in cuccetta sul Thello (!), il nostro primo giorno - una domenica - trascorre in una Digione caldissima e deserta, con tutti i negozi chiusi, ma per fortuna un bel mercatino dell'antiquariato. Trovare da mangiare per questa prima sera non è affatto semplice (e non lo sarà per tutta la vacanza, visto che purtroppo non abbiamo la mezza pensione!) e dopo un po' di giri e di delusioni perché tutti i posti segnalati dalle guide sono chiusi decidiamo di mangiare una crepe e una galette, sempre in zona mercato, alla Licorne.

Il giorno dopo ci attende la consegna delle bicicletta da parte dell'agenzia tedesca e poi la prima tappa, Dijon - Dole (circa 60 km: la novità di quest'anno è che sto utilizzando MyTrails per registrare i percorsi e raccogliere le statistiche. Peccato che su questa tappa ho fatto casino e quindi non ho i dati precisi!). Questa prima tappa si svolge in buona parte lungo il Canal de Bourgogne che arriva fino a Saint Jean de Losne. Qui ci fermiamo e - visto che con nostro grande disappunto il lunedì mattina il mercato di Dijon è chiuso - non abbiamo nulla da mangiare e dunque ci fermiamo da Chez Nath', su una bella terrazza che affaccia sul fiume Le Doubs e mangiamo delle cosine leggere, tipo filetto di maiale e formaggi! ;-)

Il pomeriggio cominciamo a renderci conto che sarà una settimana infernale dal punto di vista del caldo e che dovremo regolarci di conseguenza nei giorni successivi. Dopo esserci fatte una risata di fronte a una cartello stradale all'ingresso di un paesino che dice "Il y a encore des enfants à ecraser. Vous pouvez accelerer", eccoci di già a Dole, città natale di Louis Pasteur, nonché città di importante ruolo e tradizioni, come capiamo quasi subito guardando i grandi palazzi e le grandi chiese, nonché le fortificazioni che la circondano. Né si può dimenticare che nella zona di Dole si trova l'azienda dei formaggi e formaggini de La vache qui rit!

Nel frattempo S. si è persa sia la bandana che i guantini (sarà almeno il terzo paio di guantini che perde! Che, bisognerà incollarglieli alle mani?). Dopo esserci installate all'Hotel de la Cloche, facciamo un giro per la città che devo dire rimarrà una delle più belle incontrate durante questa vacanza. Anche qui la ricerca del ristorante è faticosa (alcuni sono chiusi il lunedì, altri sono chiusi per ferie), ma alla fine la cena a Le Gustalin si rivelerà ottima. Qui assaggiamo per la prima volta la saucisse de Morteau (con patate bollite e cancoillotte, ossia formaggio fuso), ma anche gli altri piatti sono ottimi (ci rimarrà nella memoria la panna cotta alla menta con rabarbaro e gelato).

La tappa successiva ci porterà da Dole a Besançon (alla fine MyTrails registrerà 67 chilometri). Il percorso in questa tappa è bellissimo, lungo il fiume Le Doubs e il Canale Du Rhone au Rhin, passando per paesini, casette fiorite, alte rocce ecc. A pranzo ci fermiamo alla spiaggia sul fiume nei pressi di Orselle, dove mangiamo il nostro pranzo di caprini e frutta biologica comprato al mercato coperto di Dole. Bellissimo l'arrivo a Besançon dalla pista ciclabile, quando ti si staglia davanti lo spuntone di roccia su cui si erge la cittadella fortificata. In città fa un caldo assurdo e, persino quando usciamo dopo le sei del pomeriggio, è quasi impossibile andare in giro. Comunque riusciamo lo stesso a vedere un po' della città che ha dato i natali a Victor Hugo ed è considerata la capitale degli orologi e del tempo. La sera ceniamo in un cortiletto di un posticino davvero particolare (che sta al di là del fiume) e che si chiama L'Affineur comtoise (buonissimo sia l'agnello sia il pesce, nonché il fromage blanc ai frutti rossi).

Il giorno dopo, prima di partire per Baume Les Dames andiamo a visitare la cattedrale e la cittadella, che meritano certamente una visita. La tappa, che doveva essere molto breve, alla fine è di oltre 54 chilometri, perché quando arriviamo all'ora di pranzo a Baume Les Dames scopriamo che il nostro albergo è in realtà a Hyèvre-Paroisse, per arrivare al quale bisogna fare ulteriori 10 chilometri. A Hyèvre, un paese piccolissimo dove non c'è neppure un bar, c'è il nostro Relais de la Vallèe, un po' un piccolo ecomostro anni Settanta dove però c'è una specie di chef stellato. E infatti la cena si rivelerà la migliore di tutta la vacanza. Mangiamo come antipasto un piatto di salumi e delle cozze con uova e salsiccia (buonissime!), poi come piatto principale la Douillabaisse (una zuppa di pesce ispirata a quella bouillabaisse di Marsiglia) e le costatine di agnello alle erbe. Poi formaggi e infine dolci buonissimi!

La quarta tappa di 54 km ci porterà a Montbéliard dove ci fermeremo due notti. Lungo il percorso facciamo una sosta nel paese di Isle sur Le Doubs, collocato tra diversi canali e corsi d'acqua, dove io mi fermo a comprare dei regalini in un negozio di prodotti tipici. Solo a quel punto mi renderò conto di aver dimenticato due paia di calzini - che avevo lasciato fuori ad asciugare - nell'albergo precedente (è la vacanza delle cose perse!). Durante questa tappa - sempre sotto una canicola spaventosa - dobbiamo affrontare le uniche due vere salite della vacanza, ma ce la caviamo splendidamente.

All'arrivo a Montbéliard ci tappiamo in stanza, perché fuori non si può stare (per quanto nella stanza la temperatura non sia da meno!). Dopo le sei andiamo a fare un giro per la città, ma siamo completamente rimbambite dal caldo. Ci fermiamo a bere qualcosa. Poi inizia la faticosa ricerca del ristorante che si concluderà con la scelta della Brasserie du Theatre, che in realtà è un ristorante curdo, dove mangiamo una buonissima grigliata mista di carne!

La nostra quinta e ultima tappa è un'andata e un ritorno, la cui destinazione è Belfort, per un totale anche in questo caso di circa 60 km. Dopo una notte di sofferenza per il caldo, partiamo alla buonora e arriviamo a Belfort prima delle 11. Visita alla città vecchia, il cui cuore è la Place des Armes; poi parcheggiamo le bici e saliamo alla cittadella per vedere il simbolo della città, il famoso e monumentale leone di Bartholdi (lo stesso scultore della statua della libertà). Dalla terrazza panoramica possiamo guardare l'intera città, nonché la parata militare che si svolge (non sappiamo per quale occasione) proprio sotto la cittadella. Pausa mangereccia per due quiches buonissime a un panificio molto gettonato e poi rientro alla base dopo pranzo, sotto la canicola, al punto che quando vediamo il cosiddetto point d'eau (una fontana che sta a pochi chilometri dall'arrivo a Montbéliard) ci fiondiamo e ci svuotiamo le borracce addosso. La nostra ultima cena chiude in un cerchio ideale la nostra vacanza, visto che mangiamo alla creperie Les Alizés, dove prendiamo due galettes buonissime (una con saucisse e cancoillotte e l'altra con prosciutto crudo, uovo, emmenthal e formaggio alla raclette) e due crepes-bombe (una con cioccolato, panna e rhum, l'altra con panna, mele caramellate, caramello fuso, gelato).

Il giorno dopo si torna a Digione in treno, dove facciamo un po' di shopping e compriamo gli ultimi regali e souvenir (peccato che anche questa volta non riusciamo a fare il nostro aperitivo al mercato che è chiuso!). La sera facciamo un lungo aperitivo-cena in un posto carino vicino il mercato che si chiama Cafè de l'industrie, e poi eccoci nella nostra cuccetta senza aria condizionata di ritorno in Italia.

Anche quest'anno purtroppo la nostra vacanza in bicicletta è finita! Ma la nostra mente va già ai weekend pedalanti del prossimo autunno!

martedì 21 luglio 2015

Tempi glaciali / Fred Vargas

Tempi glaciali / Fred Vargas; trad. di Margherita Botto. Torino: Einaudi, 2015.

Diciamolo subito: Tempi glaciali è un Vargas minore. Ossia - dal mio modesto punto di vista - non è uno dei suoi romanzi migliori. Mi sono immaginata la povera Fred Vargas pregata in ginocchio dal suo editore per produrre un nuovo lavoro, essendo ormai passati diversi anni dalla Cavalcata dei morti. E Fred - che forse non aveva più molta voglia di seguire le vite di Adamsberg e colleghi - si è seduta a un tavolino, ha richiamato alla mente tutti i personaggi della saga e le loro caratteristiche e ha costruito una storia usando le sue competenze, ma senza lasciarsi veramente coinvolgere. E così è nato Tempi glaciali.

Il risultato è un romanzo scritto con la consueta maestria dalla scrittrice francese, ma un po' ingessato in una costruzione poco naturalistica. E così è come se, nel corso della lettura, vedessimo sfilare tutti i personaggi che abbiamo imparato ad amare nei romanzi precedenti e per ognuno di loro ci venisse ricordato per cosa li abbiamo amati o - in ogni caso - quali sono le loro specialità. Il tutto però resta slegato dal cuore della storia, quasi giustapposto, non creando quell'empatia profonda a cui la Vargas ci ha abituati.

Il giallo che prova a fare da collante è interessante e si muove tra una vicenda del passato recente (la morte di due persone durante una sfortunata escursione in un'isoletta islandese di un gruppo di turisti francesi) e la lunga coda di un momento storico lontano nel tempo, ma molto importante per i francesi, il periodo post-rivoluzionario, in particolare gli anni di Robespierre (riportati in vita dalle rappresentazioni molto realistiche e filologicamente attente realizzate dalla Società di studi sugli scritti di Robespierre, anch'esse funestate da misteriosi suicidi/omicidi).

Lo spalatore di nuvole Adamsberg - com'è nel suo stile - riuscirà randomicamente a connettere vicende e informazioni apparentemente lontane e prive di collegamenti, che sfuggono al razionale e colto Dangalrd.

Alla fine della lettura il dato più interessante è la full immersion che questo romanzo ci fa fare dentro un momento della storia francese che resta una ferita ancora aperta per questo popolo e dimostra di avere un impatto ancora straordinario sui sentimenti individuali e collettivi.

Ora, però, cara Fred Vargas, lasciami dire una cosa: non sono tra quelli che si aspettano che tu continui a scrivere di Adamsberg per tutta la vita, ma ti prego - se decidi di farlo - fallo solo se vuoi. Non sporcare la purezza e l'intensità del rapporto che in questi anni abbiamo costruito con i tuoi personaggi. Preferiamo perderli di vista piuttosto che sentirli meno veri e meno nostri.

Voto: 3/5

sabato 18 luglio 2015

Il gioco di Ripper / Isabel Allende

Il gioco di Ripper / Isabel Allende; trad. di Elena Liverani. Milano: Feltrinelli, 2013.

Diciamo che non frequentavo più Isabel Allende dai tempi de La casa degli spiriti e dunque non sapevo cosa aspettarmi da questa sua scelta di cimentarsi nel giallo-poliziesco.

Innanzitutto, devo fare una lamentela ufficiale alla Feltrinelli. Ma è mai possibile che nel risvolto della copertina (e quindi immagino in tutte le sinossi sparse ovunque sulla rete) si informi il potenziale lettore di una cosa che accade praticamente a due terzi del libro e che condiziona nella lettura, in quanto fornisce degli indizi per svelare il giallo?

In ogni caso, nelle prime duecento pagine mi sono chiesta se non mi fossi imbattuta nel libro di qualche delirante americano (un ghost writer della Allende), talmente esso risulta sovrabbondante ed eccessivo nei personaggi nonché nell’intreccio: Amanda, la protagonista, pratica alcune attività riconosciute dalla medicina olistica, il suo ex marito è il commissario della squadra omicidi di San Francisco, la loro figlia Amanda gioca a Ripper con il nonno e altri ragazzi e strani personaggi dei quattro angoli del globo, l’amico Ryan Miller è un ex navy seal con una protesi al posto di una gamba. E così via.

Ok che il gioco di Ripper richiamato nel titolo è un gioco di ruolo e probabilmente la scrittrice sceglie di raccontare questa storia utilizzando gli schemi propri del gioco di ruolo, ma non esageriamo! ;-)

Il giallo decolla sul serio solo dopo la prima faticosa metà del romanzo. A quel punto, fatto ormai il callo ad alcuni eccessi, la narrazione diventa anche coinvolgente e giunge in porto suscitando un certo interesse, sebbene confermandosi alquanto kitsch rispetto ai miei gusti letterari.


Alla fine della lettura, nella pagina dei ringraziamenti, ho capito l'anomalia di questa scelta narrativa della Allende. Il marito, William Gordon, è uno scrittore di romanzi polizieschi e inizialmente il libro doveva essere scritto a quattro mani, ma non è facile per due scrittori – per di più marito e moglie – condividere l’attività della scrittura; e dunque la Allende ha deciso di proseguire da sola, sebbene con il supporto e i suggerimenti del marito.

In conclusione, considero Il gioco di Ripper poco più di una lettura estiva, che non credo lascerà molte tracce nella mia memoria se non per l’immagine del cane navy seal, Attila, lanciato col paracadute dall’elicottero, o con gli occhiali a infrarossi.

Voto: 2,5/5

P.S. Dimenticavo: questi sono i libri che sceglie C. per le vacanze! ;-)))

giovedì 16 luglio 2015

V for vendetta / Alan Moore and David Lloyd

V for vendetta / Alan Moore e David Lloyd. Ariccia (RM): Magic Press, 2006. (Grandi storie; 04)

Leggo il graphic novel cult realizzato da Alan Moore (autore della storia) e David Lloyd (autore dei disegni) grazie al prestito di R. che ne ha comprato questa vecchia edizione su Ebay. L'opera mi incuriosisce parecchio, sia per la sua fama sia perché avevo amato molto il film.

Mi rendo conto da subito che si tratterà di una lettura impegnativa, rispetto ad altre opere a fumetti. Innanzitutto perché V for vendetta nasce come un seriale e mantiene questa struttura un po' frammentaria anche nella versione che raccoglie in un'unica sequenza tutte le puntate; in secondo luogo perché le tavole - in bianco e nero (come nella versione originale, sebbene ne sia esistita anche una versione a colori) - sono fitte e con un disegno un po' sporco e dunque non sempre è facilissimo, in un formato ridotto come è quello dell'albo che ho in mano, decifrare tutte le sfumature di una trama piuttosto articolata.

La storia raccontata dal graphic novel è nota: siamo in una Londra di un futuro non troppo lontano in cui - a seguito di un conflitto nucleare - si è instaurato un regime totalitario che - dopo aver fatto uso, nel periodo bellico e immediatamente post-bellico, dei campi di concentramento - controlla i cittadini in tutte le loro azioni pubbliche e private e punta a eliminare le minoranze.

In questo scenario si muove V, un misterioso individuo che gira con la maschera di Guy Fawkes, un cappellone e un mantello, e - ispirandosi ai principi dell'anarchia consapevole - ha lanciato la sua sfida al sistema, prima uccidendo tutti gli aguzzini del campo di concentramento dove era internato, poi attaccando i simboli del potere e le istituzioni del sistema totalitario.

Accanto a lui Evey, una ragazza che egli ha salvato dalla polizia di stato mentre tentava di prostituirsi e a cui poco a poco rivelerà i suoi ideali e il suo piano, al punto che nei passaggi finali Evey diventerà determinante per compiere il progetto di V.

V for vendetta è un graphic novel complesso, anche per il numero di riferimenti filosofici e politici, le citazioni di tipo musicale e letterario, nonché per la quantità di personaggi e percorsi che la storia segue e tiene insieme tra flashback, inserti onirici e visioni psichedeliche, dentro un universo immaginato in ogni dettaglio.

Per questi motivi probabilmente non è adatto a tutti i palati e - come è successo a me - si può fare fatica ad apprezzarlo in tutte le sue sfumature. La sensazione, però, di aver letto qualcosa di talmente originale da essere destinato a rimanere nel tempo e a sopravvivere alle generazioni è forte dalla prima all'ultima pagina.

Voto: 3,5/5

mercoledì 8 luglio 2015

Lacci / Domenico Starnone

Lacci / Domenico Starnone. Torino: Einaudi, 2015.

Vanda. Aldo. Lidia. Sandro e Anna.

I personaggi protagonisti dell'ultimo romanzo di Starnone, Lacci.

Un libro che parla della tensione, senza via d'uscita alcuna e che caratterizza irrimediabilmente le nostre vite umane, tra stabilità e novità, sicurezza e libertà. E dell'incessante flusso delle cose, di quello che siamo e di quanto ci si muove intorno, del continuo cambiamento, che è vita e anche morte, che è gioia e anche sofferenza, che è condizione intrinseca della natura umana, e dunque cercata e subìta al contempo.

Starnone decide di mettere in scena questa commedia umana attraverso tre "atti" (che lui chiama "libri"), in cui una vicenda tutto sommato semplice viene letta da tre punti di vista differenti, ma tutti interni alla stessa famiglia: quelli di Vanda, di Aldo, suo marito, e di Sandro e Anna, i figli. Punti di vista raccontati attraverso pennellate e frammenti di vita, non veri ritratti psicologici, cosicché è inevitabile una certa assenza di approfondimento che a tratti può risultare insoddisfacente, ma che è in qualche modo coerente con l'impianto del romanzo.

Nel primo atto leggiamo le lettere che Vanda ha mandato a suo marito nel periodo in cui quest'ultimo era andato via di casa per seguire un'altra donna, Lidia, molto più giovane di lui e della moglie. Leggiamo la sofferenza di Vanda, il suo rancore, le sue accuse, i ricatti affettivi, il tentativo di suicidio e ci chiediamo che razza di uomo è quello che ha provocato tutto ciò nell'indifferenza più totale verso la moglie e i figli.

Nel secondo atto, è Aldo a parlare in prima persona. Siamo all'oggi. Aldo e Vanda sono un'anziana coppia come tante altre, stanno insieme da 50 anni e stanno partendo per le vacanze estive. Alcuni episodi spiacevoli prima della partenza ci fanno capire che tra di loro c'è qualche tensione, però né più né meno che in altre coppie che stanno insieme da così tanto tempo. Poi, al rientro dalle vacanze la casa è completamente sottosopra come se ci fossero stati i ladri e il gatto Labes è sparito. Nel provare a rimettere in ordine il soggiorno, Aldo trova le lettere che sua moglie gli aveva scritto negli anni della separazione e così, su quella vicenda, ascoltiamo il punto di vista di Aldo, i suoi sentimenti, i suoi tormenti, e a poco a poco capiamo anche cosa è successo dopo e in che termini quella separazione sia stata superata.

Infine, nel terzo atto torniamo temporalmente un po' indietro rispetto al momento in cui Aldo e Vanda rientrano dalle vacanze. Siamo ancora in casa, ma questa volta ci sono Sandro e Anna, cui i genitori hanno chiesto di occuparsi della casa e del gatto durante la loro assenza. I due fratelli - adulti e con loro vite ormai autonome - non vanno d'accordo, ma nel ritrovarsi insieme nella casa di famiglia anche loro cominciano a confrontarsi con il passato, il rapporto con i genitori e la loro visione di quello che è accaduto tanti anni prima quando il loro padre è andato via di casa e dopo, quando è ritornato.

Ne viene fuori un ritratto familiare non veramente drammatico, anzi per molti versi casi venato di sottile ironia, nonché caratterizzato da quella disfunzionale normalità che la maggior parte di noi ha sperimentato nei propri contesti familiari. E forse proprio per questo se ne esce in certa misura disperati, o forse meglio dire rassegnati.

La constatazione che attraversa tutto il libro è che il tempo ci cambia e cambia le cose intorno a noi, e questa è la principale causa da un lato dei nostri entusiasmi e dall'altro del nostro senso di precarietà: «[...] cosa accade alle belle frasi che ci entrano nella testa, come ci muovono, come diventano prive di senso, o irriconoscibili o imbarazzanti o ridicole?» (p. 50)

Il caso e la curiosità ci mettono di fronte alla novità e in un attimo cambiano le proporzioni delle cose, le certezze si frantumano, dandoci da un lato un'iniezione di vitalità, dall'altro instillando rapidamente il terrore che anche quel cambiamento non sarà definitivo. Così si esprime Vanda: «Ero giovane, mi sentivo attratta, non sapevo quanto è casuale l'attrazione. Per anni non sono stata felice, ma nemmeno infelice. Ho capito tardi che mi incuriosivano gli altri né più né meno di quanto mi avevi incuriosito tu. Mi guardavo intorno disorientata. A ogni occasione - mi dicevo - potrei avere un amore: è come la pioggia, una goccia urta a caso contro un'altra goccia, si forma un rigagnolo. Basterebbe insistere nella curiosità iniziale, e la curiosità diventerebbe attrazione, l'attrazione crescerebbe fino a indurre al sesso, il sesso imporrebbe la ripetizione, la ripetizione fonderebbe una necessità e un'abitudine. Ma credevo di dover amare solo te per sempre e quindi guardavo da un'altra parte, stavo dietro ai capricci dei bambini. Che stupidaggine. Ammesso che io ti abbia mai amato - e oggi non ne sono sicura: l'amore è un contenitore dentro cui ficchiamo di tutto -, è durata poco.» (p. 105) E questo invece è Aldo che parla della sua relazione extraconiugale: «Mi resi conto tardi che non si trattava soltanto di uno scambio sessuale, di un tassello della battaglia contro il concetto stesso di adulterio, di una gioiosa amicizia erotica, di una delle tante pratiche liberanti che stavano rifondando il mondo. Amavo quella ragazza. L'amavo nella maniera più arretrata, vale a dire in modo assoluto. L'idea di allontanarmi da lei, di tornare da mia moglie e dai miei figli, di lasciarla ad altri, mi levava la voglia di vivere.» (p. 60)

Come si conciliano la gioia di vivere, l'energia e la forza che l'entusiasmo di un incontro produce con i legami stabili, le sicurezze, i sensi di colpa, le paure individuali? Per Aldo «Il tempo con Lidia era tempo gioioso, tempo leggero, non mi bastava mai. Mi sentivo carico di energie, scrivevo, pubblicavo, piacevo, come se la palude che mi portavo dietro dall'infanzia e che era durata fino a poco tempo prima fosse stata di colpo bonificata da quella giovane donna colorata ed elegante.» (p. 63) Dall'altro, «Quando ero con loro mi proteggevo mentendo, la bugia serviva a tutelare l'impressione straordinaria di salute che mi aveva invaso. In quei momenti mi sentivo umiliato sia dalla mia incapacità di essere vero, sia dalla verità insopportabile della disperazione di mia moglie, del disorientamento dei miei figli. Per essere come mi sentivo, per dire davvero perché mi stavo comportando a quel modo, avrei dovuto parlare della mia felicità con Lidia. Ma cosa ci sarebbe stato di più crudele?» (p. 64)

E dunque la crudeltà dell'indifferenza: «In una frazione di secondo Vanda mi lesse negli occhi quanta forza riuscivo a trarre dal quel mio benessere fuori di lei e capì di colpo che niente mi avrebbe trattenuto, nemmeno i bambini. Seppi per qualche attimo che ciò che le stavo facendo era particolarmente malvagio e corsi via per evitare di prenderne atto.» (p. 73) «Mi terrorizzò ma non mi coinvolse, il suo tormento non mi entrò mai nel petto come se fosse il mio. Ero in uno stato di ebbrezza che mi avvolgeva come una tuta ignifuga.» (p. 58)

Come non farsi travolgere dalla paura dell'infelicità, dal terrore che il ciclo naturale delle cose riporti tutto al punto di partenza? Come evitare di pensare che la felicità non sia un fatto di scelte ma un effimero regalo che ci capita o che ci sarà tolto quando non ce la meritiamo più? Lo stesso Aldo finisce per pensare questo in riferimento a Lidia: «L'amavo sempre di più e le attribuivo una finezza, un'intelligenza, una sensibilità che ero sempre meno sicuro di meritarmi.» (p. 77)

In definitiva, come si può credere all'amore, al suo potere, alla sua durata, alla sua capacità di superare gli ostacoli, se i cambiamenti ci rimettono continuamente in discussione? «C'è una distanza che conta più dei chilometri e forse degli anni luce, è la distanza dei cambiamenti. Mi allontanai da mia moglie e dai miei figli andando dietro a ciò che mi appassionava: la donna nuova che amavo e un alacre operare anch'esso nuovo, che in una successione all'apparenza inarrestabile sommò piccolo successo personale a piccolo successo personale.» (p. 74)

E cosa succede se decidiamo di fermarci? Aldo ammette che «Dalla crisi di tanti anni fa abbiamo imparato entrambi che per vivere insieme dobbiamo dirci molto meno di quanto ci taciamo.» (p. 90) E i suoi figli non possono fare a meno di percepire l'inevitabilità della sconfitta: «Nostra madre gli pareva la negazione del piacere di vivere, e anche noi, anche io e te. Non si sbagliava, eravamo proprio questo, la negazione, la negazione. Il suo torto vero è stato non riuscire a rifiutarci fino in fondo. Il suo torto è stato che una volta che hai agito in modo da ferire in profondità, in modo da uccidere o comunque sfregiare per sempre altri esseri umani, non devi fare passi indietro, ti devi assumere la responsabilità del crimine fino in fondo, un crimine non si commette a metà.» (p. 126)

Che cosa è in grado di superare il costante mutare delle cose oltre al desiderio e alla tensione stessa verso di esso?

Voto: 4/5