sabato 9 maggio 2015

Mi chiamo Maya

Come sanno tutti quelli che leggono il mio blog, tendo ad essere piuttosto cauta nei giudizi e difficilmente grido al capolavoro, né mi piace stroncare quello che vedo o leggo. Il mio amico M. mi prende ormai in giro perché sostiene che l’80% dei miei post portano il voto 3 e ogni volta si lamenta perché secondo lui dovrei esprimermi in termini più netti. Forse ha ragione lui, ma io sono fatta così, soprattutto nella manifestazione pubblica delle mie opinioni e dei miei giudizi. E poi il voto – che pure è un modo sintetico efficacissimo per esprimere il proprio giudizio – mi mette sempre in difficoltà e dunque è giusto che chi non si prende anche la briga di leggere quello che scrivo non sia aiutato nella scelta dai voti che metto. In un post di qualche tempo fa, Il perché di tutto sommato avevo anche spiegato che le stroncature di solito nel mio blog non ci sono perché le cose che non mi piacciono spesso ne restano fuori.

Insomma tutta questa lunga premessa per dire che il voto che ho messo a questo film è uno dei più bassi che incontrerete nel mio blog. E vi assicuro che mi è costato tantissimo scriverlo lì in fondo a questa pagina; e anzi – vi dirò – che se dovessi mettere un voto per tutto ciò che si è mosso intorno a questo film gli darei anche 4.

Provo a spiegarmi. Non credo che avrei deciso di andare a vedere Mi chiamo Maya se non me l’avesse consigliato S., consiglio tra l’altro non dovuto a una visione in anteprima dello stesso ma all’affetto verso un amico coinvolto nella sua realizzazione. E vabbè, mi dico, sosteniamo questo povero cinema italiano e i giovani (e nemmeno più tanto giovani) che faticosamente tentano di trovare una strada in questo mondo ultracompetitivo. Leggo la trama e – nonostante le recensioni non proprio entusiasmanti – trovo che possa essere interessante. Convinco L. a venire con me a vederlo e lei a sua volta convince S. Alla fine saremo solo in tre nell’enorme Sala 1 del Cinema Quattro Fontane (probabilmente – me lo auguro – un po’ più di gente arriverà per lo spettacolo successivo, a cui saranno presenti anche il regista e il cast).

Devo dire che la situazione appare ridicola fin dal principio e man mano che il tempo passa diventa sempre più divertente. Sembra di stare in un salotto di casa enorme col maxischermo, cosicché a poco a poco le inibizioni calano e tutt’e tre cominciamo a commentare ad alta voce come in una serata tra amiche un po’ sceme…

Ma insomma, veniamo al film, ché non gli voglio fare troppo torto…

Mi chiamo Maya racconta la storia di Niki (Matilda Lutz), una ragazza sedicenne, che ha una sorella più piccola, Alice (Melissa Monti), con cui condivide (pur non essendo figlia dello stesso padre) una madre piena di vitalità e di energia. Questa però muore all’improvviso in un incidente stradale, cosicché le due ragazze vengono affidate ai servizi sociali, in particolare alla giovane assistente sociale Cecilia (una improbabile, ma sempre bellissima Valeria Solarino, con gonnellone, mocassini e occhialoni).

Niki e Alice scappano e inizia così una specie di viaggio picaresco attraverso una Roma un po’ suburbana ed estrema. Prima il contatto con una compagna di scuola, vera borgatara che balla sul cubo in discoteca con la parrucca azzurra e va in giro con Niki, Alice e le sue amiche con la grande limousine rosa, regalo che qualcuno ha fatto a una sua amica. Poi l’incontro con un’annoiata ragazza di buona famiglia, generosa e viziata, che organizza feste per sballarsi a casa sua mentre i genitori sono via per lavoro. Poi la conoscenza di Marc (Giovanni Anzaldo), un giovane gentile che fa l’artista di strada, ma si guadagna da vivere lavorando come cameriere (al quale Niki si presenta come Maya e con il quale finisce a letto), infine l’avventura - che si conclude con bacio lesbo e vomito da eccesso di alcol (che avevate capito, eh?) - nei bassifondi romani con una giovane dark depressa che fa piercing e tatuaggi. La fuga di Niki - che poi è principalmente una fuga da se stessa - continuerà fino all’incontro e al riconoscimento della vera eredità della madre nella propria vita, e dunque con l’accettazione del proprio destino.

Cos’è che non va in questo film?
L’idea di raccontare la vita degli adolescenti nelle grandi metropoli è interessante (e il film comincia con una scritta in sovraimpressione che ci ricorda che esso è stato realizzato a partire dai risultati di una ricerca sociologica in questo senso), la regia di Tommaso Agnese (anche co-sceneggiatore) è attenta e dimostra mestiere, la fotografia è a tratti molto bella e riesce a offrire anche scorci inediti di una delle città tra le più rappresentate sul grande schermo.

Non reggono però l’impianto narrativo, troppo meccanico e con passaggi troppo bruschi tra i mondi così diversi attraversati da Niki, la sceneggiatura, semplicistica e a tratti decisamente poco realistica (con qualche punta quasi esilarante!), la recitazione, che appare in alcuni momenti piuttosto amatoriale, i simboli utilizzati per rappresentare il percorso psicologico di Niki, davvero troppo banali (il mare  e il cavallo: c'è persino una scena che ricorda quella di una famosa pubblicità di un famoso bagnoschiuma). E – quando il film finisce – non capiamo cosa ci ha trasmesso questa storia e Niki resta un personaggio poco conoscibile esattamente come all’inizio della visione.

Insomma, pur apprezzando le intenzioni, faccio fatica a dire che Mi chiamo Maya sia un film riuscito. La serata però – e nonostante tutto – lo è stata sicuramente.

Voto: 1,5/5


7 commenti:

  1. Una bella conferma di un giovane regista
    "Mi chiamo Maya" è il lungometraggio di esordio di un filmaker attento sin dagli esordi al mondo de i giovani: il suo corto "Appena giovani" sul disagio adolescenziale era nato con la collaborazione di un pregevole team di professionisti che nell'ambito della ASL di Roma Prati studiava questi problemi. "Mi chiamo Maya" ne è l'ideale e maturo proseguimento ma, ovviamente, un autore non va giudicato per la pertinenza sociale degli argomenti affrontati bensì per la capacità di racconto e per l'empatia che riesce a sviluppare con i suoi personaggi. E queste doti nel film le dimostra tutte. Le ragazzine di "Mi chiamo Maya" sono un piccolo saggio di recitazione spontanea ed il mondo con il quale vengono a contatto appare la poetica proiezione delle loro angosce ma anche delle loro infantili fantasie. Insomma, in un momento del nostro cinema in cui esordiscono a caso improbabili enfants gatés, Agnese dimostra, a mio avviso, le doti di un vero regista destinato a proseguire solidamente nel mestiere. Non è poco.Antonio Ferraro

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  2. Più semplicemente la potremmo definire come un film autentico, nel senso che racconta qualcosa che avviene, è credibile e comunica costantemente un senso di realtà.

    Ed è significativo che nei test sul film il consenso/gradimento sia venuto soprattutto dai giovanissimi/adolescenti, omologhi ai personaggi del film, che hanno dimostrato di conoscere e sentire il mondo raccontato come “proprio” e quindi autentico.

    Quindi un film che è anche un documento sociale, uno strumento di comprensione sociale dentro un mondo altrimenti convenzionale e vuoto.

    Questo è un pezzo del valore di un’opera prima che racconta mentre documenta.

    Un senso che riguarda, anche qui specificamente, un altro designato altrimenti sempre vago e generico: quello della precarietà giovanile.

    Qui la precarietà diventa la protagonista rappresentata delle identità e delle relazioni raccontate.

    Una precarietà innanzitutto famigliare: la protagonista, dopo avere perso il padre, perde improvvisamente anche la madre e si ritrova sola con la sorellina, dovendo costruire nel formarsi dell'adolescenza la propria identità che è anche responsabilità.

    Una precarietà sociale che diviene il rifiuto di forme di assistenza insensibili e rozze che amplificano anziché sanare il senso di abbandono, che diventa materiale ed economica, che diventa minacciosa nel tentativo di integrarsi in gruppi soprattutto di ragazze che nel modello del successo e del danaro creano cortocircuiti psicologici ed esistenziali.

    Ed è precarietà nello stesso contesto fisico, luoghi di un dapperdovunque metropolitano periferico in cui quasi non si sente differenza fra la non personalità degli interni e quella dei non luoghi esterni.

    Ed è precarietà anche nella interazione fra mondo maschile e mondo femminile: quando solo ulteriori marginalità (il ragazzo alla deriva dei ruoli e mestieri) possono accendere nel mare nichilista sprazzi di sentimento e di attrazione.

    Un sistema di tracce che dalla dimensione strettamente individuale ricostruisce spaccati, gruppo e dimensione sociale. Nel racconto emerge la dimensione problematica delle dinamiche giovanili intergenerazionali: la protagonista è un adolescente piena (16/17 anni) che si rapporta alle sue coetanee e anche a giovani più "grandi", ma anche alle problematiche dell'infanzia matura (la sorellina) e naturalmente al mondo adulto giovane (l'assistente sociale).

    Ed è proprio la traccia individuale che permette la ricostruzione dei diversi mondi giovanili che anche al variare di pochissimi anni si rappresentano come forme psicologiche, dimensioni aggregative, linguaggi diversi. Mondi accennati e sfumati ma che hanno -ed è questa la cifra linguistica del film- un mood comune, una dimensione di solitudine condivisa.

    Il senso di durezza del racconto è proprio dato dal taglio minimalista del linguaggio dove gli atti minimi valgono infinitamente di più delle parole e come mai venga messo in gioco un tema di valore o di etica; siamo nel cuore di un nichilismo dove conta solo un certo tipo di sopravvivenza e il significato delle cose o non c'è o viene letto dopo.

    La ricostruzione o la via di fuga in positivo nasce dalla sensibilità al femminile con cui il tutto viene filtrato: tutto si condensa nella storia di una ragazza che filtra queste precarietà attraverso la velocità con cui costruisce esperienze, ruoli, consapevolezza.

    Una protagonista che diventa la testimone dei mondi giovanili esistenti la cui cifra psicologica percepita è quella di un adattamento contingente e minimo ad una realtà piatta e con poche speranze .

    I livelli di denuncia sono impliciti: la famiglia, la scuola, i "grandi", i valori poco presenti, insomma quello che nel dibattito generico viene riportato al tam tam dell'identità e dell'idea dei giovani senza un'idea di futuro.

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    1. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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    2. Gentile Antonio, ti ringrazio delle tue riflessioni e rispetto la tua opinione. I giudizi, si sa, sono sempre soggettivi. Il tuo è un punto di vista diverso che sarà certamente condiviso da altri. Purtroppo a me il film non ha comunicato molto di quello di cui tu parli. Ma pazienza. Succede :-)

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    3. Antonio Ferraro Cinema11 maggio 2015 alle ore 13:13

      Cara Anna, sono io che ringrazio te per la tua gentilezza e mi complimento per la sensibilità e l'attenzione che metti nello scrivere del film. In un periodo di approssimazioni è una bella sorpresa, ferme restando le rispettabili opinioni di ciascuno. Mi farà piacere se vorrai visitare (magari con tuoi graditi commenti) la mia pagina fb Antonio Ferraro Cinema.. Un saluto

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    4. Lo farò certamente! E grazie per i complimenti!

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  3. Un film on the road che rende con efficacia il senso delle modernità liquida del mondo giovanile vin particolare e lo fa con delicatezza e poesia .

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