giovedì 27 novembre 2014

French for Rabbits (+ Fraser Ross), Black Market, Unplugged in Monti, 11 novembre 2014

Questa volta nessuna bomba d'acqua ha reso il mio tragitto verso il Black Market fortunoso. Anzi sono arrivata comodamente e ho potuto sorseggiare un amaro su un divanetto prima dell'apertura della saletta concerti. Nonostante la stanchezza di questi giorni ho voluto fortemente assistere a questo concerto, dopo aver comprato su Bandcamp i due album di questa band neozelandese ed averli apprezzati enormemente.

E devo dire che l'aspettativa non è stata delusa.

Questa sera il palco è tutto neozelandese. Prima si esibisce Fraser Ross, un ragazzone che dice di essersi trasferito dalla Nuova Zelanda alla Scozia all'inseguimento di una donna, ma senza successo. Alla fine però la Scozia gli è piaciuta ed è rimasto lì :-)

Ci canta alcune canzoni d'amore con la sua chitarra e conclude con una buffa canzone per bambini su un'anatra, che per metà è fatta di parole incomprensibili pronunciate come Paperino. Il pubblico ride e si diverte, poi il ragazzone si siede tra il pubblico per lasciare spazio ai French for Rabbits.

Sono in quattro: sono Brooke Singer (nomen omen) e John Fitzgerald (i due sono in qualche modo l'anima del gruppo, l'una voce, nonché chitarra acustica e tastiere, l'altro chitarra elettrica), cui si aggiungono Ben Lemi (il bassista con i lunghi capelli rasta e lo strumento musicale ricoperto di una tela con i colori arcobaleno) e Hikurangi Schaverien-Kaa (che sembra quasi un maori, alle percussioni). Tutti quanti arrivano originariamente da Waikuku Beach, un luogo che già solo per il nome è tutto un programma (andatevi a guardare le immagini su Internet).

Stanno un po' strettini sul palco, ma vi assicuro che l'effetto è molto delicato e trascinante.

Cominciano con la bellissima Claimed by the sea, la canzone che li ha fatti conoscere prima in Nuova Zelanda, poi a livello internazionale. Poi proseguono alternando canzoni del primo CD e di quello appena uscito, Spirits (molto bello).

L'armonia tra la voce di Brooke e gli strumenti che la accompagnano è suggestiva e coinvolgente. Loro sono timidi e gentili, anche autoironici. Ci chiedono più volte cosa potrebbero fare il giorno dopo a Roma in un'ora. Il pubblico gli suggerisce di buttarsi sul cibo; io dopo il concerto - mentre mi faccio firmare da Brooke e John il sempre bellissimo poster di Mynameisbri - le dico che forse potrebbero andare sull'Aventino a guardare il panorama di Roma dal giardino degli aranci e a spiare dal buco della serratura del Palazzo dei Cavalieri di Malta.

Riguardo alla loro musica, devo dire che mentre li ascoltavo mi ricordavano molto le sonorità - anch'esse folk-pop - di una cantante che a me piace moltissimo, la scozzese (delle Highlands) Rachel Sermanni, che ho anche visto dal vivo qualche tempo fa. La cosa mi ha fatto venire in mente (anche ripensando alle parole di Fraser Ross) che ci deve essere un qualche collegamento ideale tra queste due terre lontane, forse una certa similarità dei paesaggi, una predominanza della natura sull'uomo che produce sensibilità e sonorità comuni. E siccome tutto si tiene, i French for Rabbits sono stati anche scelti da Agnes Obel (altra artista nordica che mi piace e ho ascoltato dal vivo) come opening act di un certo numero dei suoi concerti europei.

E forse io, che sono in qualche modo nordica dentro e soprattutto che amo moltissimo questo tipo di paesaggi, con queste sensibilità e sonorità ci vado a nozze. Tocca proprio organizzare un viaggio in Nuova Zelanda :-)

Voto: 4/5

martedì 25 novembre 2014

Due giorni, una notte

Sandra (Marion Cotillard) è una giovane moglie e madre di famiglia con due figli. È da poco uscita da una depressione, di cui porta ancora i segni e gli strascichi addosso. È pronta a riprendere il lavoro, ma il capo del personale della sua azienda ha deciso che i componenti del suo reparto dovranno votare se ottenere un bonus di 1.000 euro oppure far rientrare Sandra al lavoro, perché l'azienda non può permettersi entrambe le cose. Manu, suo marito (Fabrizio Rongione), la spingerà a contattare nel weekend i suoi colleghi di reparto per convincerne almeno nove a votare per lei.

Questa la scarna storia.

I fratelli Dardenne mettono in scena uno straordinario "dilemma del prigioniero" in chiave contemporanea, in cui ciascuno è messo di fronte alla scelta tra un umano senso di solidarietà e le proprie necessità materiali, se non addirittura tra la sopravvivenza altrui e la propria.

Il dramma sociale prodotto dalla crisi economica costituisce uno scenario perfetto per questa storia, ma non è quello che rende il film così intenso.

La carica dirompente del film nasce dall'innestarsi su di esso di un dramma tutto personale. Sandra è una donna sensibile e fragile. Attraversa uno di quei momenti nella vita in cui ci si sente profondamente soli (anche quando intorno a sé ci sono numerose evidenze del contrario), in cui i brevi momenti di fiducia e di voglia di reagire sono intaccati e quasi annullati da ogni - anche piccolo - segnale negativo vero o presunto, in cui il sovraccarico emotivo produce spesso il pianto o il tentativo di fuga, dal desiderio di annullarsi nel sonno a quello di cancellare se stessi col suicidio.

Sandra incontra a uno a uno i suoi colleghi, ciascuno portatore di una storia pregressa o attuale che deflagra di fronte al dilemma morale e materiale determinato di volta in volta da sentimenti di amicizia, insoddisfazione personale, problemi familiari, aggressività individuale, paure, comportamenti sleali.

Il tutto in due giorni e una notte, durante i quali le cose non necessariamente si risolvono e alla fine dei quali la vita non sarà più facile, ma che innescano il processo di rinascita di Sandra, quel clic che scatta dentro di lei, facendole ritrovare se stessa e riscoprire il proprio valore. Quella condizione da cui guardare alla propria vita e al mondo intorno con rinnovate forza e fiducia, non perché sia cambiato qualcosa, ma perché è cambiato il nostro asse interiore riequilibrandosi.

Marion Cotillard è straordinariamente credibile. Ha quest'aria persa, sfatta, sempre come se si fosse appena svegliata - come dice M. -, eppure è tenera e piena di vita. La telecamera dei registi gli sta sempre addosso, per buona parte del film quasi appollaiata sulla spalla. Incombe su di lei e noi, insieme alla telecamera, ci sentiamo bloccati quando Sandra si scoraggia e al contempo vorremmo spingerla, quasi costringerla a buttarsi nella mischia, a provarci.

La ripetizione delle azioni, nonché delle parole, con cui Sandra si ritrova davanti a un campanello da suonare e a una persona cui chiedere di rinunciare a 1.000 euro per consentirle di riprendere a lavorare è come un concentrato di esperienze, una possibilità unica di sperimentarsi di nuovo e di nuovo nella relazione con gli altri, un'occasione di imparare - a poco a poco e nello stesso tempo in maniera accelerata - a reagire al rifiuto e alle malignità e ad apprezzare l'affetto e l'attenzione degli altri, senza che niente di tutto questo metta veramente in discussione il proprio essere.

Meno credibile la figura di Manu, suo marito, una vera roccia, l'emblema stesso della stabilità, sempre misurato, sempre costruttivo, sempre profondamente fiducioso e innamorato. Forse un po' troppo, ma non ci lamentiamo, una volta tanto che i fratelli Dardenne riescono a farci intravedere uno spiraglio di luce nel buio della vita.

Marion Cotillard è bella e brava in misura indicibile, ma certo sono di parte. Però questa volta la devo davvero ringraziare perché non solo mi ha fatto tornare - solo per amore suo (!) - a vedere un film dei Dardenne, ma mi ha anche fatto riconciliare con il cinema dei due fratelli belgi.

Il mio amico olandese M. alla fine del film mi ha fatto riflettere su una cosa. Noi italiani diciamo spesso: "Eh, la vita è così. Purtroppo". Forse dovremmo cominciare a dire: "Eh, la vita è così. Per fortuna!". E forse anche i Dardenne cominciano a pensarla un po' in questo modo.

Voto: 4/5

venerdì 21 novembre 2014

Il sale della terra

Premetto che la mia recensione non potrà in alcun modo essere obiettiva, per diversi motivi. Innanzitutto mi scapicollo per arrivare al cinema per tempo (lo spettacolo è alle 17,50), ma il film è preceduto da più di mezz'ora di pubblicità (e dico pubblicità, non trailer di altri film!), cosicché in partenza sono in qualche modo già snervata. Quando poi comincia il film le due signore accanto a me non possono fare a meno di chiacchierare tra loro e di commentare ogni scena e ogni fotografia, nonostante i miei tentativi di esprimere un certo qual fastidio. Infine, e non è secondario, sono stanchissima (la mia settimana è stata pesante), dunque il film mi appare in qualche modo un po' piatto e a tratti faccio fatica a seguirlo.

Devo anche aggiungere che da un lato avevo un'aspettativa molto elevata in virtù dei commenti entusiastici che mi erano arrivati, dall'altro mi aspettavo qualcosa di un po' diverso, cioè un film sull'occhio fotografico di Salgado, ossia nel quale si parlasse non solo della "poetica concettuale" del fotografo e della sua vita, ma anche del suo rapporto con la fotografia. Negli ultimi tempi sto infatti guardando a casa una serie di monografie video sui grandi fotografi italiani, realizzate dalla Cineteca di Bologna, che sono impostate in questo modo e che apprezzo molto.

Tutto ciò premesso, pur avendo già un po' di informazioni su Salgado e sul suo impegno per l'ambiente (anche grazie alla mostra Genesi che avevo visto l'anno scorso a Roma), il film certamente mette lo spettatore in relazione con un uomo incredibile da numerosi punti di vista. Innanzitutto per la sua storia personale e familiare (la fazenda di famiglia in Brasile, il rapporto con la moglie e con i due figli), in secondo luogo per il suo straordinario percorso professionale che l'ha portato in ogni angolo del pianeta per far conoscere prima le condizioni di alcune popolazioni (penso ai reportage dal Sahel, dal Rwanda ecc.), poi per testimoniare che esiste ancora un pianeta in cui natura, fauna e uomini sono ancora in una condizione di purezza originaria. Tutto questo si è trasformato in un impegno concreto per l'ambiente e per la salvaguardia della natura attraverso una fondazione, Instituto Terra, che Salgado segue insieme a sua moglie.

Oltre alla bellezza delle fotografie e delle immagini del film, che sono un vero godimento per gli occhi e hanno un impatto emotivo in taluni casi davvero forte, la cosa che mi ha colpito di più di quest'uomo è il coraggio con cui a qualunque età della vita ha affrontato viaggi incredibili, rischi, contatti con ambienti anche ostili e comunità umane primitive per desiderio di conoscere e di lasciare una testimonianza.

Diciamo che, pur sapendo che si possono fare straordinarie fotografie anche senza muoversi da casa propria, mi sono anche resa conto che le fotografie di Salgado portano con sé anche la voglia di esplorare, lo sprezzo del pericolo, il desiderio di conoscere, di stare vicino agli eventi, di viaggiare anche per periodi lunghi.

Wim Wenders e il figlio di Salgado, Juliano Ribeiro, sono bravissimi a costruire questo ritratto, a dimostrazione del fatto che Wenders ha sviluppato un'insana passione per i ritratti d'artista (vedi Pina).

Voto: 3/5


lunedì 17 novembre 2014

Interstellar

I film di Christopher Nolan si vanno a vedere a prescindere. Perché è uno con una testa che non gli si sta dietro e quasi sempre riesce a trascinarci in giochi intellettuali di grande godimento (vedi Memento, The Prestige, Inception). Negli ultimi anni poi a questa sua straordinaria capacità di costruire narrazioni sorprendenti si sono aggiunti i grandi mezzi del cinema hollywoodiano da blockbuster (penso alla saga di Batman, ma anche allo stesso Inception), che hanno dato a Nolan la possibilità di tradurre la sua visionarietà in immagini e sequenze cinematografiche di grande impatto visivo ed emotivo.

Con Interstellar Nolan sembra voler portare tutte queste premesse alla loro massima espressione e mette in piedi un filmone di fantascienza che sembra rivendicare anche qualche pretesa scientifica.

Siamo su una terra del prossimo (e speriamo lontano) futuro, in cui una non meglio identificata piaga sta distruggendo tutti i raccolti e vere e proprie tempeste di polvere mettono a rischio la sopravvivenza dell’umanità. Cooper (Matthew McConaughey) è un ex astronauta, ora in qualche modo costretto a fare l’agricoltore; vive in una fattoria di campagna con il suocero e i suoi due figli, Doyle (interpretato da adulto da Wes Bentley) e Murph (interpretata da piccola da MacKenzie Foy e da adulta da Jessica Chastain). Una serie di curiosi fenomeni gravitazionali che si verificano nella stanza dove Murph dorme porteranno Cooper in una segretissima base della NASA e da lì alla partecipazione ad una missione aerospaziale finalizzata alla ricerca di un pianeta in un’altra galassia dove l’umanità possa ricominciare la vita.

A livello di trama è difficile andare al di là di questo; tanto sarà poi Nolan a tenere lo spettatore incollato alla sedia e attento ad ogni parola che esce dalla bocca dei protagonisti per capire il complesso intreccio che via via si andrà scoprendo.

Non v’è dubbio sul fatto che lo spettacolo cinematografico è poderoso, direi quasi d’altri tempi per la sua epicità, ma amplificato dai potenti mezzi a disposizione del regista. L’adrenalina è tanta e l’attenzione alle basi scientifiche paradossalmente amplifica il mistero, ingaggiando con lo spettatore un gioco intellettuale relativo ai rapporti tra scienza e fantascienza.

Tutto ciò detto, il film – dal mio punto di vista – ha due imperdonabili difetti: innanzitutto una colonna sonora talmente enfatica e onnipresente da diventare presto totalmente insopportabile ai limiti del fastidio fisico, in secondo luogo l’essere più volte in bilico sul sottile crinale che separa l’epico dal ridicolo e che non giurerei non sia mai stato oltrepassato.

Rispetto a Gravity, che mi era piaciuto molto per un sostanziale senso della misura (travalicato solo verso la fine), Christopher Nolan non riesce a contenersi dalla necessità di strafare. E lo fa con la sua incredibile maestria, conquistandoci, ma senza essere veramente in grado di impedire che di tanto in tanto si affacci alla nostra mente il dubbio che stavolta possa avere davvero esagerato.

Non parlo dell’intreccio e del fatto che non è del tutto scontato che alla fine tutto si tenga dal punto di vista razionale (ma d’altra parte se così fosse non staremmo parlando di un film di fantascienza), bensì parlo di questa specie di fame insaziabile di Nolan che sembra non accontentarsi mai e voler suscitare un “wow” sempre più grande. Forse troppo.

Voto: 3/5


giovedì 13 novembre 2014

Il delta del Po in bicicletta

Per combattere l'astinenza da bicicletta, io, C., S. e A. abbiamo organizzato un tranquillo weekend pedalante. Abbiamo cominciato a parlarne subito dopo il ritorno dalle vacanze estive e C. ha fatto un lavoro sopraffino, ai livelli di un'agenzia di viaggio. Alla fine sapevamo tutto sulle differenze tra il delta ferrarese e quello rodigino.

In conclusione abbiamo optato per quest'ultimo, attirate dall'idea di territori più selvaggi e in qualche modo anche più depressi.

Dormiamo a Ca' Mello (che tutti qui pronunciano Cammello) a Corte Papadopoli, un agriturismo e fattoria didattica a gestione totalmente familiare dove gli animali la fanno da padroni. Tra gli altri due cani pestiferi, ma simpatici, che non ci lasceranno in pace per tutto il weekend.

Cominciamo subito con una buona cena, in particolare uno squisito coniglio al forno da leccarsi i baffi.

Il mattino seguente arriva a prenderci il nostro noleggiatore per poterci consegnare le nostre biciclette (che abbiamo visto già il giorno prima). Ha un garage pieno di biciclette, ma quelle che ci propone sembrano messe insieme chiedendo agli amici, biciclette di quelle con cui le signore del luogo vanno a fare la spesa.

Comunque non ci preoccupiamo, considerando che il percorso è tutto in piano e non dovrebbero esserci particolari problemi.

Dopo una bella alba vista dalla finestra dell'agriturismo, il nostro giro inizia con la visita al Museo di Ca' Vendramin, un'antica idrovora (ora appunto trasformata in museo), dove ci facciamo un'idea del territorio, della sua storia e della infinita lotta tra l'uomo e il Po nel tentativo da un lato di contenere gli effetti devastanti delle alluvioni, dall'altro di sfruttare il fiume in funzione della produzione dell'energia elettrica e dell'agricoltura.

Dopo la visita inizia il nostro giro secondo il percorso dell'anello della Donzella. Qui capisco che in questa zona, dopo Taglio di Po, il fiume prende tanti nomi e ognuno ha il suo Po (il Po di Venezia, il Po di Gnocca, il Po di Maistra e così via). Per qualche chilometro affianchiamo con le bici sull'argine il Po di Donzella fino a raggiungere la Sacca di Scardovari, una laguna affascinante e desolata dove starei ore a fare fotografie. Ci fermiamo a mangiare una fritturina di pesce da Marina 70 e riprendiamo il percorso.

Sto facendo una fatica mostruosa e mi chiedo perché sono così fuori forma, considerato che proprio quest'anno sto facendo un sacco di attività fisica. In realtà mi rendo conto solo a un certo punto che il problema è la mia bicicletta che fin dalla partenza risulta un po' frenata. Le diamo un'aggiustatina e C. si offre di fare a cambio con me. Riprendiamo il percorso e io finalmente mi sento me stessa! Peccato che mentre stiamo risalendo l'anello dall'altro lato (all'altezza di Scardovari) foro. Ruota a terra e telefonata a Vittorio, il noleggiatore che porta una nuova camera d'aria e un nuovo copertone (era saltata la pezza di una precedente foratura).

Eccoci di nuovo in marcia, ma a questo punto decidiamo di tagliare per la campagna perché si sta facendo tardi. Comincia a salire l'umidità dalla terra mentre si allungano le ombre del tramonto. I paesaggi prendono un'atmosfera quasi magica.

Alla fine facciamo in tutto 60 chilometri. La sera saremo rifocillate da gnocchi col ragu e brasato con polenta!

Il giorno dopo (domenica) ci muoviamo molto prima la mattina (anche perché in serata abbiamo i treni per tornare a casa). Questa volta facciamo il giro a nord del Po di Venezia. Il nostro tour inizia in una nebbia fittissima che rende i paesaggi surreali e bellissimi. Tutto è ovattato e dai contorni sfumati, poi man mano la nebbia si alza e viene fuori una bella giornata di sole.

Prima pedaliamo lungo l'argine verso Pila; sulla strada ci fermiamo in uno sperduto bar rodigino di provincia che è occasione di uno studio antropologico interessante. Poi a Pila vediamo la centrale Enel sull'altro lato del fiume. Fatto il giro di Pila ci spostiamo verso nord fino a raggiungere la spiaggia di Boccasette.

Oggi quella che sta avendo difficoltà è A., la cui bicicletta - ci accorgiamo - ha la forcella storta cosicché la ruota davanti e quella di dietro non sono in linea. Ogni tot di chilometri dobbiamo fermarci a darle una raddrizzata per consentire alla poverina di pedalare decentemente. Il tempo è molto bello e nonostante tutto ci godiamo anche questa giornata, durante la quale alla fine pedaliamo ancora per circa 60 chilometri.

All'arrivo al garage di Vittorio gliene diciamo quattro sulle biciclette che ci ha noleggiato, ma riusciamo a chiudere la conversazione civilmente. Recuperiamo le nostre borse in agriturismo e anche questo brevissimo weekend ciclistico purtroppo è ormai terminato.

Eccomi sul treno per Roma, ma con addosso ancora la sensazione di aver fatto un vero e proprio viaggio nel tempo.

martedì 11 novembre 2014

Il giovane favoloso

"Non toccatemi Leopardi": diciamo che questa è stata un po' la prima cosa che mi è venuta in mente quando ho visto il film di Martone. E non perché il film non sia attento e rispettoso della vicenda biografica e ideale dell'autore. Anzi, l'operazione di Mario Martone è ammirevole nel proporre un ritratto di Leopardi che è in qualche modo fedele ai tempi e alla lettera e nello stesso tempo moderno, quasi post-moderno (come ha fatto notare qualcuno).

Il fatto è che Leopardi appartiene solidamente a un'età della mia vita che oggi certo considero lontana, ma che ha avuto un peso specifico grande nella mia esistenza. Ed in quella fase le poesie di Giacomo Leopardi, soprattutto alcune (L'infinito, Il canto di un pastore errante dell'Asia, La ginestra), hanno rappresentato per me qualcosa di più di un compito scolastico, bensì l'espressione di una sensibilità che percepivo in qualche modo vicina.

Ecco perché nella mia testa Leopardi ha assunto forme e significati tutti miei, che evidentemente non sempre si sono sposati perfettamente con il Leopardi portato sul grande schermo da Martone e che certamente porta con sé anche un po' del vissuto e della poetica dello stesso Martone (non è senza significato che il titolo del film derivi da una definizione di Leopardi data da Anna Maria Ortese).

Elio Germano è grandioso nel dare forma e voce a questo personaggio straordinario, e devo dire che la sua "recitazione" di alcuni canti, in cui il vissuto quotidiano è trasfigurato dallo stato emotivo e dalla sensibilità estremizzata di Giacomo, è tra le cose più belle e toccanti del film.

Bella la scansione strutturale e cronologica del film nei tre momenti della vita del poeta, legati ad altrettanti luoghi: l'odiata Recanati, la bella Firenze, la vitale e tenebrosa Napoli. Interessante anche il tentativo di ricostruire i rapporti chiave della sua esistenza, quella con i fratelli, Carlo e Paolina, con i genitori, con il letterato Pietro Giordani, con Fanny Targioni Tozzetti, con Antonio Ranieri.

Ma la mia percezione di Leopardi e quella di Martone si incontrano soprattutto nella visione di un Leopardi modernissimo, e che questa modernità di spirito e di analisi dell'essenza dell'umanità ha reso infelice e grande al contempo. Per questo ho trovato oltremodo belle le sequenze sottolineate dall'ordito musicale di Sascha Ring, in arte Apparat (in particolare il pezzo Lighton), per l'effetto spiazzante e straniante che produce, collocando la sofferenza interiore di Leopardi al di fuori del tempo; bellissima anche la scena in cui il giovane Leopardi è rimproverato da suo padre e suo zio per il tentativo di fuga, e in cui esplode - ma solo nel desiderio irrealizzato - la rabbia di Giacomo, perfettamente connaturata al personaggio, ma del tutto impensabile per i tempi e il contesto.

Da un Leopardi che dice che "Chi dubita sa e sa più che si possa" abbiamo moltissimo da imparare. E certamente questo film consente in qualche modo di mettersi all'ascolto di un uomo che parla e scrive con parole antiche e forse un po' ostiche, ma dice cose modernissime e che ancora oggi a distanza di quasi due secoli sa toccare il cuore.

Voto: 3,5/5

domenica 9 novembre 2014

Boyhood

Boyhood racconta la storia di Mason (Ellar Coltrane) dal 2002 (quando ha sei anni) al 2013 (quando ne ha 18) e lo fa utilizzando lo stesso gruppo di attori per dodici anni, supportato da poche riprese con cui la macchina da presa diventa testimone vera del tempo che passa, per il giovane protagonista, che da bambino diventa quasi adulto, e per i genitori (i bravissimi Patricia Arquette e Ethan Hawke) che invecchiano e si imbolsiscono.

In Boyhood non si vuole comunicare nessuna verità universale, non ci sono morali, non ci sono neppure eventi eclatanti. Quelle di Mason sono un'infanzia e un'adolescenza come quelle di molti altri ragazzi americani (e non solo) tra il 2002 e il 2013. Il rapporto con i genitori divorziati, in particolare con una madre forte e determinata che però spesso si accompagna agli uomini sbagliati, e un padre che sembra non voler crescere mai; i numerosi traslochi, le nuove amicizie, la necessità di adattarsi a situazioni diverse; il confronto con la sorella più grande (Lorelei Linklater, la figlia del regista); i giochi, i successi, gli insuccessi, i primi amori, le piccole passioni, l'apatia, le delusioni, la preoccupazione del futuro; i compleanni, le feste, i fine settimana dai nonni.

La vita scorre sullo schermo, punteggiata da una sceneggiatura ridondante ed essenziale al contempo.

Due passaggi di questa sceneggiatura mi hanno colpita in modo particolare.

In una conversazione tra Mason e la sua ragazza del liceo, Sheena, quest'ultima fa riferimento al detto "Cogli l'attimo" e commenta che ha invece la sensazione che nella vita sia l'attimo a cogliere noi.

La madre di Mason - quando quest'ultimo, che è il suo figlio più piccolo, sta per lasciare casa per andare al college - ha una crisi di pianto e dice che - guardando indietro ai tanti obiettivi che ha inseguito e ai tanti sacrifici che ha fatto per realizzarli - si sarebbe aspettata altro, e invece in fondo nella vita non c'è molto più di questo.


E tutto questo mentre sullo sfondo passa la storia americana di quegli anni (il post 11 settembre, la guerra in Iraq, le elezioni presidenziali in cui si contrapposero McCain e Obama) e il mondo cambia (i videogiochi diventano sempre più sofisticati, compaiono i primi cellulari, poi è la volta degli smartphone, quindi la pervasività dei social networks); a supporto del tutto scorre la colonna sonora di quegli anni (a partire da Yellow dei Coldplay con cui si apre il film e che non avrei mai detto che fosse dei primi anni Duemila! Come passa il tempo!). E il bello è che tutto questo non è ricostruito attraverso la memoria e riprodotto sullo schermo a posteriori, bensì è perfettamente contemporaneo al girato, cosicché il punto di discrimine tra il documentario e la ricostruzione cinematografica è imprevedibile.

Quello di Richard Linklater è un esperimento cinematografico originale e coraggioso, che in qualche modo indaga il confine tra realtà e finzione e lo assottiglia ancora di più, rendendolo permeabile e facendo transitare pezzi dell'uno nell'altra (ad esempio, la compilation The black Beatles che il padre regala a Mason è effettivamente un regalo che Ethan Hawke aveva preparato per la figlia).

A mio modesto modo di vedere, l'orizzonte futuro del cinema si sostanzierà di rapporti sempre più originali tra il cinema di finzione e il documentario.

Di fronte a questo spazio fluido che Linklater ci mette davanti ognuno può trovare il proprio posto, agganciare i propri ricordi, cogliere i propri significati, soffermarsi su quello cui è sensibile, con il risultato che anche agli occhi degli spettatori si produce un mosaico scomposto e sfaccettato. Esattamente come la vita.

Voto: 3,5/5


mercoledì 5 novembre 2014

La scena /Cristina Comencini. Teatro Ambra Jovinelli, 23 ottobre-2 novembre 2014

Sabato pomeriggio a teatro. All’Ambra Jovinelli è in programmazione La scena, un’opera teatrale di Cristina Comencini con Angela Finocchiaro, Maria Amelia Monti e Stefano Annoni.

Cristina Comencini ha fatto almeno due cose che mi sono piaciute parecchio, il film La bestia nel cuore e il testo teatrale (poi diventato anche film) Due partite. Di lei mi piace la semplicità con cui affronta temi anche complessi, senza mai rinunciare all’ironia anche di fronte al dramma. Apprezzo inoltre la sua capacità di indagare il cuore femminile e di saper sempre scegliere dei cast di attrici di grande sensibilità, capaci di esprimere appieno il multiforme cuore femminile.

Per tutti questi motivi sono andata a vedere incuriosita questo nuovo lavoro, che ruota intorno a due amiche, Maria e Lucia, due donne di mezza età, profondamente diverse e al contempo complementari. Maria, interpretata da Maria Amelia Monti, è separata e ha due figli; nonostante le numerose delusioni amorose non rinuncia a vivere la vita facendosi guidare dall’istinto e dalla passione. Lucia, interpretata da Angela Finocchiaro, è un’attrice di teatro, molto razionale, financo rigida, sentimentalmente sola in quanto scottata dalle esperienze precedenti e incapace di lasciarsi veramente andare.

Una domenica mattina Lucia piomba a casa di Maria per farle ascoltare una scena che dovrà recitare a teatro, ma in casa le due donne non sono da sole. C’è anche Luca (Stefano Annoni), un giovane di 26 anni che la sera prima Maria ha rimorchiato a una festa.

La presenza di Luca sarà l’occasione per le due donne prima per scambiarsi i ruoli, permettendo a ciascuna di raccontare l’altra nel momento in cui la impersona, poi per confrontarsi nei loro modi opposti di interfacciarsi alla vita con questo ragazzo che, da spaurito e disorientato, si fa via via sempre più sicuro di sé nel mettere a nudo le idiosincrasie delle due donne.

In sostanza l’opera della Comencini porta sul palco in forma di commedia divertente, ma non per questo stupida, l’eterna lotta tra uomini e donne, l’infinito tentativo dei due sessi di capirsi senza riuscirci, e soprattutto lo sfaccettato e inafferrabile punto di vista femminile.

La prima parte della pièce teatrale – quella nella quale in scena ci sono soltanto le due donne – è davvero di alto livello: frizzante, spiritosa, profonda. La seconda parte, cui l’arrivo in scena di Luca sembra conferire nuova verve, tende a banalizzarsi quando dalla consapevolezza della complessità e della confusione passa a tentare di dare delle risposte, a proporre delle interpretazioni e fors’anche delle soluzioni, che ovviamente finiscono per apparire in qualche modo semplicistiche.

D., l’unico uomo e l’unico veramente giovane del gruppo con cui sono andata a vedere lo spettacolo, non è d’accordo con me e trova che invece – dopo una prima parte molto autoreferenzialmente femminile – la seconda parte si movimenta e si arricchisce di punti di vista, raccontando la realtà delle cose. Cosa che ho trovato interessante e mi ha fatto ulteriormente apprezzare le capacità di Cristina Comencini di parlare a pubblici diversi.

In definitiva, una bella sorpresa e un’esperienza teatrale positiva, cosa che negli ultimi anni a teatro accade sempre più di rado.

Voto: 3/5

lunedì 3 novembre 2014

La prochaine fois je viserai le coeur

Eccomi all'ultimo appuntamento di quest’anno con il Festival internazionale del film di Roma. Un festival sinceramente un po’ sottotono non solo – e non tanto – per la qualità dei film presentati, quanto per il clima complessivo che si respira. Però a me piace sempre poter fare queste abbuffate di film dalle quali esco stanca ma soddisfatta…

Per questa ultima giornata innanzitutto decido che non posso far chiudere il Festival senza assaggiare i supplì dello stand di Supplizio del patron Arcangelo Dandini. E vengo premiata non solo da un supplì e una crema fritta buonissimi (da leccarsi i baffi), ma dalla presenza dello stesso Dandini che mi porta persino dei tovagliolini lì dove mi sono seduta a mangiare.

Entro dunque al cinema di umore ottimo e pronta a questo noir francese che ho scelto soprattutto perché trovo che il protagonista, Guillaume Canet, sia bravissimo come attore (e anche come regista).

Quello di Cèdric Anger è un anomalo film francese, fors'anche perché si tratta di una storia vera che alla fine degli anni Settanta ha sconvolto un piccolo paese di provincia dell’Oise e ha avuto parecchia risonanza sulla stampa francese. Comunque, dimenticate i film francesi in cui si parla troppo e non succede nulla, quelli con protagonisti uomini e donne di mezza età che però sono ancora rimasti adolescenti; dimenticate gli amori un po’ sfortunati e lamentosi, i sentimenti inespressi e il male di vivere.

Qui siamo di fronte a un noir poliziesco classico la cui storia potrebbe stare bene in un romanzo di Fred Vargas.

Franck è un gendarme timido, che vive da solo in una casa buia e che si trova a indagare insieme alla sua pattuglia sugli omicidi insensati di ragazze che stanno angosciando l’Oise. In realtà Franck è l’autore di questi crimini (e non vi rivelo niente, perché la verità è già nota fin dal primo istante): uccide giovani donne dalle quali – come dice L. che è con me all'anteprima – si sente sfidato. In realtà Franck ha seri problemi nelle relazioni con l’altro sesso e anche la giovane Sophie (Ana Girardot) che si innamora di lui e gli si avvicina finirà per comprenderne il tormento patologico.

Franck si sottopone a prove di forza assurde: fa il bagno in una vasca riempita di acqua gelida, dorme in una tenda all’aperto, si autoflagella e usa filo spinato per farsi del male. È un folle calcolatore, maniaco della pulizia personale, la cui personalità è totalmente sdoppiata.

Il film ne segue con occhio esterno ed obiettivo la parabola, non dimenticando una forma di pietas per un uomo disturbato e infelice, ma anche non tacendo la brutalità che a volte si nasconde dietro l’apparente normalità e che proprio per questo facciamo fatica a riconoscere anche di fronte all’evidenza.

Un bel film. Avvincente e sincero, che in fondo ci fa sentire la Francia e i francesi per una volta più simili a noi.

Voto: 3,5/5