giovedì 31 ottobre 2013

Gravity


Finalmente un 3D che ha un senso, utilizzato per conferire davvero un valore aggiunto alla visione. Sì, perché lì nello spazio, in assenza di gravità, tutto fluttua nelle direzioni più imprevedibili, tutto acquista una consistenza dentro l'infinito buio interrotto solo dalle aurore e dalle luci della terra.

L'intero film è un vero godimento dal punto di vista visivo, spettacolare sia nelle sue visioni da lontano degli astronauti che passeggiano intorno alla loro navicella sia nelle visioni in soggettiva dall'interno dei loro caschi.

E la prima ora della storia è decisamente notevole, epica e minimale al contempo, come epica e minimale è l'attività di questi astronauti che sono lì su a fare cose apparentemente incomprensibili e sfidano l'immensità dell'universo.

Il senso di angoscia è immediato, perché è inevitabile sentirsi piccolissimi, del tutto indifesi, assolutamente insignificanti rispetto a un'immensità cui possiamo fare solo il solletico e che nessuna tecnologia umana è in grado di dominare.

Fino a un certo punto si è molto vicini a un film di altissimo livello, sia in senso strettamente visivo che sul piano della sceneggiatura. Peccato che a un certo punto la magia si spezzi e in fondo si ritorni ad un banale molto consolatorio che non solo non aggiunge niente, ma addirittura depriva il film della sua forza. Diciamo che quando Gravity vira verso Indiana Jones l'entusiasmo scema un po' ;-)

Non voglio fare spoilers per chi ancora il film non l'ha visto, ma - al di là della bravura indubbia di Sandra Bullock (tra l'altro in splendida forma fisica, sebbene con la faccia trasformata dagli interventi estetici) - il suo personaggio perde di spessore nell'ultimo quarto d'ora, forse perché il regista non se la sente di accettare l'insignificanza della vita umana di fronte all'universo.

Da vedere. Ma peccato, perché avrebbe potuto essere e forse non è stato del tutto.
Il mio voto però è all'eccellenza delle intenzioni.

Voto: 4/5

martedì 29 ottobre 2013

Il profondo Nordest: La Valsugana, la Val di Sella e l’Orto Botanico di Padova


Chi l'ha detto che il profondo Nordest non ha niente da offrire? ;-)

Il mio ottobre tra Valsugana, Val di Sella e Padova dimostra esattamente il contrario.

Io, C., S., A. e P., torniamo in zona Valsugana dopo averne percorso la ciclabile lo scorso mese di giugno. In quell’occasione ci eravamo fermati a dormire una sera in un Garnì di recente apertura, nelle campagne tra Roncegno e Borgo Valsugana, che si chiama Coronata Haus.

Il posto, bellissimo, tutto in legno, con le tappezzerie fatte di tessuti tipici meravigliosi, è gestito da Bruno e sua moglie, due persone che incarnano perfettamente il burbero carattere trentino ma anche la straordinaria generosità di questa gente.

Bruno ci prende talmente in simpatia che ci aiuta in tutti i modi possibili durante le nostre vicissitudini in valle e ci prepara una fantastica cena in un’area del Garnì tutta a nostra disposizione (dove ci sono anche le cantine!).

Ci diciamo che dobbiamo ritornarci, e infatti ad inizio ottobre eccoci nuovamente a Coronata Haus (quando ci andrete fatevi raccontare da Bruno perché questo strano nome). Questa volta l’intenzione è quella di fermarsi per l’intero weekend ed esplorare un pochino i dintorni, oltre a godere della splendida sauna di Coronata Haus che si presenta come una grossa botte all’esterno dell’edificio principale con vista sulla valle (bellissima!).

La scoperta più bella del weekend è Arte Sella. La Val di Sella è una valle vicina alla Valsugana, ma con una configurazione completamente diversa (del resto la Valsugana è fortemente deturpata dall’industrializzazione e dalle grosse arterie che ci passano nel mezzo, e poi fa quasi paura nel suo essere profonda e strettissima). La Val di Sella è invece una valle nella quale a farla da padroni sono i boschi e le malghe. Ed è proprio in mezzo a questi boschi che è nato il percorso di Arte Sella. Si tratta in pratica di un museo a cielo aperto, immerso nel bosco, il cui tratto caratteristico sta nell’utilizzo di materiali naturali (prevalentemente legno) e nella perfetta integrazione delle opere nel paesaggio circostante.

La prima parte del percorso, quella più lunga, è gratuita e le opere d’arte (di artisti provenienti da tutto il mondo) sono distanziate lungo un bellissimo percorso in mezzo ai boschi. La seconda parte, quella a pagamento, cui si giunge dopo una bella passeggiata in mezzo ai prati, è uno spazio più contenuto e con un’altissima concentrazione di opere, alcune anche di grandi dimensioni, come la cattedrale e il teatro naturale.

Alcune delle opere esposte sia nel primo che nel secondo percorso sono veramente affascinanti e colpiscono per l’originalità, per la poesia, per la continuità con il contesto naturale, per l’inventiva degli artisti. Non me lo sarei mai aspettata, ma Arte Sella è stata veramente una bellissima scoperta e una passeggiata nella natura e nell’arte che consiglio a chiunque si trovi da quelle parti.

Dalla natura all’high-tech. Qualche settimana più tardi sono di nuovo dalle parti del Nordest e, grazie alla segnalazione di G., scopro che nel weekend c’è l’anteprima dell’apertura delle nuove serre dell’Orto Botanico di Padova, patrimonio mondiale dell'umanità dell’Unesco.

E così, senza prenotare, io e C. ci muoviamo alla volta dell’Orto Botanico sperando nella buona sorte che ci assiste e ci permette di entrare in una delle ultime visite guidate della giornata. In pratica le nuove serre sono state costruite con i soldi che erano stati stanziati anni fa a seguito dell’abbassamento della falda acquifera (causata dalla costruzione di alcuni edifici) che aveva messo in serio pericolo l’orto botanico storico della città. Poiché il problema si è poi risolto naturalmente, si è deciso di utilizzare i soldi per mettere l’orto botanico in sicurezza, acquistando alcuni terreni limitrofi (dell’Antonianum) e costruendo le nuove serre con la funzione di fare anche da barriera naturale ed evitare il ripetersi del fenomeno dell’abbassamento della falda.

Le nuove serre sono state realizzate secondo i principi dell’architettura ecologica e sostenibile e si strutturano in spazi totalmente indipendenti l’uno dall’altro dedicati rispettivamente al clima tropicale, a quello temperato, a quello secco e infine a quello artico (ma quest’ultimo spazio non è ancora stato allestito). Sono stati previsti anche spazi per allestimenti temporanei e mostre per rendere le nuove serre uno spazio multifunzionale dalle ampie prospettive.

Tutto molto bello. Complimenti per quella che - almeno a prima vista - sembra proprio una storia a lieto fine.

Ovviamente non ci siamo fatte mancare un giro all’Orto botanico storico che mostra i segni della sofferenza degli ultimi anni, ma che probabilmente è adesso nelle condizioni di rinascere più vigoroso che mai. Ci vorrebbero giornate per soffermarsi su tutte le piante e le loro proprietà. A un certo punto è il momento di andare, ma io la pianta nella quale identificarmi l’ho scelta. È la carex appropinquata! ;-))

mercoledì 23 ottobre 2013

Storia del nuovo cognome / Elena Ferrante


Storia del nuovo cognome / Elena Ferrante. Roma: Edizioni e/o, 2012.

Da quando avevo finito di leggere L’amica geniale il mio unico pensiero era stato quello di comprare il secondo volume della trilogia (in realtà ho scoperto solo dopo che i libri sono quattro!), Storia del nuovo cognome, per immergermi nuovamente nella storia di Elena e Lila. Ed infatti appena ho avuto una libreria a portata di mano il libro è entrato in mio possesso e io sono entrata nel suo.

Questa seconda parte della vicenda si caratterizza per il fatto che le strade di Elena e Lila si dividono. Elena continua a studiare, mentre Lila affonda in un matrimonio senza amore con Stefano. Infine, Elena fa il grande passo e abbandona il rione per andare a studiare all’Università a Pisa, mentre Lila rinnega il rione per inseguire un amore impossibile ritrovandosi a vivere in povertà.

Periodi di grande distanza – non solo fisica m anche mentale – si alternano a momenti di vicinanza che non sempre però riescono a colmare la distanza che si è creata tra le due amiche. La loro resta un’amicizia sublime e crudele al contempo, in cui non c’è salvezza per nessuna delle due senza il senso di completezza che arriva dal rapporto con l’altra.

In questo secondo volume, sempre narrato in prima persona da Elena – e dunque filtrato dalla sua sensibilità e dall’insicurezza che da sempre l’hanno resa fragile ai colpi di testa di Lila – ci viene regalata a volte anche la versione dei fatti di Lila. Certo, sempre attraverso le parole di Elena, ma come resoconto della lettura dei quaderni (una specie di diario) che Lila ha tenuto per buona parte della sua vita e che ella decide di affidare all’amica per sottrarli agli sguardi indiscreti. In questi quaderni si sgrana l’esistenza di Lila e sempre più viene a galla la sua personalità multiforme ma non per questo immune ai veleni del mondo circostante, nonché la sua profonda dipendenza dall’amicizia con Lena che è linfa e motore della sua vitalità.

Questa seconda fase della vita di Elena e Lila si compendia nel tentativo di mettere in discussione i due legami che – nel bene e nel male – hanno dato forma alla loro infanzia e adolescenza, quello tra di loro e quello con il rione.

L’esperienza del distacco metterà ognuna di loro di fronte a se stesse e a quello che vogliono fare della vita e – al contempo – farà loro comprendere che non è possibile negare quello che sono, non è possibile recidere le radici che - per quanto ingombranti - sono il legame tra qualunque cosa decidiamo di essere e ciò da cui veniamo.

La negazione è parte del percorso formativo e di crescita di ciascuno, ma non può che concludersi – prima o dopo – con la riconciliazione, che in fondo è riconciliazione con noi stessi. La conquista della propria libertà, della propria indipendenza come persone mature e bastevoli a se stesse passa per un’inevitabile rottura, ma non può che concludersi con il ritrovare il proprio se antico in quello nuovo e dar loro una composizione.

Non vedo l’ora di leggere il terzo romanzo. Spero che Elena Ferrante non mi faccia aspettare troppo.

Voto: 4,5/5

lunedì 21 ottobre 2013

Cattivissimo me 2


Sono innamorata dei Minions da tempi non sospetti, quando ancora la mania non era dilagata. Chiunque abbia visitato almeno una volta la mia casa lo sa benissimo, visto che in ogni angolo ci si imbatte in un Minion nelle forme più diverse: un pupazzetto qua, un cartonato là, un adesivo su, un portachiavi giù ;-)

Mi sono chiesta come mai i Minions mi appassionano così tanto e ne ho concluso che probabilmente in qualche modo mi ci sento affine. Quel curioso mix tra l’essere adulti e infantili al contempo, tra l’essere altruisti e profondamente egoisti, tra l’essere intelligenti e incredibilmente stupidi, tra l’essere risolutivi e poi eccezionalmente pasticcioni mi risulta estremamente familiare e forse è in sintonia con la mia natura di Gemelli.

Tutto questo per dire che sono assolutamente di parte e difficilmente potrò essere obiettiva nel dare un giudizio sul secondo capitolo di Cattivissimo me.

Diciamo che se vi piacciono i Minions non potete assolutamente perdere il film, perché i vostri adorati esserini gialli sono pienamente protagonisti di questo secondo capitolo e costituiscono per certo la parte più esilarante del film nelle numerosissime gags in cui sono impegnati.

Ciò detto, devo però aggiungere che la storia del primo capitolo era molto più bella ed equilibrata, e aveva una profondità che raggiungeva anche la sensibilità degli adulti. In questa seconda avventura la sceneggiatura è eccessivamente infarcita di contenuti e l’approccio è decisamente più tarato sulla sensibilità dei bambini.

Certo Gru è tenerissimo (anche se la voce di Max Giusti è orribile), e le tre bimbe, Agnes la piccolina, Edith il maschiaccio, Margo la quasi adolescente, sono sempre adorabili. La new entry, la signorina Lucy Wilde, è molto simpatica e molto ben doppiata da Arisa.

Però alla fine la storia resta fiacca, il 3D è ben fatto, però è quasi eccessivo in un mondo sovraccarico di colori.

E alla fine lo schermo si illumina davvero solo quando entrano in scena i miei adorati Minions. E anche il 3D acquista un vero senso solo nelle immagini finali dei provini dei Minions che scorrono sui titoli di coda, con la serranda che si alza e si abbassa, e ci mostra tre esserini gialli in situazioni molto divertenti.

Voto: 3/5


venerdì 18 ottobre 2013

Gloria


Gloria (la straordinaria Paulina García) è una donna di mezza età, separata da più di dieci anni dal marito, ha due figli grandi (un figlio con un bambino piccolo, e una figlia innamorata di uno scalatore svedese), un buon lavoro, e vive da sola. Le piace cantare e ballare. Desidera ancora non solo la compagnia, ma anche la fisicità di un uomo, e sembra trovarla in Rodolfo (Sergio Hernandez).

Sono andata a vedere questo film senza aver letto praticamente nulla, tranne la sinossi della trama, attirata dal trailer che mi aveva fatto pensare a una storia di ottimismo e riscatto di una donna in un'età non facile. L'avevo immaginato un film giocato su note di leggerezza e di ironia, su un sottofondo di ottimistica sfrontatezza.

In realtà, Gloria è un film molto più complesso e sfumato di così. E la sua protagonista è certamente un po' naïf nella sua ricerca della felicità, ma mostra anche dei tratti di tragicità nel suo adolescenziale desiderio di leggerezza che va continuamente a confliggere con la pesantezza della vita, con i problemi del mondo circostante, con il groviglio di sentimenti, con la paura della solitudine e della morte.

La ricerca di Gloria si trasforma in una fuga in un universo interiore, parallelo rispetto alla realtà, che ha ancora la gamma variegata di colori della giovinezza nel momento in cui si esprime attraverso la musica (sono indimenticabili le sequenze di Gloria che in macchina canta da sola sulle note di canzoni spagnole sentimentali), attraverso il lasciarsi andare del corpo nella danza (Gloria è bellissima quando balla, soprattutto quando balla da sola) o nella sessualità.

Il resto sono flash su un quotidiano che, anche quando non è triste, è inevitabilmente sovraccaricato della pesantezza della vita. Un quotidiano in cui non sono importanti tanto i dialoghi (in una sceneggiatura del tutto minimale), bensì le atmosfere, gli sguardi, gli stati d'animo.

La scena finale del film in cui la protagonista balla sulle note della omonima canzone di Umberto Tozzi ha un ché di liberatorio, ma certo non si esce dal cinema a cuor leggero.

Voto: 3,5/5

martedì 15 ottobre 2013

Rush


Ron Howard regista ama i filmoni un po' epici, quelli che non solo raccontano grandi sentimenti di amore, di rivalità o di odio, ma lo fanno anche in contesti spettacolari.

In questo caso, il regista si è ispirato alla realtà e nel suo ultimo film Rush ci ha raccontato la storia di due grandi piloti di Formula 1, l'austriaco Niki Lauda (Daniel Brühl) e l'inglese James Hunt (Chris Hemsworth), che conosciutisi in Formula 3 continuarono a rivaleggiare anche dopo essere passati ai circuiti maggiori.

Siamo alla fine degli anni Settanta e io - che a quell'epoca avevo pochi anni - non ricordavo questa rivalità, mentre avevo chiara nella memoria l'immagine di Niki Lauda dopo il pauroso incidente in cui rischiò la morte e dal quale uscì in buona parte ustionato, con un volto quasi irriconoscibile ma anche inconfondibile.

È stato dunque interessante dal mio punto di vista scoprire come ciò sia potuto accadere. E Ron Howard non trascura nessun elemento, dal momento che da un lato punta il dito sul limitato livello di sicurezza della Formula 1 in quegli anni, dall'altro non passa sotto silenzio la profonda rivalità tra questi due campioni così diversi dal punto di vista caratteriale: l'inglese esuberante, amante delle belle donne, scapestrato e compagnone, l'austriaco razionale, quasi maniacale nel controllo del dettaglio, posato e un po' musone, compagno fedele di una donna, per amore della quale si pone dei limiti nel prendere rischi.

Le immagini sono molto belle e anche chi non ama le gare di Formula 1 troverà piacevole, se non addirittura appassionante, seguire le vicende dei piloti.

Non lo definirei un capolavoro e non è certamente il mio genere di film preferito. Dal mio punto di vista si tratta di puro divertissement, ma in questo senso è un divertissement di alto livello.

Voto: 3/5

sabato 12 ottobre 2013

Magna... Grecia


Il titolo di questo post vuole riassumere in qualche modo le diverse sfaccettature delle mie vacanze estive, visto che i fili conduttori sono stati la Grecia, la Magna Grecia e il cibo :-))

Il tempo già trascorso e l’autunno già avviato rendono purtroppo il ricordo dell’estate un po’ sbiadito, però non voglio rinunciare per lo meno a proporvi piccoli flash delle vacanze.

La prima tappa è stata anche quest’anno la Grecia e, visto che l’anno scorso la scelta ci aveva soddisfatto enormemente, eccoci di nuovo alle Diapontie, tre piccole isole a nord di Corfù.

Memori dell’esperienza dello scorso anno, abbiamo completamente ignorato Corfù, e la nostra permanenza nelle diverse isole è stata direttamente proporzionale al grado di silenzio, di tranquillità e di assenza di turisti di ciascuna. Ecco perché il numero maggiore di giorni lo abbiamo trascorso a Mathraki, la meno attrezzata delle tre, ma anche quella che garantisce il maggiore distacco dalla civiltà. E non ce ne siamo pentite.

Per fortuna, dall’anno scorso a quest’anno poco è cambiato: c’è sempre la taverna di Kostas, sempre la taverna con camere di Yannis dall’altra parte dell’isola e il nostro spartanissimo appartamento con vista mare. Con sorpresa e con grandi aspettative abbiamo subito visitato l’unica novità: un minimarket e una taverna gestita dai greci-americani lì dove l’anno scorso c’era un locale abbandonato. Non pensate a chissà che, ma almeno si è trattato di una gradevole alternativa nelle nostre pigrissime serate sull’isola.

Quest’anno inoltre – approfittando del maggior tempo a disposizione e anche delle maggiori energie – abbiamo fatto parecchie passeggiate e girato l’isola in lungo e in largo, cosa che ci ha permesso non solo di tornare a vedere il porto di Fiki, ma anche di scoprire che esiste un altro porto attivo dalla parte opposta a quella dove arriva il traghetto, che c’è un villaggetto al centro dell’isola dove ci sono parecchie case ma non moltissime tracce di vita, che basta stare più di tre-quattro giorni (ed essere un po' socievoli) per cominciare a sentirsi parte della comunità isolana.

Dopo una brevissima tappa a Othoni (giusto il tempo di un bagno e di un freddo caffè al bar dove l’avevamo preso lo scorso anno), puntiamo a Erikoussa. Il traghettino Alexandros fa un po’ fatica ad arrivarci perché c’è il mare grosso e io mi prendo un grosso spavento, ma appena metto piede sull’isola dimentico tutto. Anche a Erikoussa più o meno tutto è rimasto come l’anno scorso, salvo una grossa casa (di italiani) che è stata costruita quasi sulla spiaggia deturpando un po’ il paesaggio.

Anche qui quest’anno ci sentiamo come se fossimo a casa e così, tra mangiate di pesce al ristorante Anemomilos, passeggiate nell’isola, costruzione di tepee sulla spiaggia e pomeriggi solitari a Bragini, i giorni passano veloci ed è già ora di ritornare.

Ci aspetta una breve tappa pugliese e poi una gita alla scoperta di due aree della Basilicata. La prima è Matera, che - pur essendo a poca distanza dal posto dove sono nata e ho vissuto per 18 anni - non avevo mai visto. Che ve lo dico a fare? Mi è piaciuta moltissimo. E alla bella esperienza ha contribuito la scelta del b&b gestito da un amico di un mio amico, che è tutto un programma fin dal nome, L’abbabbio nei sassi. Il b&b si trova nel sasso barisano ed è una tipica casa materana con terrazzino con vita sul sasso; e Sergio, il suo gestore, è molto simpatico, ci fa anche una visita guidata della città e ci suggerisce anche un ottimo posto per mangiare la sera. Insomma, tutto perfetto.

Da qui ci spostiamo ancora più a sud, verso il Parco del Pollino. Qui abbiamo scelto come base il Rifugio Acquafredda, che si trova nei pressi di San Costantino Albanese. Il posto è stato da poco ristrutturato (peccato che c’è l’ascensore, ma non le scale e quando l’ascensore si è rotto, abbiamo dovuto passare un intero pomeriggio al ristorante in attesa che arrivassero i tecnici per risalire in stanza!). Enzo e la moglie, che gestiscono il posto, sono carini e soprattutto sul piano della cucina non ci fanno mancare veramente niente: ci innamoriamo dei cruschi (i peperoni seccati e poi passati nell’olio bollente per essere poi gustati croccanti), ma non sono da meno la pasta fatta in casa, i salumi, i rosoli, le marmellate… Un po’ di cose le porteremo a casa.

Perché non pensiate che abbiamo solo mangiato, aggiungo che abbiamo anche fatto lunghe passeggiate, sfidando una specie di invasione di tafani, per godere della vista della valle dal belvedere e per arrivare alla Fonte Catusa, una sorgente naturale immersa nei boschi, dove però il giorno che ci andiamo non c’è l’atmosfera di pace e di silenzio che ci aspettiamo perché si tiene la festa della montagna e gli abitanti dei paesi intorno si sono ritrovati tutti lì. Durante la passeggiata, tre vecchietti, seduti a un punto di ristoro di ritorno dalla raccolta del finocchietto selvatico sulle montagne, ci invitano a mangiare con loro il pane con la ciambottella, il salame piccante, i pomodori e a bere il vino del contadino. Non ci faremo mancare neppure le foto ricordo.

Promosso anche il Parco del Pollino.

Che dirvi? Sarà che le vacanze sono sempre belle, sarà la compagnia, sarà che ho imparato a scegliere meglio e forse anche ad apprezzare di più, ma ultimamente il grado di soddisfazione è sempre particolarmente elevato.

E per fortuna!

venerdì 11 ottobre 2013

Chi ti credi di essere? / Alice Munro


Chi ti credi di essere? / Alice Munro; trad. di Susanna Basso. Milano, Einaudi, 2012.

Non avevo mai letto niente di Alice Munro, forse respinta dalla forma letteraria preferita dalla scrittrice ossia quella dei racconti, che io non ho mai amato particolarmente.

Però, su suggerimento di un amico e collega bibliotecario, mi sono decisa a partire alla scoperta di Alice Munro cominciando da quello che molti considerano il suo libro più bello, Chi ti credi di essere?

Ciò che di più mi ha colpito di questo lavoro è l’originalità della forma letteraria. Si tratta infatti di uno strano mix di romanzo e racconti, dal momento che la narrazione è sostanzialmente organizzata per singole tranches perfettamente autonome e compiute in se stesse, ma la protagonista è sempre la stessa, Rose, della quale alla fine della lettura di tutti i racconti conosciamo sostanzialmente l’intera storia.

Ne viene fuori l’immagine di una donna costantemente alla ricerca di se stessa, all’interno delle numerose esperienze di vita che attraversa, sia dal punto di vista professionale che affettivo: il rapporto con la famiglia di provenienza, in particolare con la matrigna, gli amori sbagliati e quelli dolorosi, gli episodi più o meno importanti, che però tutti insieme contribuiscono a delineare la psicologia di questa donna e a rendercela in qualche modo familiare.

La scrittura della Munro è affascinante e coinvolgente. E soprattutto una narrazione non lineare come quella che ci propone trasforma una vicenda priva di veri e propri colpi di scena in un racconto appassionante in cui il lettore è attivamente impegnato a ricostruire, come in un puzzle, non solo gli elementi e le sfumature che vanno a formare la vita di Rose, ma anche quelle che compongono la sua personalità.

Voto: 3/5

P.S. Il libro l'ho letto quest'estate, ma quale occasione migliore per pubblicare questo post se non l'assegnazione ad Alice Munro del Premio Nobel per la Letteratura 2013?

mercoledì 9 ottobre 2013

Sacro GRA


Non sono del tutto d’accordo con chi afferma che il soggetto che dà il titolo al film, il GRA (il Grande Raccordo Anulare di Roma) sia praticamente assente dal film, una specie di pretesto per raccontare delle storie.

Perché le storie che Gianfranco Rosi ci racconta in questo film non sarebbero concepibili al di fuori di quel contesto urbano, e perché c’è un continuo rimando metaforico tra il GRA e l’impianto narrativo del film.

Il GRA è un confine, una linea tracciata a segnare il passaggio tra la città e qualcosa che certamente non è ancora campagna, ma non è più città. Allo stesso modo, le storie che riempiono di umanità questo luogo (il ragazzo che lavora sull’ambulanza, il pescatore di anguille, il signore che monitora le palme attaccate dal punteruolo rosso, le prostitute e i trans che vivono in un camper, il gruppo che si occupa delle salme del cimitero di Prima Porta, il padre e la figlia che vivono in un appartamento piccolissimo di un complesso edilizio popolare, i nobili decaduti e un po’ coatti che vivono in una specie di magione kitsch, i sudamericani che si ritrovano per ballare la salsa) sono storie di confine, di margine, ordinarie e straordinarie al contempo.

Il GRA viene fotografato e descritto in tutto la sua bruttezza e squallore: serpentoni senza fine di automobili, cementificazione selvaggia, anonimità dei luoghi che rende difficile anche ai romani l’identificazione esatta dei punti che il regista mostra allo spettatore. Al contempo però Rosi ci dimostra che un tramonto può essere bello ed emozionante anche sul raccordo, che la neve può dare un’atmosfera magica anche a un’autostrada senza anima, che anche se il Cupolone è lontano lo spirito di questa città è vivo e presente anche ai suoi confini. Così, i personaggi di cui il regista ci mostra le vite per molti versi squallide e/o degradanti sono capaci di una tenerezza emozionante (penso per esempio alla sequenza del ragazzo dell’ambulanza che va a trovare sua madre), portano con sé una poesia che nasce dalla bellezza della loro semplicità.

Il GRA è una realtà di per se stessa ricorsiva, in cui tutto si tiene e tutto ritorna; così il film di Rosi intreccia storie apparentemente prive di connessione l’una con l’altra, ma in realtà frammenti di quel ciclo continuo della vita e della morte che è l’essenza della nostra umanità.

Voto: 3,5/5


giovedì 3 ottobre 2013

Via Castellana Bandiera


Palermo. Samira (Elena Cotta) è un'anziana donna di Piana degli Albanesi che ha perso l'amata figlia per un cancro. Così, da allora va ogni domenica a trovarla al cimitero e ritorna a casa, in via Castellana Bandiera, con la sua Punto.

Rosa (Emma Dante) è una giovane donna palermitana che è fuggita via dalla Sicilia molti anni fa, ma vi ritorna per andare con la sua compagna Clara (Alba Rohrwacher) al matrimonio di un amico di quest'ultima.

Entrambe hanno caratteri forti e ostinati. Entrambe si portano dentro dolori e questioni irrisolte che traspaiono dai loro occhi, ma non vengono esplicitate in parole.

Per questo quando le loro due macchine si incontrano una di fronte all'altra in via Castellana Bandiera (una strada budello a doppio senso), nessuna di loro vuole cedere il passo e il confronto tra le due donne si trasforma in un vero e proprio duello.

L'impianto è teatrale (e come poteva essere differente considerato che Emma Dante viene dal teatro e questa è la sua prima opera cinematografica?). Sulla scena ci sono due macchine e due donne il cui confronto assume i toni della tragedia greca, cui fa da coro la varia umanità che abita in via Castellana Bandiera e che a suo modo amplifica, commenta, interpreta quanto avviene sulla scena.

La sceneggiatura è contratta e minimalista, forse - ma è solo un'ipotesi - perché il libro della stessa Emma Dante dal quale il film è tratto gioca molto su quello che si muove oltre la sfera del visibile, nelle menti e nei cuori delle due protagoniste.

Qui invece molto resta sottinteso e le domande del pubblico restano spesso senza risposta.

Tutto viene risucchiato nell'imbuto di via Castellana Bandiera, i pensieri, le parole, i sentimenti, le persone. Le due donne nelle rispettive macchine fanno da punto nel quale tutto si aggruma, per poi scivolare via quando traumaticamente la concrezione si scioglie, facendo apparire grazie a uno sguardo diverso della telecamera più larga la strada che prima ci sembrava un budello.

Quella di Emma Dante è un'opera prima potente, che nel suo essere così involuta e quasi accartocciata su se stessa riesce a trasmettere un senso di mistero e di incertezza pur senza poter contare su un contenuto narrativo articolato.

Voto: 3/5