mercoledì 19 giugno 2013

Quando meno te lo aspetti


Quello della premiata ditta Agnès Jaoui e Jean-Pierre Bacri è uno strano film. Nel filone della raffinata commedia francese di cui i due sono maestri Quando meno te lo aspetti (ma non è uscito tempo fa un altro film con lo stesso titolo?) ha una collocazione quanto meno anomala, pur rispettando alcune delle caratteristiche del genere, per esempio la coralità e una sceneggiatura brillante.

La storia è piuttosto articolata (e a dire il vero anche un pochino confusa): Laura (Agathe Bonitzer) aspetta l'arriva del principe azzurro che sembra materializzarsi nel giovane musicista Sandro (Arthur Dupont), ma il loro idillio amoroso verrà messo in crisi dal lupo solitario Maxim (Benjamin Biolay). Laura confida le sue pene d'amore alla zia Marianna (Agnès Jaoui), la fatina di uno spettacolo per bambini che abita in una strana casa nel bosco, mentre Sandro cerca di convincere suo padre Pierre (Jean-Pierre Bacri) a dargli i soldi della caparra per andare a vivere da solo. Ma Pierre è angosciato da una profezia che tanti anni prima un'astrologa gli aveva fatto predicendo il giorno della sua morte. Intanto i genitori di Laura (molto upper class) vivono nel loro maniero sfidando il tempo che passa.

In pratica, Quando meno te lo aspetti è una specie di traduzione contemporanea del più noto immaginario fiabesco della nostra tradizione, che mette in scena sogni, paure, desideri e superstizioni che ancora ci portiamo dentro. Ma la realtà manderà all'aria tutto, sovvertendo quel presunto ordine costituito previsto dalle fiabe e che a volte vorremmo essere reale. Ventenni e cinquantenni, nessuno è immune al fascino delle fiabe, alla necessità di credere in qualcosa - diciamo così - di soprannaturale per non dover affrontare la dura realtà della vita, che è fatta di scelte senza bacchetta magica.

L'idea è gradevole e affascinante. Alcuni tratti della sceneggiatura sono davvero notevoli (per esempio la scena di Pierre dal podologo). Narrativamente però il film è un po' dispersivo e forse crea aspettative eccessive negli spettatori, che attendono il momento in cui tutti i personaggi troveranno un incastro nel quadro finale. Ma così non è. Quando l'amore trionfa, non quello delle fiabe però, il resto forse va semplicemente avanti come prima.

Voto: 3/5

domenica 16 giugno 2013

La grande bellezza


Ok, non è un capolavoro. E tutto sommato sono d’accordo con quasi tutte le critiche che ho letto e sentito: è estetizzante e in buona parte freddo, è troppo lungo e dopo l’episodio della giraffa gira un pochino a vuoto e si perde, i movimenti di macchina da presa e le scelte di montaggio che giocano con la sequenza temporale finiscono per essere un po' stucchevoli, lo sguardo nei confronti del protagonista, Jep Gambardella (Toni Servillo), è fin troppo compassionevole.

Ok, tutto vero.

Però il film mi è piaciuto. E non è detto che possa piacere a chi a Roma non ci ha vissuto per un tempo sufficiente da coglierne le idiosincrasie e da andare al di là della superficie, senza però esserne consustanziale come chi ci è nato.

Del film mi è piaciuto lo sguardo su una città la cui bellezza non è solo grande, ma addirittura soverchiante, eccessiva, senza competizione, soprattutto per coloro che hanno le chiavi giuste per accedervi. Quella di Sorrentino è la Roma di chi ha la fortuna e il privilegio di poterla vivere epurata di tutte le sue brutture (le periferie squallide, i trasporti pubblici come carri bestiame, il traffico soffocante, la sporcizia, la povertà diffusa). Una Roma che forse non esiste davvero neppure per i ricchissimi che Sorrentino ci racconta, ma che rappresenta però – soprattutto per chi romano non è, come Sorrentino e come Gambardella (e come me) – l’anima di una città fatta di una incredibile e potentissima contraddizione: quella tra la sua bellezza insostenibile (vedi la prima scena del giapponese che sviene mentre fotografa il panorama mozzafiato della città dal Gianicolo) e la dimensione umana che gli è propria, la cui volgarità e/o squallore è tracotante e in buona parte inconsapevole.

Forse, allargando lo sguardo, è l’immagine concentrata ed elevata all’ennesima potenza dell’Italia tutta, cui troppa bellezza è stata regalata dal passato perché sia stimolato lo sforzo di cercare la bellezza nella quotidianità e nelle piccole cose, di costruirla, di valorizzarla e non solamente di consumarla passivamente. La bellezza diventa tappezzeria quando è talmente scontata da passare inosservata, quando è talmente inevitabile da non essere neppure riconosciuta. La bruttezza è la forma di espiazione cui troppa bellezza esterna ci condanna.

L’esplosione sonora e visiva dei primi minuti del film spiazza e inquieta, ma dà già la cifra di quella necessità di riempire l’assenza di qualunque risposta e forse perfino delle possibili domande.

Sorrentino non giudica e Jep – che pure incarna l’anima cinico-critica di questo mondo – ne è parte integrante, non si sottrae ai suoi riti e alle sue meschinità. Anzi, in qualche modo ne è la massima espressione, in quanto non c’è niente di ingenuo nelle sue scelte e nel suo modo di essere e di comportarsi (come invece è ad esempio nel caso di Ramona, una brava Sabrina Ferilli), bensì c’è lo snobismo cinico dell’intellettuale mancato che ha abbracciato la mondanità fino a farne una specie di ragione di vita.

Nel film si affastellano personaggi, situazioni, episodi marginali, elementi di nonsenso, apparenti spunti di riflessione, che ne fanno un vaso di Pandora che forse lo stesso regista ha fatto fatica a dominare e che, alla fine, gli ha preso un po’ la mano facendogli – di tanto in tanto – smarrire il percorso. Sorrentino è vittima dello stesso intellettualismo di Jep, ma come quest’ultimo sembra alla fine non sapere esattamente cosa farsene. E forse ne è anche consapevole.

Voto: 3,5/5




lunedì 10 giugno 2013

Stirpe / Marcello Fois


Stirpe / Marcello Fois. Torino: Einaudi, 2009.

Dopo aver letto con qualche scontento il graphic novel Carne scritto da Marcello Fois e illustrato da Daniele Serra, un amico mi aveva detto di non abbandonare la lettura di Fois per questo motivo e mi aveva suggerito, tra le altre cose, il romanzo Stirpe, sapendo che sono una grande appassionata di saghe familiari.

Infatti Stirpe è la storia dei Chironi, la famiglia formata da Michele Angelo e Mercede con i loro figli Pietro e Paolo (i due gemelli), Gavino e Luigi Ippolito e infine Marianna. Una storia da cui trasuda la ruvidezza che è propria della terra nella quale è ambientata, la Sardegna e in particolare Nuoro.

Insieme alle vicende dolorose di questa famiglia seguiamo anche le trasformazioni che cambiano il volto di Nuoro e della Sardegna tra la fine dell'Ottocento e la prima metà del Novecento, e gli eventi che attraversano la storia dell'Italia intera. Il tutto raccontato con lo stile originale di Marcello Fois che certamente è debitore del Verismo per il modo in cui il narratore si colloca rispetto ai personaggi e lo stile complessivo del racconto, nonché per le vicende sfortunate dei suoi protagonisti il cui riscatto non è mai compiuto. Anche la storia nella storia che ogni tanto interrompe il flusso degli eventi, quella di Don Quiròn, ha un sapore antico non solo nei contenuti, ma soprattutto per la scelta narrativa da cui nasce.

La prosa volutamente arcaica crea la suggestione di un romanzo quasi contemporaneo ai fatti che racconta.

La struttura narrativa è invece più moderna per i continui salti temporali che anticipano eventi, senza spiegarli, lasciando che il lettore li scopra e li comprenda solo successivamente.

Il lettore fatica insieme ai personaggi e - come loro e come la terra che li ospita - non trova orizzonti di pace piena. Il che può rendere il romanzo affascinante per taluni, per altri inutilmente carico e forzato.

A me è piaciuto. Abbastanza.

Voto: 3/5

giovedì 6 giugno 2013

Genesi. Fotografie di Sebastião Salgado.


Ancora una bellissima mostra di fotografia a Roma. Questa volta si tratta della raccolta di oltre 200 foto di Sebastião Salgado, intitolata Genesi, che è attualmente in corso al nuovo spazio espositivo dell’Ara Pacis.

Quella di Salgado è una mostra militante, in quanto il grande fotografo brasiliano ha voluto fare - con le sue fotografie - una specie di dichiarazione d’amore alla nostra madre terra e con questa dichiarazione richiamare l’attenzione di tutti sullo scempio della sua bellezza che gli uomini stanno perpetrando ormai da troppo tempo.

Salgado è anche impegnato in prima persona nella salvaguardia del patrimonio naturalistico, visto che la sua fondazione ha finanziato la riforestazione di un’area brasiliana della foresta amazzonica che stava scomparendo.

Le oltre 200 foto in mostra sono il risultato di anni di lavoro e di viaggio che hanno portato il fotografo negli angoli più sperduti e isolati del pianeta alla ricerca di quella natura selvaggia che ci possa in qualche modo ricordare cosa doveva essere la terra prima che gli uomini la popolassero massicciamente e la deturpassero in maniera così significativa. Suo oggetto di interesse sono primariamente la fauna, la flora e i paesaggi unici che caratterizzano questi luoghi, ma non mancano anche tentativi di documentare quelle realtà umane tribali che vivono completamente distaccate dalla civiltà e dunque ancora in sintonia con il mondo circostante e le risorse che questo offre.

La struttura della mostra è molto semplice e perfettamente identificabile. L’organizzazione delle foto è infatti di tipo geografico, accorpando aree in qualche modo coerenti dal punto di vista naturalistico e culturale. Ciascun gruppo di foto occupa una o più pareti dello spazio espositivo riconoscibili da un colore, di modo che non si confondano o sovrappongano fotografie appartenenti a gruppi differenti.

Le foto sono tutte in bianco e nero e tutte di una bellezza mozzafiato. Certo i soggetti aiutano, ma la vocazione profondamente estetica e le straordinarie qualità tecniche di un fotografo raffinato come Salgado fanno il resto.

Se volete gustarvi la mostra e guardarla senza fare corse mettete in conto circa un paio d’ore perché le fotografie sono veramente tante e le didascalie meritano la lettura per acquisire informazioni geografiche e documentarie necessarie per interpretare quello che si sta guardando.

Ne uscirete soddisfatti e con gli occhi pieni di immagini memorabili.

Bonus: a differenza che in altri musei e spazi espositivi (vedi il MAXXI e il Palazzo delle Esposizioni) all’Ara Pacis è possibile fare fotografie all’interno della mostra purché senza flash. E questa è una cosa cui in Italia non siamo abituati.

Voto: 3,5/5

lunedì 3 giugno 2013

Luigi Ghirri. Pensare per immagini. Icone Paesaggi Architetture.


Come ben sapete, adoro la fotografia. E non solo fotografare, ma anche guardare le fotografie degli altri, soprattutto dei grandi maestri.

Dunque, non potevo perdere la mostra in corso al MAXXI dedicata a Luigi Ghirri, anche se prima di andarci non sapevo quasi nulla di questo fotografo.

Non vi aspettate un esteta della fotografia. Ghirri è il fotografo del quotidiano, del banale, del kitsch, all'interno dei quali egli cerca segni, mappe, visioni alternative, suggerimenti inaspettati. Ghirri è il fotografo del vedere attraverso, delle inquadrature naturali, delle fotografie di fotografie, di stampe, di mappe, di manifesti.

La mostra del MAXXI è organizzata in tre grandi sezioni, dedicate rispettivamente alle Icone, ai Paesaggi e alle Architetture. Sotto queste etichette piuttosto tradizionali si manifesta invece la poetica profondamente originale del fotografo che viene svelata anche attraverso le sue parole nelle citazioni che accompagnano la mostra.

Pur all'interno della sua tendenza a guardare il mondo circostante con l'occhio del documentarista e del catalogatore, Ghirri ha perfettamente chiara la consapevolezza che la fotografia non è riproduzione della realtà, ma rilettura e ricostruzione della stessa, che sta sia nell'occhio del fotografo sia nell'occhio di chi guarda.

Non a caso Ghirri con le sue foto innesca un vero e proprio gioco con lo spettatore, spiazzandolo, ingannandolo, costringendolo a un'operazione di scomposizione o ricomposizione che è parte integrante della qualità artistica dei suoi lavori.

Ma Ghirri sperimenta in numerose direzioni, per esempio dialogando con altre arti e altri artisti, come quando realizza nature morte ispirate ai quadri di Morandi oppure quando omaggia le architetture di Aldo Rossi. Il suo dialogo con il mondo esterno alla fotografia emerge anche dalle sue numerose collaborazioni con case discografiche ed editrici per la realizzazione, a partire dalle sue fotografie, di copertine di dischi e libri (alcune presenti anche nella mostra).

Di fronte alle foto di Ghirri ci si sente come bambini alla scoperta di un mondo sconosciuto che in realtà è quello in cui viviamo tutti i giorni, ma che il fotografo emiliano ci spinge a guardare con occhi diversi scoprendone tutte i più reconditi significati. E come bambini ci si ritrova a sorridere e a stupirci di fronte alle sue foto.

Voto: 4/5