mercoledì 30 gennaio 2013

Après Mai - Qualcosa nell'aria


Se per qualche curioso motivo state aspettando la mia recensione del film di Tarantino, Django Unchained, sappiate che non arriverà perché non andrò a vedere il film. Tarantino non mi suscita nessuna curiosità e non mi piace. Ecco l'ho detto. Ora potete accanirvi, però de gustibus...

E così, nonostante la proposta di M. l'altra sera andasse nella direzione di cui sopra, io l'ho dirottata verso il film di Olivier Assayas che invece mi incuriosiva.

Su questo, innanzitutto, è inevitabile la domanda: ma che ca**o di titolo è quello italiano Qualcosa nell'aria? Sembra il titolo di una commedia hollywodiana, a metà strada tra Il profumo del mosto selvatico e L'uomo che sussurrava ai cavalli. Ma lasciare il titolo originale Après Mai ci faceva proprio schifo? Costringere il pubblico a dare un'occhiata a wikipedia per capire di quale maggio si stia parlando no?

Detto questo, il film non è la scoppiettante e un po' romantica rappresentazione del post-Sessantotto che altre opere cinematografiche precedenti ci avevano offerto, bensì è uno spaccato (che dura credo circa un anno) della vita di Gilles (Clement Metayer), un ragazzotto diciottenne (più o meno) che frequenta l'ultimo anno del liceo, ha velleità artistiche ed è molto impegnato in politica, ma è confuso e insicuro come tutti i ragazzi della sua età.

Olivier Assayas non sembra volerci portare da nessuna parte con il suo film, non vuole veramente dare giudizi, bensì semplicemente raccontare una storia che sente molto vicina, che forse ha vissuto personalmente e ora rivede attraverso la lente del tempo e dei ricordi.

Gilles vive quest'età della vita nel 1971 in Francia, quando cioè non si è ancora spenta l'eco del maggio del 1968, quando il clima politico è ancora acceso e vivace e le speranze sono ancora tutte in piedi.

Io avevo diciotto anni nel 1991, esattamente venti anni dopo, e se ripenso a quegli anni, mi rendo conto della distanza siderale tra i miei coetanei e i giovani raccontati da Assayas. Noi siamo stati i giovani degli anni Ottanta, quelli del totale disinteresse politico, dell'emergere dell'individualismo e della vita per obiettivi molto concreti.

I desideri, i discorsi, le ambizioni e i sogni di Gilles e dei suoi amici mi sono sembrati a tratti incomprensibili, quasi risibili per la loro ingenuità e un velleitarismo chiaramente destinato alla sconfitta. Con gli occhi di oggi, sembrano tutti giocare a un gioco le cui regole non mi sono note. Eppure il tutto risulta affascinante rispetto al ripiegamento della mia generazione.

Assayas sembra dirci che tutto quello che ci hanno raccontato su quelli anni (l'impegno politico, gli interessi artistici e culturali, il sesso libero, le droghe, la fascinazione per il mondo orientale) è assolutamente vero, ma a tratti è un po' vuoto e superficiale.

Il fatto è che in questo mondo dalle infinite possibilità i giovani di allora cercavano, esattamente come quelli di ieri e di oggi, qualcosa di vero e/o di stabile a cui aggrapparsi, e sperimentavano, proprio come oggi fa mio nipote che ha quasi la stessa età, sentimenti universali e senza tempo, la ricerca della propria identità, il bisogno di amare e di essere amati, la paura del futuro, la delusione, l'abbandono, la ribellione silente o rumorosa.

Da questo strano mix esce un film che, da un lato, a me che ho vissuto con vent'anni di ritardo su quegli anni appare incomprensibile e quasi insensato, dall'altro, a me che non sono così tanto distante dai miei vent'anni (un po' sì, ma non troppo da dimenticare) e vedo da vicino i diciottenni di oggi, appare incredibilmente attuale nella sostanza dei sentimenti e dei bisogni.

Non posso dire che mi sia veramente piaciuto, anzi lì per lì sono rimasta alquanto perplessa. L'ho trovato però un'operazione di memoria sincera e non inquinata, anche se passata attraverso l'inevitabile filtro della distanza temporale.

Sarebbe interessante ascoltare il parere di chi il clima di quegli anni l'ha vissuto sul serio, così come sarebbe bello capire la percezione che il film suscita in un diciottenne di oggi.

Voto: 3/5


venerdì 25 gennaio 2013

Ultime della notte / Petros Markaris


Ultime della notte / Petros Markaris; trad. di Grazia Loria. Milano: Bompiani, 2010.

Dopo aver letto qualche mese fa La lunga estate calda dell’ispettore Charitos ho deciso che dovevo assolutamente risalire alle origini di questo personaggio per scoprire lentamente le ragioni e le origini di tutte le caratteristiche e le vicende incontrate in quel romanzo.

E così ho fatto una spedizione in libreria alla ricerca del primo romanzo di Markaris con protagonista l’ispettore Charitos. Ed eccomi a leggere Ultime della notte. La ripresa del lavoro non ha certo favorito la lettura rapida del romanzo; però un provvidenziale weekend siciliano mi ha consentito di leggere tutto d’un fiato il seguito, dopo essermi a lungo fermata a malapena a un quinto del libro.

Rispetto all’Ultima estate calda dell’ispettore Charitos mi pare che, in questo primo romanzo della serie, Markaris si impegni di più dal punto di vista giallistico e della costruzione poliziesca. In questo caso infatti l’intreccio è abbastanza elaborato e parte dalla storia dell’uccisione di una coppia di albanesi per arrivare all’omicidio di una giornalista di cronaca in procinto di fare uno straordinario scoop.

Da qui le indagini di Charitos, che saranno rese particolarmente complesse dall’intrecciarsi di piani investigativi diversi e non sempre collegati, e soprattutto dai suoi rapporti sempre burrascosi con il capo e con la moglie Adriana.

In questo primo romanzo, Charitos è molto meno politically correct che nell’altra storia che avevo letto; più licenzioso e intollerante, forse anche un po’ meno ironico. Tuttavia, questo poliziotto, che si presenta fin da subito come un antieroe, riesce a conquistare il lettore, a risultargli simpatico perché del tutto imperfetto, incapace di essere veramente come gli altri lo vorrebbero, eppure dotato di un’integrità e di un senso della giustizia cui non si può restare indifferenti.

Certo, Charitos non è Adamsberg, non diventa parte di noi, ma ci accompagna con leggerezza e sincerità durante le ore della lettura per poi abbandonarci quando il libro è terminato.

Insomma, dipende un po’ da come siete fatti e da quale momento state vivendo.

Se avete un’indole più intellettualistica, vi piacciono le atmosfere più cupe e i personaggi più introversi, Adamsberg è ciò che fa per voi, ma se volete fare la conoscenza di una persona normale, con i pregi e i difetti di tutti, di quelli con cui andreste a prendervi una birra senza farvi troppe paranoie direi che Charitos è il vostro compagno ideale.

Un solo appunto finale: signor Bompiani, per favore, faccia attenzione a queste traduzioni. In alcuni casi, la resa italiana era talmente poco italiana da rendere quasi incomprensibile il contenuto.

Voto: 3/5

mercoledì 16 gennaio 2013

La regola del silenzio - The company you keep


Nel mio personale sistema di classificazione, iI film di Robert Redford appartiene ai cosiddetti film-palloncino. Si tratta di quei film a metà strada tra il poliziesco, il film d’azione e il thriller che creano nello spettatore un aspettativa crescente fino a quando a una mezz’oretta dalla fine ci si rassegna definitivamente al fatto che non sia accaduto e non accadrà niente di veramente sconvolgente o straordinario. Insomma, il palloncino si gonfia, ma anziché volare via si sgonfia all’improvviso!

La regola del silenzio (che, come al solito, sarebbe stato meglio lasciare con il suo titolo originale, The company you keep) è la storia di un giovane giornalista dell’Albany Sun Times, Ben Shepard (interpretato da Shia LaBeouf), che è intenzionato a scoprire la verità che sta dietro i Wheather Underground, un gruppo che, negli anni della guerra del Vietnam, aveva organizzato alcune azioni terroristiche negli Stati Uniti per protestare contro la guerra.

Dopo l’arresto di una delle componenti del gruppo (Susan Sarandon), da tempo latitante, Ben si mette sulle tracce di Jim Grant (Robert Redford), fino a quando arriverà a conoscere non solo i componenti del gruppo, ma anche la loro vera storia e le relazioni tra di loro.

In realtà, come dicevo, non c’è molto di eclatante da scoprire e i cosiddetti colpi di scena si capiscono ben prima che lo diventino.

Ciò detto, non v’è dubbio che la visione del film ci permette di fare un vero e proprio salto indietro nel tempo, non solo per i molti volti noti - ma ormai invecchiati - che lo popolano (oltre ai già citati, Nick Nolte, Julie Christie e Richard Jenkins), ma anche per l’impianto e il ritmo della storia. Oggi un film dello stesso genere avrebbe avuto non solo una costruzione molto più ingarbugliata (con flashback di ogni tipo) ma anche un ritmo da videoclip, cose queste che sono completamente assenti da La regola del silenzio, film lineare e dal ritmo contenuto.

È probabile che Robert Redford – oltre ad aver voluto perseguire il proprio stile cinematografico e approfondire un tema che gli è caro, ossia la ricerca della verità, – abbia voluto rendere omaggio all’amico, nonché grande regista di film di genere Sidney Pollack, scomparso nel 2008. Questo spiegherebbe lo stile e l’andamento un po’ retrò del film, e me lo rende più simpatico.

In ogni caso, quando arrivano i titoli di coda non posso fare a meno di pensare che non mi sarei persa molto se avessi visto il film in DVD in una serata di stanchezza, sdraiata sul divano.

Voto: 2,5/5

venerdì 11 gennaio 2013

A tutto Beethoven


Nel mio percorso di educazione alla musica classica intrapreso quest’anno la terza tappa è stata l’appuntamento con Beethoven al Santa Cecilia. Il 15 dicembre era in programmazione un appuntamento che doveva vedere protagonisti l’affermato e non più giovanissimo pianista Radu Lupu e l’emergente e giovane direttore d’orchestra tedesco David Afkham, impegnati in Beethoven. Precisamente il programma prevede l’ouverture del Coriolano, il Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra e la Quarta Sinfonia.

In realtà quando io, C. e D. arriviamo all’Auditorium scopriamo che Radu Lupu non ci sarà per motivi di salute e sarà sostituito dal pianista palestinese Saleem Abboud Ashkar. Per un attimo siamo incerti sul da farsi, ma nella convinzione che nessuno di noi tre ha un orecchio sufficientemente allenato per rimpiangere veramente Radu Lupu decidiamo di andare dritti verso la meta del nostro posto.

Quando arriviamo ai nostri posti ci accorgiamo che – vuoi per l’assenza di Lupu, vuoi per la data prenatalizia – in platea ci sono moltissimi posti vuoti e così programmiamo la fuga per il momento dell’intervallo.

L’ouverture di Coriolano ci dà un assaggio del concerto e soprattutto della passione e bellezza della direzione di David Afkham. Lui è davvero molto giovane e sembra uscito da una sala da ballo di fine Ottocento, con il suo frac e il suo barbone scuro (sebbene le sue foto lo mostrino sempre sbarbato!). Sulla pedana Afkham si muove con leggerezza e intensità; guarda negli occhi i suoi musicisti e li chiama uno alla volta o in gruppo con i suoi gesti per invitarli a unirsi alla melodia.

Entra poi sul palco il pianista palestinese. Il concerto n.1 lo conoscevo abbastanza per averlo ascoltato molte volte prima di questo appuntamento. Non è il mio preferito tra i concerti di Beethoven, ma almeno avevo l’orecchio un po’ allenato. Inizialmente non riesco ad apprezzare completamente lo stile del pianista e faccio un po’ fatica a farmi conquistare dalla musica.

Man mano però entro nell’atmosfera, aiutata in particolare dal movimento dell’orchestra sul palco accompagnata dal direttore d’orchestra. Alla fine del concerto per pianoforte e orchestra Saleem Abboud Ashkar viene lungamente applaudito dal pubblico e richiamato sul palco per un piccolo bis in cui il pianista ci offre Brahms.

Ed eccoci all’intervallo, che ci consente di infiltrarci in platea e di sederci in posti da oltre 50 euro. Lo consideriamo un test, per capire se vale davvero la pena spendere così tanti soldi per stare in platea.
Inizia la sinfonia n. 4 che conoscevo poco. In platea per quanto mi riguarda mi manca un po’ l’effetto visuale di insieme, ossia non riesco del tutto a collegare la musica ai movimenti dell’orchestra e degli strumenti, ma l’acustica è decisamente migliore.

La sinfonia n. 4 si rivela molto divertente con il suo andamento discontinuo e i cambi di ritmo e di intensità. Afkham si conferma bello e bravo anche visto da vicino.

La mia educazione musicale continua con grande soddisfazione. Ora tocca pensare ai concerti della seconda metà dell’anno. E forse mi sento pronta anche per qualche concerto della stagione da camera ;-)

mercoledì 9 gennaio 2013

The master


Si tratta del classico film destinato a dividere sia la critica sia il pubblico su posizioni piuttosto distanti. C’è infatti chi grida al capolavoro e chi esprime delusione rispetto alle aspettative e nel confronto con i film precedenti del regista.

Per quanto mi riguarda, non posso negare che si tratti di un film di altissimo livello cinematografico. E questo è vero innanzitutto per le superbe interpretazioni dei protagonisti, sia Joaquin Phoenix nei panni del reduce di guerra Freddie Quell, sia Philip Seymour Hoffman nei panni del guru Lancaster Dodd, sia Amy Adams nei panni della giovane moglie di quest’ultimo.

Lo stesso dicasi per la confezione del film che è di altissima qualità dal punto di vista visivo e sonoro. Del resto da Paul Thomas Anderson non ci si poteva aspettare di meno.

Ciò che personalmente ho trovato un po’ debole è l’impianto narrativo e una sceneggiatura a volte volutamente ambigua se non addirittura insensata. La memoria di alcuni dei precedenti film di Anderson, in particolare Magnolia e Il petroliere, è vivida e certamente si ravviva ulteriormente durante la visione di The master, dal momento che l’attenzione del regista torna a esplorare i rapporti umani in particolare quelli a due, e le complesse e talvolta inconsapevoli manipolazioni che inevitabilmente comportano.

Il rapporto tra Freddie e Lancaster (e di riflesso quello tra quest’ultimo e la moglie) è sfaccettato e difficilmente etichettabile. Lancaster è l’ispiratore di una setta che promette - attraverso metodi non convenzionali - il contatto con le proprie vite passate alla ricerca dei propri traumi e nel tentativo di superarli. Freddie ha una personalità disturbata in conseguenza della terribile esperienza della guerra e trova in Lancaster Dodd e nel suo mondo una prospettiva di riscatto. Lancaster a sua volta è – nonostante le apparenze – un personaggio fragile, vittima del proprio ego, incapace di gestire le critiche, profondamente solo e a sua volta in un rapporto di forza non ben definibile con il suo universo circostante, in particolare con sua moglie.

Il maestro, il dominatore della scena, il sommo manipolatore è facilmente identificabile sulla carta in Lancaster Dodd. Ma il film insinua numerosi dubbi in questa facile interpretazione. Il rapporto che si instaura tra Lancaster e Freddie è chiaramente di co-dipendenza; Freddie ha bisogno di Lancaster per sentirsi accettato e per questo si sottopone a tutti i suoi esperimenti, ma anche Lancaster ha bisogno della sudditanza e della riconoscenza di Freddie.

Non prestate attenzione a quelle recensioni che si concentrano sulla presunta ispirazione del film a Ron Hubbard, fondatore di Scientology e autore di Dianetics, perché è evidente che questo è per Anderson solo un pretesto per parlare di un rapporto esclusivo in cui due uomini – entrambi carnali, aggressivi, irrisolti, dipendenti – si guardano allo specchio e si riconoscono.

Questo è certamente il punto di forza del film, quello che mantiene alta l’attenzione per le circa due ore di durata dello stesso. Il contorno, però, spesso si sfilaccia, scivola nel vuoto, le parole si perdono nel loro stesso suono, i gesti si svuotano di significato.

Il ritratto è potente, ma un messaggio - se non chiaro almeno intuibile - non c’è, il senso sfugge. E questo può lasciare perplessi o addirittura disturbare.

Personalmente mi è mancata la catarsi che in altri film di Anderson gettava luce sull’insensatezza.

Voto: 3/5

lunedì 7 gennaio 2013

La parte degli angeli


Nel corso degli anni il cinema di Ken Loach sembra essersi molto ammorbidito, pur mantenendo inalterati i temi, le ambientazioni e i protagonisti.

Se fino a un certo punto della sua carriera, il regista britannico ci aveva abituati a drammi sociali in piena regola, sostanzialmente privi di redenzione e dai toni piuttosto dolorosi, per quanto intrisi di una straordinaria tenerezza (si pensi ad esempio a Riff raff, ma anche a My name is Joe e a Sweet sixteen), negli ultimi anni i suoi film virano decisamente verso la commedia.

Parliamo ovviamente di una commedia che non rinuncia a descrivere le profonde contraddizioni della società britannica (e non solo britannica!), i danni provocati dalle politiche liberiste, le difficoltà dei vecchi e nuovi esclusi, ma lo fa con ironia e leggerezza.

In La parte degli angeli la storia è ambientata a Glasgow e protagonisti sono quattro piccoli criminali ed emarginati per i quali il giudice ha convertito la condanna detentiva in lavori socialmente utili. In particolare, l'attenzione si focalizza su Robbie (Paul Brannigan), che aspetta un figlio dalla sua compagna Leonie (Siobhan Reilly), ma deve vedersela sia con la famiglia di lei che è contraria a questo legame sia con il suo passato violento.

Il riscatto arriverà da Harry (John Henshaw), l'assistente sociale che introdurrà Robbie ai segreti del whisky e gli darà inconsapevolmente l'idea che segnerà l'inizio del riscatto per il giovane.

Quella di Loach in fin dei conti è una fiaba, e Loach lo sa benissimo. Ma le fiabe sono tanto più necessarie in un mondo come il nostro in cui, se da un lato tutto sembra possibile, dall'altro le prospettive si fanno sempre più cupe, soprattutto per le fasce più deboli della popolazione. Ken Loach sembra volerci suggerire di provare a sognare un finale diverso.

Nella lavorazione del whisky la parte degli angeli è quella che va persa a causa dell'evaporazione, il piccolo prezzo che bisogna pagare per poter ottenere la preziosa miscela.

Robbie e gli altri sono la parte degli angeli della società, quella che può andare persa, anzi che - in qualche modo - deve andare persa per garantire la serena e opulenta sopravvivenza degli altri.

Nel film di Loach Robbie e i suoi tre compari decidono di fare propria quella parte perduta, sottraendola al più raro e prezioso whisky mai prodotto, per riappropriarsi della propria stessa vita.

Loach ci ripete da decenni che il socialismo è necessario per dare un'esistenza dignitosa a tutti, per offrire un'opportunità anche a chi si è perso o a chi non è nato sotto una buona stella, per evitare il dominio assoluto della logica del denaro e dell'interesse privato.

Questo sogno è ancora possibile? Loach sembra credere ancora nelle persone, nella solidarietà, nell'ironia come strumenti per cambiare il mondo. Ma certo per cambiare le cose un aiutino - come nel caso di Robbie & co. - ci vuole.

Voto: 3,5