giovedì 31 maggio 2012

Arrugas


Tra i vantaggi che offre una grande città (tacerò dei numerosi svantaggi) c'è sicuramente la possibilità di usufruire di un'offerta culturale molto ampia (finché dura...) e di accedere a cose che altrimenti perderei sicuramente.

Dal 4 al 10 maggio si è svolto a Roma il Festival del cinema spagnolo, ospitato dal cinema Farnese, che ha portato in sala pellicole spagnole in lingua originale, la maggiore parte delle quali mai uscite in Italia sul grande schermo o destinate a non uscire. Uno di questi film è Arrugas di cui ho già parlato nel post in cui recensivo il graphic novel di Paco Roca da cui questo film è tratto.

E visto che il fumetto mi era piaciuto molto mi sono fiondata a vederlo.

Effettivamente il film non delude le aspettative e si conferma estremamente rispettoso dell'opera dalla quale è tratta sia dal punto di vista stilistico sia dal punto di vista dei toni, grazie anche alla collaborazione che lo stesso Paco Roca ha garantito alla realizzazione del film.

È stato per me molto interessante fare un confronto tra i due linguaggi, quello del cinema e quello del fumetto ed è principalmente su questo che mi soffermerò, rimandando invece al post sul graphic novel per la storia e i suoi significati.

Se il graphic novel è un albo di sole 104 pagine, il film ha una durata classica di un'ora e mezza tanto che mi ero chiesta cosa si fossero inventati regista e sceneggiatori. In realtà non si sono inventati quasi nulla. È che il linguaggio del fumetto è per sua natura estremamente sintetico: il salto tra una vignetta e l'altra può essere più facilmente colmato dalla mente del lettore che ha il tempo di elaborare la sequenza degli eventi. Tutto quanto nel fumetto è implicito viene in qualche modo reso esplicito, più ricco di dettagli e più narrativo dal film.

C'è anche qualche elemento completamente nuovo, assente nel graphic novel, per esempio la presenza nella residenza per anziani di una piscina che - come dice Miguel - sta lì per i clienti che pagano non certo per gli anziani che ci vivono, e il rapporto di Emilio, il protagonista, con l'acqua e il nuoto, simbolo per lui della vitalità del passato. La piscina sarà protagonista di una delle scene più belle e commoventi del film, un elemento ad elevato valore aggiunto della pellicola rispetto all'albo.

Nel film, da altri punti di vista, c'è meno che nel fumetto. In generale, ho avuto la sensazione che il tema - trattato con la medesima ironia e intensità del graphic novel - sia stato però un filo addolcito. Manca l'evento drammatico che viene raccontato alla fine dell'albo (e che non svelerò); anche la "conversione" di Miguel appare decisamente più insistita e "buonista" di quanto non sia nell'originale, così come la malattia di Emilio - pur restando terribile - viene omaggiata di un'apertura di speranza che è meno evidente nel fumetto.

Due linguaggi diversi. Una stessa storia. Terribile, ma trattata con straordinaria ironia. Si ride tanto in sala, ma amaramente perché tutti sappiamo che quello che vediamo è purtroppo un destino comune.

Un capolavoro il graphic novel. Un quasi capolavoro il film.

Voto: 4/5


mercoledì 23 maggio 2012

Vento scomposto / Simonetta Agnello Hornby

Vento scomposto / Simonetta Agnello Hornby. Milano: Feltrinelli, 2010.

Mike e Jenny Pitt sono una coppia alto-borghese che vive a Londra con due figli, Amy e Lucy. Mike lavora in una società che si occupa di transazioni finanziarie, Jenny è nel campo della moda. Hanno soldi a sufficienza per non privarsi di niente per se stessi e neppure per le loro figlie.
Hanno i problemi di tutte le famiglie, le normali incomprensioni dovute ai carichi di lavoro eccessivi di lui e ai problemi legati all’educazione delle figlie. Però quella dei Pitt è una famiglia unita.

Steve Booth è un avvocato che si occupa di cause relative alle famiglie, in particolare abusi e maltrattamenti relativi ai figli. Ha due segretarie, Sharon e Pat, da poco arrivata presso lo studio Wizens.

Questi due mondi che apparentemente non hanno nulla in comune saranno destinati a incontrarsi quando la maestra dell’asilo di Lucy, Mrs Dooms, esprime dei dubbi sul comportamento della bambina sollevando la possibilità che questa subisca un abuso da parte del padre. Questi dubbi innescheranno una reazione a catena che coinvolgerà prima i servizi sociali, in particolare nella persona di Miss Barnes, poi i consulenti psicologi, in particolare Miss Cliff, infine gli avvocati chiamati a decidere se Mike Pitt abbia commesso o meno abuso nei confronti di sua figlia e se Lucy ed Amy debbano essere allontanate dalla famiglia.

Di Simonetta Agnello Hornby avevo letto a suo La mennulara che avevo apprezzato per la ricchezza dell’intreccio e l’accurata ambientazione siciliana. Qui la scrittrice ci catapulta in un mondo completamente diverso, che però le è allo stesso modo molto familiare, visto che la Agnello Hornby vive a Londra da moltissimo tempo e di professione fa proprio il giudice dei minori.

Due libri così diversi come La mennulara e Vento scomposto hanno in realtà molto in comune, in particolare per la capacità dell’autrice di trasformare qualunque storia in una specie di giallo psicologico, in cui non siamo mai sicuri del nostro giudizio nei confronti dei personaggi e oscilliamo continuamente tra dubbio e incertezze.

Qui è Mike Pitt a suscitare sentimenti contrastanti: non è un personaggio simpatico fin dalle prime pagine. È freddo, spocchioso, distante, pensa di poter comprare tutto con i tanti soldi che guadagna grazie ad azioni finanziarie di tipo speculativo. Frequenta un ambiente, quello dell’alta finanza, popolato di personaggi assurdi e di dubbia moralità. Ha un rapporto in parte dominante nei confronti della moglie Jenny, che a sua volta si presenta fragile e piena d’ansia, eppure non dubiterà mai dell’innocenza del marito.

Mike è legato alle sue figlie, ma è spesso assente dalle loro vite, tanto che cerca di recuperare terreno portandole fuori per pranzo o concedendo loro molti capricci.

Al confronto con la famiglia Pitt le altre famiglie che frequentano lo studio di Steve, madri e padri che rischiano ogni giorno di perdere i loro figli per situazioni personali, economiche o sociali molto complesse, suscitano certamente molta più compassione e partecipazione emotiva.

L’autrice ci spinge insomma a cadere nella stessa trappola psicologica che porterà Miss Barnes e Miss Cliff a fare una lettura superficiale della realtà, convinte come sono – a causa di pregiudizi o situazioni personali irrisolte – che Mike Pitt sia il prototipo del padre abusatore.

La morsa giudiziaria e la complessità di tradurre in elementi probatori certi la sensazione che Mike Pitt possa essere innocente insinueranno il dubbio non solo nel lettore, oltre che in molti personaggi del romanzo, ma anche nello stesso Mike che finirà a sua volta per dubitare di se stesso, dei suoi ricordi, del suo passato, rivelando infine una fragilità che non si era palesata per buona parte del libro.

La Agnello Hornby dimostra di conoscere molto bene i meccanismi giudiziari e con questa storia che – come lei stessa afferma – è frutto della sua fantasia, ma sarebbe potuta accadere nella realtà, traduce in narrativa un atto di accusa nei confronti del Children’s act, la norma introdotta nella legislazione britannica alla fine degli anni Novanta che sembrerebbe responsabile di molte storture e capace di determinare grossi errori giudiziari.

La lettura di Vento scomposto - per quanto ricca di dettagli e di storie parallele non sempre facili da seguire e di personaggi non sempre facili da ricordare - è una lettura appassionante, un vero e proprio legal thriller che rispetto ad altra narrativa di genere è capace di associare ad una conoscenza approfondita della macchina della giustizia inglese una partecipazione umana ed emotiva che fa la differenza.

Voto: 3,5/5

martedì 15 maggio 2012

Berlino, città fluida (II parte)

Dopo il nostro intenso weekend, il lunedì ci aspettano le bici che L. ci ha gentilmente messo a disposizione e un po’ di shopping.

Peccato che io non sia in grado di gestire il freno a pedale della mia bicicletta, e dunque l’attraversamento della Frankfurter Allee e della Karl Marx Allee, in direzione di Alexanderplatz risulti molto faticoso. Prima tappa il negozio di Freitag dove compro una borsa che volevo da anni, poi attraversiamo Hackesche Höfe e i suoi nove cortili e camminiamo per le strade di Mitte.

Sulla via del ritorno ci fermiamo a mangiare una zuppa di noodles e del sushi da Kuchi, un ristorantino giapponese che avevamo notato la sera prima. Inforchiamo le bici per la seconda e ultima volta in questa vacanza visto che abbiamo deciso di restituirle a L.


La sera siamo invitate a cena a casa di L. Da brave ospiti abbiamo preparato un dolce (il salame di cioccolato, l’unico realizzabile con i pochi mezzi a disposizione) e comprato del vino e del formaggio. La cena di pesce e verdure è buonissima, la compagnia molto gradevole. Insomma andiamo a dormire felici.

Il martedì è il giorno delle mostre (visto che di lunedì gran parte dei musei sono chiusi). Siamo dirette prima a Camera Work, una galleria che ospita mostre di fotografia e in questo momento espone la mostra di Anton Corbjin Inwards and outwards.

Il posto è molto bello, la mostra piccola ma affascinante. La zona è molto elegante ed piena di negozi di design.

Ci fermiamo a mangiare qualcosa in un piccolo locale austriaco dove polpette e topfenstrudel (una specie di cheesecake) ci danno una grande soddisfazione.

Siamo pronte per la Neue Nationalgalerie dove è in corso la mostra di Gerhard Richter Panorama.


Non conosco l'autore e dunque mi lascio andare al suo mondo multimediale in cui la non definizione dei contorni, l'effetto sfocato, sgranato, moltiplicato da un lato e il gusto quasi fotografico e caratterizzato da colori molto definiti dall'altro trasmettono una sensazione di profonda contraddizione emotiva che forse per Richter è propria della nostra epoca contemporanea. Faccio molte foto perché qui non hanno l'ossessione dei musei italiani contro le macchine fotografiche e scatto la migliore foto della vacanza berlinese.


Dopo una breve tappa allo shop della Filmhaus al Sony Center, decidiamo di rimanere in giro all'ora di cena. La nostra destinazione è un locale di cui ho letto, che sta sempre a Friedrichshain (dove alloggiamo), ma a sud della Frankfurter Allee, e che si chiama Matreshka (o Matrioska) perché fa cucina dell'Est Europa.

Approfittiamo per fare un giro in questa zona, tra parchi giochi per bambini, case occupate, viali alberati e fontane a pompa. Ci fermiamo per un aperitivo in un baretto attirate dall'aria rilassata di un giovanotto col cappello dall'aria molto tedesca che sta bevendo una birra e fumando la sua sigaretta.

Anche noi ci concediamo l'ennesima birra di questa vacanza, accompagnata da patatine fritte (o arrosto chissà!). Quando usciamo sta piovendo, anzi no, sta diluviando. Del resto è la prima volta da quando siamo qui, dunque non possiamo lamentarci.

Arriviamo alla nostra destinazione un po' bagnate ma il posto è molto carino, giovane, semplice e con un cameriere molto gentile. Prendiamo due zuppe, una bortsch e una soljanka (porzioni ridotte) e due piatti principali: gulasch con purè e Moskauer schnitzel con patate arrosto (una fetta di carne panata di cui tutti in Europa vogliono essere gli unici inventori).

La birra non manca e a fine pasto ci offrono una buonissima vodka russa. Spendiamo poco più di 11 euro a testa! Per i berlinesi non è un posto economico, anche per quelli a cui non manca il lavoro... Sarà per questo che qui la crisi non cè?!?

Tornando verso l'appartamento ci fermiamo a prendere da bere con L. per salutarla.
La vacanza è finita... :-(((

Che dire di Berlino?

Se avevo definito Londra una città sempre più radical-chic, Berlino è una città con pochi compromessi; radicale in molte sue espressioni, chic in molte altre, senza vie di mezzo, senza inutili fronzoli, senza ricercatezze che non siano giustificate.

Una città che scorre fluida nella facilità con cui la si attraversa, nella rapidità con cui sfrecciano le biciclette, nella normalità della vita quotidiana, nell'assenza di pretenziosità del modo di vestire e di comportarsi dei suoi abitanti, nella modalità in fondo rilassata di accettare un paesaggio urbano in buona parte industriale facendone un proprio tratto distintivo, nel vuoto dei grandi spazi che ancora permettono all'anima di respirare, nel pieno assorbimento di qualunque espressione originale di sé e di qualunque scelta personale.

Luogo simbolo della libertà che ne costituisce anche oggi la principale bandiera e attrattiva. Anche per questo si torna sempre con piacere in questa città.

mercoledì 9 maggio 2012

La commedia di Orlando / con Isabella Ragonese

Arrivo a teatro digiuna di tutto. Non ho letto il romanzo di Virginia Woolf e nemmeno ho visto il film con Tilda Swinton, tratto dallo stesso romanzo.

Dunque di Orlando non mi sono fatta un'idea, né ho aspettative di alcun tipo.

Forse per questo riesco ad accogliere fin da subito la scelta di Emanuela Giordano, regista e drammaturga, di recuperare dell'Orlando di Virginia Woolf (opera che tutti dicono complessa e multistrato) la componente di divertissement letterario e le ascendenze shakespeariane (a tratti ricorda opere come La dodicesima notte o Molto rumore per nulla).

Non a caso il libretto che accompagna la messa in scena dell'opera, nel raccontare La commedia di Orlando (in scena al Teatro Argentina di Roma dal 4 al 20 maggio) con parole e immagini utilizza molti brani tratti dai Diari di Virginia Woolf, quelli in cui la scrittrice esprime il senso di libertà che ha provato nel lasciare andare la sua immaginazione a questo scherzo letterario, a questa scappatella dal rigore, a questa parentesi farsesca, a questa presa in giro...

E così la bizzarra vicenda di Orlando che passa attraverso i secoli prima come adolescente e giovane ragazzo poi come donna matura e determinata a realizzare le sue ambizioni letterarie si trasforma in un racconto corale e un po' circense (come la scelta dei costumi sottolinea), in cui ad Orlando (magnificamente interpretato da Isabella Ragonese, più convincente nella fase della giovinezza maschile del protagonista che in quella adulta femminile) fanno da contorno i due servitori Hill e Hall, le due servitrici Judy e Faith e soprattutto l'amica, madre e confidente, Mrs Virginia, la voce della razionalità e della saggezza.

L'approccio corale della messinscena è ulteriormente sottolineato dalla pervasiva presenza della musica, vero e proprio settimo protagonista della commedia. Musica originale eseguita dal vivo dalla Bubbez Orchestra con chitarra e violoncello.

E così vediamo scorrere davanti ai nostri occhi le epoche e i personaggi che Orlando incontra durante la sua vita lunga quattro secoli con i toni e la leggerezza dei teatri di marionette, che anche la gestualità e le scelte vocali dei protagonisti sembrano richiamare.

Non è che non si parli di temi importanti (c'è il tema della guerra, delle differenze di classe e di genere, della varietà culturale e sociale), né si tradisce lo spirito comunque impegnato di Virginia Woolf, ma si ride, ci si diverte, e anche i più intellettuali alla fine cedono a questa lettura un po' sopra le righe dell'Orlando.

Alla fine un messaggio arriva forte e chiaro. La vita è scoperta, è ricerca, è realizzazione di sé, è amicizia, è viaggio, è burla. L'importante è non esserne sopraffatti. Per un attimo evidentemente anche Virginia ha pensato di potersi fare beffe della vita.

Certo a questo punto non posso evitare di arricchire e completare il mio approccio a ritroso ad Orlando vedendo il film e leggendo il libro!

Voto: 3,5/5

lunedì 7 maggio 2012

Berlino, città fluida (I parte)

Torno a Berlino dopo quasi 10 anni (la prima volta ci ero stata per un congresso IFLA e avevo fatto un tradizionale giro turistico per la città e mi era piaciuta molto).

Questa volta non viaggio da sola e a Berlino c'è pure un'amica che ci attende. Proprio per stare vicino a lei abbiamo scelto un appartamento a Friedrichshain, a nord della Frankfurter Allee, una zona molto tranquilla e residenziale, poco lontana dai mezzi pubblici (che comunque a Berlino sono pervasivi) e dalle zone a maggiore densità turistica.

Il primo contatto con la città non è esattamente berlinese; ceniamo con L. in un ristorante spagnolo quasi sotto casa, La tienda del toro. D’altra parte la nostra serata si annuncia lunga visto che ci aspetta un concerto di musica classica alla Philharmonie di Berlino e poi un’esplorazione della vita notturna berlinese del fine settimana.

La sala piccola della Philharmonie - dove si tiene il concerto che prevede l’esecuzione di brani di Brahms e Dvorak - è davvero particolare. C’è un’area centrale dove si posiziona l’orchestra e tutti i posti a sedere si sviluppano a scalare come in un anfiteatro. Il pubblico ha un’età media di almeno 60 anni (L. ci spiega che non si tratta solo di una questione di interessi, ma anche economica) e l’orchestra forse anche di più. L’impressione è che questi musicisti suonano fino all’ultimo e i giovani entrano col contagocce a sostituire le defezioni.

Io non riesco a tenere gli occhi aperti per tutto il concerto (la mia cultura musicale è davvero troppo scarsa!) e quindi non riesco neppure a partecipare al successivo dibattito tra L. e C. sulla scarsa incisività dell’esecuzione e la limitata capacità di trasmettere forza emotiva, anche da parte della violinista solista.

L’esperienza però è stata bella e conto di ripeterla a Roma all’Accademia nazionale di Santa Cecilia.

A questo punto comincia il nostro tour notturno che si svolge nelle strade di Kreuzberg, il quartiere più vivo e più composito della città, quello in cui trova posto un po’ tutto.
E infatti il primo bar, nascosto in un sottopassaggio, occupa un vecchio negozio di mobili, da cui prende il nome, Möbel-Olfe, e accoglie giovani e meno giovani dalle facce diverse e interessanti. Non ha veri e propri posti a sedere se non alti sgabelloni e alcuni tavolini per una breve sosta e una birra.

A questo punto ci spostiamo in un bar poco distante intitolato al film di Bunuel El Ángel Exterminador, Würgeengel, che ha un’aria decisamente più bohemienne e curata, ma mantiene una sostanziale semplicità e un’atmosfera molto rilassata.

Riusciamo a sederci a un tavolino e passiamo a un pastis digestivo. Intorno a noi giovani di ogni nazionalità, ma anche molti berlinesi che chiacchierano e ridono.

Lasciamo anche questo locale alla volta di Oranienstrasse, dove facciamo una prima tappa mangereccia visto che ormai sono passate molto ore dalla nostra cena. Il posto è una specie di fast food turco, come ce ne sono milioni a Berlino, si chiama Oregano, prendiamo un kebab il cui contenuto di carne e verdure è stato cotto al wok e L. una pizza che – devo ammettere – fa concorrenza a molte pizze italiane.

Siamo pronte per uno storico locale berlinese, l’SO36, dove si narra che negli anni Ottanta si potevano incontrare personaggi del calibro di David Bowie. C’è una festa con tre dj di cui una più che cinquantenne. All’interno c’è molta gente che balla, gente anche qui di ogni età ed estrazione sociale. Ma si è ormai fatto tardissimo e noi siamo ormai distrutte. Si torna a casa per ricaricare le energie per il giorno dopo.

La domenica la dedichiamo a una lunga passeggiata che comincia (ovviamente non prima delle 12) a Treptower Park, prima lungo la Spree (il fiume che attraversa Berlino) poi all’interno del monumentale memoriale ai caduti sovietici in cui la fanno da padrone delle enormi statue caratterizzate da una fortissima componente nazionalista e celebrativa. Un posto da vedere.

Poi andiamo a visitare una specie di mercatino delle pulci che si tiene ogni sabato e domenica in un capannone che era un tempo una rimessa per gli autobus. Un posto molto berlinese, pieno zeppo di oggetti in buona parte inutili, al cui ingresso campeggia un salotto giallo molto anni Settanta e molto Germania Est.

Quindi ci incamminiamo verso Kreuzberg, passiamo a dare un occhio al ponte sulla Spree e prima di addentrarci torniamo sui nostri passi verso un posto che abbiamo adocchiato, un ristorantino sul canale che si chiama Freischwimmer dove è in corso il brunch. Qui accade uno degli episodi che faranno dire a C. e L. che nella mia vita precedente probabilmente ero tedesca (tanto più che a colazione bevo caffè filtrato allungato con latte condensato!): la cameriera mi parla in tedesco e io – come niente fosse e senza mai averlo studiato – traduco per C. Si ripeterà però solo in un’altra circostanza nel corso del viaggio!

Il posto è davvero carino, siamo a pelo dell’acqua, su una specie di banchina di legno chiusa a vetri. Prendiamo un sidro e una splendida zuppa di patate e latte di cocco (che tenterò di riprodurre a casa).

Ci rimettiamo in cammino poiché io mi sono fissata che voglio vedere l’Admiralbrücke, il ponticello dove i giovani si siedono per terra sui ciottoli a bere e chiacchierare nel verde scenario del canale.

Percorriamo il lungo-canale superati da biciclette, persone con i cani, gente che fa jogging, famigliole in libera uscita domenicale. Tutto molto rilassante.

All’Admiralbrücke non possiamo che fare come tutti gli altri, sederci per un po’ e guardarci intorno.
A questo punto siamo pronte ad attraversare Kreuzberg di giorno passando per Kottbusser Tor e per Oranienstrasse. Certo di domenica l’atmosfera è meno affascinante e movimentata!

Pisolino a casa e poi pronte per l’uscita serale che questa volta ci porterà a Mitte, il quartiere più elegante di Berlino, quello dei locali e dei negozi chic. L. ci conduce attraverso strade e cortili interni che ci porteranno alla nostra destinazione, la Clärchens Ballhaus dove i berlinesi si ritrovano non solo per mangiare ma anche e soprattutto per ballare.

La domenica è il pomeriggio ad essere stato danzante. Ora, in questo posto in cui si alternano i segni di un passato elegante ed elementi kitsch come i fili argentati lungo le parti e la palla stroboscopica da discoteca c’è un grande spazio vuoto al centro e i tavoli lungo il perimetro.

Mangiamo cucina tedesca, delle buonissime polpette con purè di patate, lo stinco di agnello al forno, le Königsberger Klopse (delle polpette in salsa bianca accompagnate da rape rosse), il tutto ovviamente innaffiato di birra. Sazie e soddisfatte, eccoci a casa.

venerdì 4 maggio 2012

Mostre a Palazzo delle Esposizioni: Il Guggenheim e Arturo Ghergo


Il Guggenheim. L'avanguardia americana 1945-1980. Mostra, Roma, Palazzo delle Esposizioni, 7 febbraio-6 maggio 2012

Arturo Ghergo. Fotografie1930-1959. Mostra, Roma, Palazzo delle Esposizioni, 3 aprile-8 luglio 2012

Il Palazzo delle Esposizioni è sempre un rifugio sicuro in una domenica in cui il tempo non invoglia ad andare in giro per Roma.

Io e la mia amica G. ci andiamo principalmente per vedere la mostra dedicata ad Arturo Ghergo, ma il nostro giro comincia con una rapida visita della mostra dedicata alle avanguardie americane che dal 1945 al 1980 hanno trovato la loro espressione anche grazie al mecenatismo della famiglia Guggenheim.

La mostra è organizzata cronologicamente e ciascuna delle sale che si aprono intorno all'atrio centrale del Palazzo delle Esposizioni è dedicata a un periodo e a una modalità espressiva.

L'idea non è quella di approfondire le singole correnti pittoriche e forme espressive, di cui vengono proposte solo poche opere rappresentative e flash illustrativi, bensì quello di mettere in evidenza la lungimiranza dei Guggenheim nel riconoscere e dare spazio alle nuove correnti artistiche di volta in volta emerse e nel perseguire con coerenza questo ruolo di ospite delle avanguardie.

Ne viene fuori un racconto dell'evoluzione della pittura (e non solo) americana che è anche una testimonianza dell'influenza che questo paese ha avuto sulle forme artistiche ed espressive di tutto il mondo occidentale.


Interessante, anche se dal mio punto di vista è risultata molto più interessante la mostra dedicata ad Arturo Ghergo. Non conoscevo il fotografo di Montefano, adottato dalla città di Roma, e il suo studio, e dunque trovarmi di fronte a queste straordinarie fotografie in bianco e nero che testimoniano la moda e la cultura visiva dei decenni tra il 1930 e il 1960 è stato davvero sorprendente.
La mostra spiega molto bene che Ghergo interpretava il suo lavoro di fotografo in maniera artigianale più che artistica. Il che non vuol dire che non avesse in assoluto velleità artistiche, tanto che accanto alle fotografie sono in esposizione alcuni dei suoi quadri astratti.

Il fatto è che Arturo Ghergo era un perfezionista e puntava a raggiungere in ogni foto la massima espressione del suo modello di bellezza. Soggetti delle sue foto sono dive e aspiranti dive (e solo pochi divi) che in quegli anni cominciavano a popolare gli schermi cinematografici e televisivi, ma anche i componenti delle famiglie nobiliari e alto-borghesi romane e non solo. Spesso si tratta di ritratti ad uso familiare, altre volte di servizi fotografici per la moda.

Qualunque fosse la finalità e l'utilizzo della fotografia, il canone di Ghergo veniva rispettato fino all'ossessione al punto tale che il divismo costituisce un elemento trasversale e distintivo che nelle sue foto accomuna donne famose e meno famose. La cura maniacale con cui Ghergo lavorava con le luci, ricercava la massima espressività del volto e degli occhi e insieme al suo assistente Tonio ritoccava le foto per conferire a tutti i visi e a tutti i corpi armonia e bellezza è spiazzante. È vero che Ghergo fotografa donne bellissime, ma certamente contribuisce in buona parte ad esaltarne la bellezza. E soprattutto definisce un modello che chiunque abbia a casa foto dei propri genitori giovani negli anni Cinquanta ritroverà perseguito anche dai piccoli fotografi di provincia.

La ripetitività sembra essere un limite alla creatività e potrebbe in qualche modo sminuire l'opera di Ghergo a mestiere. Ma in realtà quello che accade è esattamente il contrario. In un certo senso Ghergo riscatta il mestiere del fotografo e solleva anche la sua attività ordinaria a un livello di qualità artistica.

La mostra ci permette anche di seguire gli sviluppi dello studio Ghergo dopo la morte di Arturo, gli sforzi della moglie e della figlia per proseguirne il lavoro e garantirne la continuità dello stile fino alla chiusura nel 1999.

Bello anche il documentario realizzato dalla figlia del fotografo che ci offre uno sguardo dall'interno sul lavoro di Arturo e ci racconta la sua epoca e la sua personale epopea.

Un tuffo in un'Italia che non c'è più ma la cui espressione contemporanea affonda le proprie radici proprio in quei decenni.

Voto: 3,5/5

giovedì 3 maggio 2012

Piccole bugie tra amici


Appena il film è finito mi sono catapultata davanti a un computer per vedere di che anno è il regista del film, Guillame Canet. E - non avevo dubbi - è nato nel 1973, il mio stesso anno.

Sì, perché è evidente che Canet in Piccole bugie tra amici parla proprio della sua e della mia generazione. Certo lo fa dall'angolo visuale del suo universo culturale francese, ma l'estendibilità del ritratto non ne risente.

Eccoli i quarantenni di oggi.

Più o meno riusciti dal punto di vista professionale, più o meno sistemati sul piano personale.

Alcuni hanno famiglia e figli ma cercano vie di fuga dalle responsabilità oppure sono ossessivi e paranoici, altri inseguono fumosi modelli di vita alternativa (le tribù dell'Amazzonia e la filosofia new age), altri ancora rifiutano di crescere e di accettare quella quotidianità che sentono inevitabilmente pesante e noiosa.

Molti di loro sono confusi, hanno le idee poco chiare sulla propria identità e sul proprio futuro.

Eternamente adolescenti, vittime del perdurante mito del carpe diem (L'attimo fuggente deve proprio averci rovinato!!), del bisogno compulsivo di mordere la vita, di non lasciarsi sfuggire niente, di provare tutto, di divertirsi a tutti i costi. Idealisti e cinici allo stesso tempo. In attesa di qualcosa che neppure loro sanno cos'è.

Sempre sopra le righe, perfettamente a loro agio nelle deliranti dinamiche di gruppo, la cui geometria è tutta interna ed escludente rispetto a chi al gruppo non appartiene.

A quarant'anni si aggrappano agli amici di sempre, ai soliti giochi, agli scherzi da ragazzini, come se questo li mettesse al riparo dal peso della vita.

Comunque benestanti, attenti alla forma fisica, trendy. Ma quasi sempre intrinsecamente irrisolti.

Ripetono instancabilmente le stesse dinamiche nella più assoluta autoreferenzialità.

Ridono, piangono, si arrabbiano, litigano, ma in fondo lo fanno sempre in maniera piuttosto superficiale. Sentimenti ed emozioni oscillano tra le semplificazioni modello "bacio perugina" e un materialismo cinico e distruttivo.

Raramente la vita reale fa il suo ingresso nel mondo parallelo che si sono costruiti e quando lo fa con la morte dell'amico Ludo (Jean Dujardin) - che hanno lasciato in un letto d'ospedale dopo un incidente in motorino per fare la loro tradizionale vacanza a Cap Ferret - ancora una volta reagiscono in modo infantile e tutto si scioglie in un abbraccio attorno a quella specie di padre putativo che è Jean-Louis (Joel Dupuch).

Nessuno di questi personaggi riesce ad essere veramente antipatico: non Max (François Cluzet) e il suo nervoso approccio all'esistenza, non Marie (Marion Cotillard) che non ha ancora conciliato la sua natura bambina con la sua bellezza e la facilità di sedurre, non Eric (Gilles Lellouche) che non riesce a smettere di impersonare il cazzone di turno, non Antoine (Laurent Lafitte) che crede nell'amore romantico, non Vincent (Benoît Magimel) che si scopre innamorato di Max, non Veronique (Valérie Bonneton) e Isabelle (Pascale Arbillot) i cui bisogni insoddisfatti devono scendere a compromessi con i loro infantili mariti.

Ci fanno ridere, sorridere e commuovere questi amici che sono arrivati a quarant'anni senza neppure rendersene conto. Ma ci fanno anche pena perché non è facile vedere una via d'uscita a questa coazione a ripetere. A vent'anni sarebbero fighi e divertenti. A quaranta rischiano la compassione.

Non voglio dire che siano/siamo tutti così. Non c'è dubbio però che Guillame Canet conosce bene le idiosincrasie generazionali e le mette in scena con affetto, ma in fondo senza alcuna pietà.

Grande sceneggiatura (avrebbe avuto bisogno però di qualche sforbiciata in più), bellissima (anche se un po' scontata) la colonna sonora (anche quella molto generazionale).

A me è piaciuto.

Voto: 4/5