domenica 26 febbraio 2012

Signorina Giulia

La scenografia di Signorina Giulia (in scena fino ad oggi al Teatro Eliseo di Roma) è l’interno di un palazzo, con in primo piano gli spazi della servitù e in secondo piano gli ambienti più signorili. Il piano del pavimento è inclinato verso la platea, quasi a far scivolare gli attori verso il basso, e su questo pavimento si aprono finestre e porte che ci aspetteremmo sulle mura. Le mura verticali sono invece inesistenti o parzialmente diroccate.
Sulla scena di Signorina Giulia, quindi, la normale sistemazione degli spazi risulta sovvertita e gli attori non si muovono mai in orizzontale, ma sempre in verticale per salire delle scalette e uscire o per scendere attraverso le porte/botole sul pavimento negli spazi sottostanti.

Sì, perché il tema di questo dramma di August Strindberg è il rapporto tra le classi sociali in una società in cui i confini tra il mondo dei nobili e quelli della servitù appaiono invalicabili. Il fatto è che la signorina Giulia (Valeria Solarino) è una giovane donna irrequieta e un po’ borderline e, pur essendo figlia del conte padrone di casa, è a disagio nel suo ruolo e negli schemi che questa società le impone. Così la sera della festa di mezza estate, flirta con il guardacaccia, Giovanni (Valter Malosti), e si confronta con la cuoca del palazzo, Cristina (Federica Fracassi), fidanzata di Giovanni.

Il sovvertimento dell’ordine “naturale” delle cose determinato da questa folle incursione di Giulia in un mondo che la attira ma che non le appartiene produrrà conseguenze prevedibili e complesse allo stesso tempo, fino alla tragica conclusione.

Dentro questo drammone di Strinberg domina certamente il tema dei rapporti di classe e della artificialità dei loro confini: è vero che Giulia e Giovanni parlano due lingue diverse, ma in certi momenti i registri linguistici si mescolano, si confondono e quasi si scambiano. È vero che Giulia e Giovanni hanno bisogni diversi, la prima segnata dal rapporto malsano tra i suoi genitori e attraversata da una modernissima insoddisfazione, il secondo completamente immerso nella materialità delle esigenze corporali, dal miraggio del denaro e della ricchezza al servilismo interiore; però, nell’incontro tra questi due mondi accade a volte che non si capisca chi è il nobile e chi il servo, chi ha più il senso del mondo e della realtà e chi vive in una dimensione parallela.

Si riconoscono però qua e là molte altre tematiche, diverse, ma in qualche modo connesse alla precedente, come ad esempio il rapporto uomo/donna e il crescente desiderio di emancipazione della donna (che è evidente in Giulia, ma che in misura minore è anche della serva Cristina) e il rapporto con la sessualità, che è strumento di potere nella relazione tra i sessi e non necessariamente in un’unica direzione.

Alla monodimensionalità di un personaggio come Giovanni (greve in maniera quasi fastidiosa) si contrappongono le sfumature, ben più articolate e sottili, delle due donne in scena, Giulia e Cristina. Giulia è un personaggio attualissimo nella sua follia che potremmo definire quasi postmoderna, Cristina è un personaggio più caratterizzato storicamente (sebbene l'antirealismo del suo accento veneto tolga qualunque naturalismo) ma altrettanto sfaccettato e imprevedibile.

Il testo di Strindberg ha dunque delle potenzialità straordinarie e pur agganciato a un’epoca storica con problematiche molto diverse da quelle del presente è certamente capace di parlare anche all’oggi.

Il fatto è che la regia di Malosti non riesce davvero ad osare, restando un po’ sospesa in una specie di terra di nessuno.
La sua Signorina Giulia non è una ricostruzione filologica dello spirito originario dell’opera; anzi, piuttosto ambisce a una sua modernizzazione, come dimostrano le scelte musicali e l’adattamento – a volte anacronistico – dei testi.
D’altro canto, Malosti non se la sente di portare questa scelta alle estreme conseguenze, trasformando Signorina Giulia in un testo veramente moderno e dunque lontano dall'origine, e così il risultato è un ibrido che in qualche modo risulta poco convincente.

Personalmente, ho trovato molto fastidiosi i costumi (un po’ didascalici se non eccessivi nell’esprimere il modo di essere momenti dei personaggi, in particolare il completo di pelle nera di Giovanni), poco tollerabili le musiche e il sonoro (in particolare i rumori amplificati e le voci fuori campo), un po’ troppo sopra le righe alcune parti di dialogo, che sfociano talvolta in una comicità non so quanto volontaria.

Il risultato non mi ha convinta. Sono uscita dallo spettacolo con un senso di insoddisfazione spiacevole, come di fronte a un’occasione mancata, alla possibilità non sfruttata veramente a fondo per capire Strindberg e il suo mondo e forse anche per riflettere sul mondo di oggi.

Voto: 2,5/5

mercoledì 22 febbraio 2012

La parentesi / Elodie Durand

La parentesi / Elodie Durand. Bologna: Coconino Press, 2011.

La scuola del fumetto francese non smette di sfornare nuovi talenti, probabilmente anche grazie al riconoscimento sociale e all'attenzione che questa forma d'arte riceve nei paesi francofoni.

E così Elodie Durand arriva dal nulla e vince il premio rivelazione al Festival Internazionale del fumetto di Angoulême del 2011, lo stesso in cui Manuele Fior ha vinto il premio per il miglior albo con Cinquemila chilometri al secondo.

La parentesi è una storia autobiografica raccontata attraverso il proprio alter ego Judith; anzi si può dire che nella vicenda personale di Elodie Durand il disegno ha avuto un vero e proprio ruolo terapeutico nell'aiutare la giovane a esprimere i propri sentimenti e a fissare i ricordi sfuggenti. Qua e là nell'albo sono infatti disseminati i disegni che Elodie ha realizzato a metà degli anni Novanta, quelli in cui combatteva contro la sua malattia.

Sì, perché La parentesi racconta della battaglia per la vita di questa giovane donna che mentre è all'università comincia a soffrire di crisi epilettiche e ad avere perdite progressive di coscienza e di memoria.
Scoprirà che si tratta di un tumore, collocato subito sopra l'ipofisi, non operabile in maniera tradizionale.

L'albo racconta del calvario di Judith/Elodie e della sua famiglia nell'attraversare questo momento difficilissimo e lo fa mediante un dialogo a posteriori tra la stessa Judith/Elodie che ha perso la memoria di molte cose e i suoi genitori che l'aiutano a ricordare.

Si tratta di un racconto commovente in cui spicca il rapporto speciale tra la ragazza e sua madre (l'unica persona che ricorda sempre vicina a sé durante la malattia) e in cui viene descritta con straordinaria efficacia visiva la sensazione di perdita della memoria personale come una caduta nel vuoto, un essere inghiottiti in un buco nero, un non esistere.

È straordinariamente toccante ripercorrere con Judith/Elodie il processo di perdita della propria identità che arriva al punto da renderle impossibile contare, recitare l'alfabeto, uscire di casa. Ed è altrettanto toccante vivere con Judith/Elodie il suo lento recupero, dopo l'intervento subito a Marsiglia che le ha necrotizzato il tumore, la sua forza di volontà nel ricominciare daccapo, nell'imparare quello che già conosceva, nel ricostruirsi una vita normale.

Ne viene fuori il mistero in cui ancora è avvolto il nostro cervello; perché la scienza fa progressi, ma il modo in cui funziona il nostro cervello è ancora un grandissimo punto interrogativo per tutti.
Ne viene fuori la centralità della memoria per l'essere umano. Non ci avevo mai pensato, ma noi siamo fondamentalmente memoria e ricordi. Il qui e ora perde completamente di senso se non è agganciato cronologicamente al passato e a tutto quello che è stato.

Una lettura non certo leggera (che forse in questo periodo di immobilità forzata mi potevo risparmiare!), ma certamente un'opera intensa e toccante.

Voto: 3,5/5

sabato 18 febbraio 2012

Melancholia

Il film è ormai uscito dalle sale cinematografiche e io sto contravvenendo a una delle regole di base di questo blog, ossia di non recensire film che non abbia visto sul grande schermo.

Però, in questo caso avevo fatto una promessa; e poi la caviglia ancora gonfia e la forzata immobilità mi autorizzano a fare qualche eccezione ;-) (mi dovrò pure consolare in qualche modo!)

Lars Von Trier mi piace, soprattutto depurato da alcuni suoi eccessi, ed anche se non si può certo dire che i suoi film si aprano a prospettive di ottimismo.
Nel caso di Melancholia il senso di angoscia è diffuso e presente dall'inizio alla fine, in un crescendo che va di pari passo con l'avvicinarsi del pianeta alla terra, al punto tale che l'impatto appare quasi liberatorio.

Dopo una introduzione fortemente estetica (una sequenza di immagini al ralenti che sono veri e propri quadri e che riassumono in qualche modo il senso di quello che verrà), il film si articola in due parti (in successione temporale, ma con un'assoluta unità di luogo), dedicate rispettivamente a Justine (la straordinaria Kirsten Dunst) e a sua sorella Claire (Charlotte Gainsbourg).

Justine e Claire, per quanto apparentemente opposte, sono in realtà due facce della stessa medaglia, così come lo sono le due parti del film, la prima a rappresentare la dimensione sociale dell'umanità (o meglio la solitudine dell'uomo in mezzo agli altri uomini), la seconda nel mettere la solitudine dell'uomo di fronte alla natura e all'inevitabile destino di morte.

Le due sorelle si muovono in uno spazio nel quale risultano praticamente imprigionate (tanto che più volte tentano - senza riuscirsi - di superare il ponticello che porta fuori dalla proprietà); si tratta della bellissima casa di campagna dove Claire vive con suo marito John (Kiefer Sutherland) e suo figlio Leo (Cameron Spurr), circondata da boschi e da un'enorme campo da golf. Un mondo piccolo e circoscritto, un po' come quel pianeta infinitesimale rispetto alla grandezza dell'universo nel quale casualmente ci è stato dato di vivere.

Justine è l'espressione dell'angoscia della vita; mi ha fatto tornare in mente la famosa frase che Calvino scrive ne Le città invisibili: "L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme."

Il microcosmo umano rappresentato da Von Trier nella prima parte del film, quella che racconta del matrimonio di Justine, è una somma di patologie individuali, di tentativi dei singoli di sopravvivere alla durezza e all'insensatezza della vita: dal cinismo ed egoismo assoluti della madre (Charlotte Rampling) alla superficialità adolescenziale del padre (William Hurt), dall'inconsistente ingenuità dello sposo alla ferocia senza scrupoli del datore di lavoro. E non si tratta di un concentrato di umanità deteriore: è solo ciò che la sensibilità esasperata di Justine coglie intorno a sé, senza riuscire a difendersi e fino a vedere inevitabilmente spezzato il proprio fragile equilibrio psicologico ed emotivo. Justine che capisce tutto, sente tutto. Condannata per questo alla sofferenza.

Claire rappresenta invece l'angoscia della morte, quell'ansia che ci portiamo dentro di fronte all'ineluttabilità del nostro destino, quell'ansia che razionalmente cerchiamo di controllare dando ordine e senso alla nostra quotidianità, ma che facilmente viene portata alla superficie dall'inaspettato.

Claire e Justine (e forse l'umanità tutta) sono accomunate dalla consapevolezza, conscia o inconscia, dell'assenza di senso, dall'impotenza di fronte all'ingranaggio di un meccanismo la cui casualità è fuori dal nostro controllo. Ne siamo risparmiati soltanto da bambini, ma la condanna del diventare adulti ci mette di fronte a una verità che ognuno affronta come può.

Justine non teme la fine del mondo perché la sua apocalisse individuale è già avvenuta e dunque quella dell'umanità è una accettabile conseguenza; Claire non è in grado di gestire l'idea che questa apocalisse sia determinata da un meccanismo esterno che non può controllare e a cui non può sottrarre se stessa né suo figlio.

Chi è più forte?
Justine che non ha niente da perdere, o Claire che ha investito nella vita?

Il film di Von Trier ci lascia con una schermata nera che alimenta e trasferisce fuori del film l'inquietudine che lo attraversa fin dalle prima immagini.
Personalmente, non sono in grado di cogliere i numerosi riferimenti cinematografici, artistici e culturali di cui Von Trier pare disseminare il film (per questo leggete una recensione molto più intellettuale della mia).

La potenza delle immagini è però sufficiente a riportare a galla tutto quel groviglio concettuale che l'umanità ha elaborato nei secoli e attraverso le sue più diverse espressioni senza veramente riuscire a dare una risposta al senso della nostra esistenza.

A me - molto più banalmente - e non saprei nemmeno spiegare esattamente perché, Melancholia ha richiamato alla mente A single man.

Voto: 4/5

lunedì 13 febbraio 2012

Albert Nobbs

Non so se il mio giudizio possa essere stato falsato dal fatto che prima di entrare al cinema ho messo il piede in fallo e sono caduta rovinosamente a terra, trasformando la solita caviglia destra in una piccola zampogna (o forse la caduta è il risultato di invidiose congiunture astrali); certo è che Albert Nobbs non mi è piaciuto, e a parziale giustificazione dirò che non è piaciuto neppure alla mia amica G. che pure ci era arrivata - al contrario mio - piena di speranze.

Si tratta della storia di Albert (Glenn Close), cameriere presso un lussuoso albergo di Dublino, che è in realtà una donna, cresciuta da una famiglia non sua, poi rimasta sola, quindi vittima di una violenza sessuale, infine costretta a fingersi uomo per poter lavorare e sopravvivere in un mondo difficile in cui non c'è spazio per le donne sole.

In realtà tutto questo viene raccontato in cinque minuti, visto che per il resto il film ci parla del tentativo di Albert di realizzare il suo sogno, ossia costruirsi una vita normale: comprare un negozio di tabacchi, sposare Hellen (Mia Wasikowska), una giovane cameriera che lavora nel suo stesso albergo, e vivere in serenità. Purtroppo le cose andranno diversamente.

Perché non andare a vedere questo film?

Innanzitutto perché è mostruosamente lento (e io sono una che ama i film lenti!). E la lentezza non è compensata né da un'evoluzione interiore del personaggio (chi ha parlato di fine analisi psicologica non so che film abbia visto) né da uno sviluppo narrativo apprezzabile.

La sceneggiatura sembra il risultato del tentativo di trasformare un racconto piuttosto stringato nei contenuti in un film che dura inutilmente due ore. Alcuni elementi della sceneggiatura (la febbre tifoide, la pulce che fa scoprire la vera identità di Albert, il ruolo di Hubert Page, la cecità di Albert di fronte all'atteggiamento di Hellen) o non vengono sviluppati oppure risultano poco significativi nell'interpretazione dell'insieme, in alcuni casi sono al limite dell'illogicità.

L'interpretazione di Glenn Close ha un picco straordinario nell'unico momento toccante del film, ossia quando Albert si veste da donna e, dopo l'imbarazzo iniziale - rappresentato, va detto, in modo mirabile -, corre libera sulla spiaggia facendo svolazzare il suo scialle. Per il resto, è evidente che l'ispirazione per Albert Nobbs arriva da Charlot, personaggio anche questo insieme tragico e involontariamente comico. Così come è evidente l'intento di rappresentare per sottrazione un personaggio sospeso, asessuato, congelato nei sentimenti, anche se la fissità dell'espressione di Nobbs a me è parsa financo eccessiva. Insomma, se per vincere un Oscar basta imbruttirsi e travestirsi allora l'Academy è diventata veramente incapace di valutare la capacità recitativa degli attori (e so di esprimere in questo caso un parere decisamente controcorrente)!

Infine, una storia come questa nel momento in cui manca qualunque approfondimento del contesto storico-sociale (ricostruito molto bene, ma che rimane decisamente a fare da sfondo) rischia di risultare inutile e monca, o comunque poco comprensibile, e quindi poco soddisfacente.

C'è una cosa invece che ho trovato molto divertente e azzeccata: il bimbo vestito alla marinara che si ferma interrogativo sia di fronte ad Albert che di fronte a Hubert (Janet McTeer), l'unico che - nella sua ingenuità - pare comprendere una verità che è evidentemente sotto gli occhi di tutti, ma nessuno sa vedere.

Voto: 2,5/5


giovedì 2 febbraio 2012

E ora dove andiamo?

La sequenza iniziale del film in cui il corteo di donne vestite di nero si muove verso il cimitero a passo di danza, inscenando una vera e propria coreografia, vale l'intero costo del biglietto di ingresso e in qualche modo ne sintetizza perfettamente lo spirito.

Sì, perché E ora dove andiamo? è un film profondamente drammatico, ma anche lieve come un passo di danza.

La storia è presto detta. In un paesino del Medioriente (forse il Libano?) una piccola comunità formata di cristiani e musulmani vive fuori dal tempo (potrebbe essere ieri o gli anni Cinquanta) e dallo spazio (una specie di crepaccio naturale è l'unica via di uscita dal paese e di accesso al mondo esterno). Dall'unica televisione presente in paese e collocata nell'unico posto - in cima a una collina - in cui prende, arrivano gli echi degli scontri religiosi e delle morti che provocano ogni giorno.

Nemmeno il piccolo paese ne è indenne, tanto che tutte le famiglie hanno un figlio, un marito o un parente da piangere. Così le donne, indipendentemente dal fatto che portino il velo o la testa scoperta, si alleano per evitare che queste morti e questi conflitti senza senso si ripetano nella loro comunità.

E le provano tutte: distruggere il televisore che porta le notizie di guerra, far piangere sangue alla Madonna e gridare al miracolo, far arrivare un gruppo di ragazze dell'Est per distrarre gli uomini, impastare biscotti e frittelle con hashish per renderli allegri e non farli pensare ai motivi dei loro piccoli screzi, fino a rovesciare completamente la loro prospettiva, a ribaltare il mondo che conoscono mettendoli di fronte all'unica verità: la religione è un abito che ognuno ha imparato a portare dalla propria famiglia e dalla propria storia, ma nei rapporti umani ciò che conta sono le persone e l'affettività che li unisce.

In questo film si ride, si piange, si canta insieme ai personaggi, si riflette, ci si commuove. Ma niente di tutto questo in maniera eccessiva. O forse niente nel modo a cui siamo abituati.

Perché è indubbio che Nadine Labaki (la bellissima, nonché bravissima regista e attrice di E ora dove andiamo?, nonché del successo di qualche anno fa Caramel) appartiene a un universo culturale lontano dal nostro. Così come è vero che questo universo culturale ha un modo diverso di raccontare le storie rispetto a quello che ci è più familiare, utilizza una struttura e un ritmo narrativo che a volte ci lasciano interdetti.

A me verrebbe da definirlo "un racconto sincopato", non perché gli manchi qualcosa ma perché la fluidità non ne è la caratteristica principale. Del resto, è un po' la stessa percezione che a me dà l'ascolto della lingua araba.

È forse per questo che ho trovato particolarmente fastidioso il doppiaggio; o forse era la traduzione a risultare inappropriata (fors'anche perché la sceneggiatura originaria doveva essere a tratti impossibile da rendere in italiano). Certo però alcune espressioni messe sulla bocca di queste donne (e non scritte in un sottotitolo) mi sono sembrate del tutto stridenti con la loro fisicità e la loro gestualità.

Il film è una caramella dal cuore tenero e dal sapore speziato. Può piacere oppure no.
A me ha dato una certa soddisfazione! ;-)

Voto: 3,5/5