martedì 19 giugno 2012

Chroniques birmanes / Guy Delisle

Chroniques birmanes / Guy Delisle. Paris: Editions Delcourt, 2007.

La lettura dell'ultimo albo di Delisle Cronache di Gerusalemme - pur consigliatissima - mi aveva lasciato una strisciante sensazione di inquietudine e un indefinibile senso di insoddisfazione. Soprattutto perché, pur riconoscendo lo stile inconfondibile di Delisle e la sua straordinaria vena documentaristica - quasi giornalistica - nei confronti delle realtà con cui viene in contatto, non vi avevo trovato l'approccio per così dire ludico che tanto mi aveva entusiasmato in albi precedenti come Pyongyang e Shenzhen.

Dopo aver comprato Cronache birmane, per di più in lingua originale (cosa che per i lavori di Delisle preferisco di gran lunga e visto che l'edizione italiana risulta introvabile), ho finalmente capito che mi erano mancati l'ironia tenera e il modo affettuoso con cui il fumettista canadese guarda a se stesso e al mondo circostante.

Per molti versi Cronache birmane ha delle somiglianze con Cronache di Gerusalemme visto che - in entrambi i casi - si tratta di viaggi fatti da Delisle al seguito della moglie Nadêge impegnata in missioni di Medici Senza Frontiere.

Tra Cronache birmane e Cronache di Gerusalemme corrono però alcuni anni. In questi anni innanzitutto la famiglia Delisle si è allargata: al piccolo Louis, protagonista assoluto del viaggio in Birmania, disegnato in modo adorabile soprattutto nei piccoli progressi della crescita, si è affiancata una bimbetta altrettanto vivace e divertente. In questi anni forse l’ironia di Delisle – vuoi anche per il progredire dell’età – è stata leggermente offuscata da un sotterraneo pessimismo, da una forma di disillusione e disincanto che tutti prima o poi sperimentiamo.

Certo, dipenderà anche dal feeling con i luoghi visitati. È curioso infatti come tremende dittature quali la Corea del Nord e la Birmania suscitino in Delisle un buonismo che Gerusalemme e dintorni non riescono ad alimentare. Il fatto è che di solito Delisle mostra una sincera compassione per le popolazioni, vittime di culture, regimi, vicende storiche che hanno determinato uno stato delle cose che essi stessi sono vivono in qualche modo con filosofia.

Dai racconti di Delisle si ha l’impressione che in Cina, in Corea del Nord, in Birmania la gente sia capace di non prendersi sul serio, e ciò ha un riflesso evidente sul modo in cui Delisle racconta se stesso e le sue avventure. Anche Guy riesce a ridere e sorridere di se stesso, delle sue paure, delle sue stupidità, delle sue idiosincrasie. Tutto questo non accade in Cronache di Gerusalemme dove tutti si prendono troppo sul serio e lo stesso Delisle non riesce ad applicare a se stesso un diverso registro.

In Cronache birmane il modo in cui il fumettista è in grado di raccontare la sua esperienza e, attraverso questa, le caratteristiche di un paese è straordinario. La capacità di cogliere il dettaglio ed amplificarlo per portarlo all’attenzione del lettore è sorprendente. La vividezza con cui ci si para davanti la sua vita di tutti i giorni e quella della popolazione locale è inimitabile per qualunque altra forma d’arte.

Grazie a Delisle e alle sue Cronache birmane due lunghi viaggi in treno si sono trasformati in una parentesi piacevole e divertente, ma anche densa di contenuti, in uno stile narrativo fluido e al contempo sintetico come nella migliore tradizione del graphic novel.

Gli episodi che hanno colpito la mia attenzione sono numerosissimi: le bizzarrie del meteo locale e la difficoltà di abituarsi ad esso, il rapporto con il figlio e la capacità di trasmettere gioie e fatiche del tempo trascorso con un bimbo così piccolo, le stranezze e le buffe abitudini dei locali, il variopinto e un po’ pretenzioso mondo delle ONG, la propria natura profondamente adolescenziale che viene fuori a più riprese, la capacità di estrapolare da insiemi complessi gli elementi essenziali o comunque quelli maggiormente degni di attenzione, i ritratti umani e molto molto altro.

Ho letteralmente adorato questo graphic novel. Arricchente e liberatorio.

Voto: 4,5/5

giovedì 14 giugno 2012

Camille redouble


Nell'ambito dell'ormai tradizionale rassegna Le vie del cinema da Cannes a Roma decido di andare a vedere quello che - ad una lettura abbastanza superficiale delle trame - sembra essere uno tra i pochi film non deprimenti della rassegna. E non me ne pento.

Oltre alla sorpresa di avere Nanni Moretti seduto due file davanti a me (ma non era il presidente della giuria a Cannes? ;-)), il film si rivela una sorpresa ben più gradita. Il primo sorriso arriva dai sottotitoli in italiano che traducono il titolo del film in Camilla la ripetente, che sinceramente "nun se po' sentì", fa troppo film porno-soft italiano degli anni Settanta!

Classico caso in cui è meglio lasciare il titolo del film in lingua originale e spero che i distributori italiani - qualora il film arrivasse nelle nostre sale - seguano il consiglio.

Protagonista è Camille (Noémie Lvovsky, anche regista e co-sceneggiatrice), che a quarant'anni beve come una spugna perché non ha mai superato la morte di sua madre e non accetta il divorzio da Eric (Samir Guesmi), l'uomo con cui sta da 25 anni e da cui ha avuto una figlia.

La sera dell'ultimo dell'anno Camille va ad una festa dalle sue amiche del liceo e dopo aver bevuto e ballato sviene. Si sveglierà nel mondo dei suoi 16 anni, ma avendo 16 anni solo agli occhi degli altri. Camille infatti non solo conserva sempre il proprio corpo di quarantenne (è buffissima nei suoi abiti da sedicenne che però indossa con grande nonchalance) ma ha anche perfettamente presenti tutti i suoi ricordi e la sua vita degli ultimi venticinque anni.

La domanda è: sapendo come andranno le cose Camille potrà cambiare il corso della sua esistenza e soprattutto che cosa tenterà di cambiare?

Da certi punti di vista Camille redouble ricorda il tema di Sliding doors, proponendo una riflessione sul destino e su quanto possiamo incidere su di esso, il tutto riassunto nella formula contenuta nella preghiera della serenità richiamata dall'orologiaio che ha un ruolo centrale nella storia: "dammi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare; il coraggio di cambiare le cose che posso cambiare; la saggezza per distinguer le une dalle altre".

Dunque, possiamo tenere il nostro orologio un secondo indietro rispetto al movimento dei pianeti per avere la possibilità di vivere due volte quello stesso istante, ma ci sono delle cose della nostra vita che non potremo cambiare. Camille vedrà di nuovo morire sua madre, si innamorerà di nuovo di Eric pur tentando di sfuggirgli, resterà di nuovo incinta di sua figlia.

Però, la consapevolezza del fatto che tutto ha una fine, che la pretesa di immortalità e di eternità è un'illusione tutta umana, le permetteranno di non farsi sfuggire la quotidianità, di non dare niente per scontato, di dare valore ai sentimenti, di portarsi dietro i ricordi. Quei ricordi che, secondo Noémie Lvovsky, evidentemente sono l'unica cosa di cui possiamo fare veramente tesoro.


E così gli anni Ottanta irrompono sullo schermo con tutto il loro portato: il walkman, le musicassette, le feste dei 18 anni, i poster di David Bowie e Madonna alle pareti (quelli forse ci sono ancora!), le scarpe Dr. Martens. Mi sa che il prossimo decennio a ritornare alla ribalta sarà proprio questo.

Durante la visione di Camille redouble si ride molto. Tutto appare buffo. Non necessariamente leggero, ma affrontato con leggerezza di spirito.
E se anche i francesi sono diventati capaci di questo, mi sa che ormai restiamo solo noi a crogiolarci nella nostra pesantezza.

Voto: 4/5

venerdì 8 giugno 2012

Scandaloso omicidio a Istanbul / Mehmet Murat Somer


Scandaloso omicidio a Istanbul / Mehmet Murat Somer; trad. di Anna Lia Proietti Ergün. Palermo: Sellerio, 2009.

Poco tempo fa avevo letto un altro gialletto ambientato a Istanbul, Hotel Bosforo, e avevo avuto questa curiosa sensazione di un linguaggio un po' banale e semplificato che avevo attribuito all'autrice e alla traduttrice di quello specifico romanzo.

Dopo aver letto Scandaloso omicidio a Istanbul devo forse cominciare a pensare che si tratti sostanzialmente di una differenza linguistica e culturale tra l'italiano e il turco, visto che anche in questo caso la narrazione sembra non raggiungere mai quel livello di attenzione linguistica che di solito ci si aspetta da un romanzo italiano ben scritto. Non voglio dire che il turco produca un italiano non buono, ma semplicemente che forse è necessario accogliere questo stile ed entrare in un universo narrativo che non deve per forza essere giudicato con i parametri culturali e linguistici che ci appartengono più strettamente.

Detto questo, rispetto al precedente romanzo, ho trovato questo di Mehmet Murat Somer più coinvolgente. Innanzitutto per la simpatia del suo protagonista: un trans che di giorno lavora come consulente informatico per progettare sistemi di sicurezza antihacker e di notte è responsabile di un club di trans sempre affollato di clienti. La nostra detective improvvisata è un personaggio psicologicamente molto realistico e sfaccettato, e ha una grande carica di ironia, soprattutto quando consapevolmente si veste e si atteggia come Audrey Hepburn ben sapendo l'effetto che produce sul mondo circostante.

Il pretesto dell'intreccio arriva dall'omicidio di un altro trans che frequenta il locale, Buse (Fevzi nella versione maschile), da cui prendono l'avvio le avventure della nostra protagonista alla scoperta di un giro di ricatti che coinvolge direttamente il mondo politico.

Da un punto di vista puramente giallistico, il romanzo appare un po' irrisolto. Lo scioglimento dell'intreccio risulta un po' banale e il finale lascia un po' di amaro in bocca per il fatto di essere insoddisfacente.

Resta invece interessante la rappresentazione di una Istanbul diversa da quella a cui siamo abituati, o meglio di una Istanbul in cui c'è tutto quello che conosciamo (dai dürum alle sure del Corano), ma c'è anche molto di più, un mondo parallelo e sotterraneo che dimostra di avere una sua dignità e vivacità e un legame con la quotidianità molto più stretto di quanto ci saremmo immaginati. Un linguaggio esplicito e ironicamente diretto nel raccontare questo mondo aiuta a visualizzarlo molto precisamente, così come è apprezzabile la descrizione molto vivida e psicologicamente sostenibile degli altri personaggi.

E così quando la nostra protagonista alla fine cede al tassista Huseyn possiamo dire di essere contenti.

I miei numerosi viaggi in autobus in questo periodo hanno favorito l'immersione in questa lettura che è stata sostanzialmente una compagnia piacevole.

Leggerei volentieri un altro romanzo con la stessa protagonista.
Magari con un intreccio narrativo migliore e più originale!

Voto: 3/5

mercoledì 6 giugno 2012

Dieci inverni / Valerio Mieli

Dieci inverni / Valerio Mieli. Milano: Rizzoli, 2009.

«Una chiocciola percorre in media 5-6 centimetri all’ora. Per fare il giro completo di Venezia impiegherebbe circa dieci anni», sostanzialmente quanti ne impiegano Silvestro e Camilla per trovarsi dopo essersi a lungo inseguiti e mancati dopo il loro primo incontro avvenuto su un vaporetto nel 1999.

Quando si incontrano la prima volta, i due giovani si sono appena iscritti all’università e sono pieni di sogni e di progetti. Sono diversi come il giorno e la notte, eppure tra di loro si crea un legame invisibile, quello che li farà rincontrare più o meno casualmente per dieci anni in momenti diversi delle loro esistenze, senza mai riuscire ad ammettere di amarsi e di voler stare insieme.

Il libro di Mieli si legge in un pomeriggio; in fondo è una sceneggiatura essendo nato quasi contemporaneamente al film omonimo che aveva come protagonisti Michele Riondino e Isabella Ragonese nei ruoli di Silvestro e Camilla.

A me il film – sebbene un po’ triste e forse a volte un po’ banale – era piaciuto (e avevo adorato il cameo di Vinicio Capossela con la sua canzone Parla piano). L’avevo trovato tenero e sincero. Sensazione rafforzata ancora di più dalla lettura del romanzo.

Silvestro e Camilla sono due persone, non due personaggi. Due ragazzi con caratteri diversi; il primo è il classico ragazzone che non vorrebbe crescere mai, che sorride di tutto, che tiene a distanza il dolore e la sofferenza, fa finta di non riconoscerle incontrandole per strada, ma ha anche un cuore grande e generoso. Camilla è una bambina che gioca a fare l’adulta, un po’ secchiona e un po’ timida, insicura nei rapporti con gli altri, profondamente fragile e straordinariamente forte.

Entrambi hanno in realtà una grande paura, quella che non ti fa riconoscere la felicità quando ce l’hai davanti e che ti fa reagire con violenza quando la vita ti offre un’opportunità.

A fare da sfondo a questo quasi amore è l’ambiguità della città di Venezia, il posto dove in assoluto è più facile incontrarsi e più facile perdersi.

Insomma, quello di Mieli non è un romanzo con alte aspirazioni letterarie, ma rispetto a un romanzo che per struttura narrativa gli è simile come Un giorno di David Nicholls, io l’ho trovato meno melodrammatico, più ironico e forse per questo più coinvolgente e più vero.

O chissà, oggi ho l’animo un po’ intenerito e le storie come questa riescono persino a commuovermi!
Ai cinici suggerisco di astenersi dalla lettura. Non sopporterei di leggere i vostri commenti in questo momento ;-)

Voto: 3,5/5