lunedì 30 aprile 2012

Cronache di Gerusalemme / Guy Delisle


Cronache di Gerusalemme / Guy Delisle; trad. di F. Martucci e A. Merico. Milano: Rizzoli Lizard, 2012.
Il fumettista canadese (di lingua francese) Guy Delisle ha fatto del racconto di viaggio la sua specialità.
Ho letto Pyongyang e Shenzhen e li ho trovati tra le migliori descrizioni delle realtà di quei paesi.

In Cina ci sono stata e la lettura di Shenzen è stata l'occasione per trovare conferma a una serie di sensazioni che quel viaggio e la cultura di quei luoghi mi avevano trasmesso.
La Corea del Nord - come si sa - è un buco nero, un mondo ignoto per i più, visto l'isolamento assoluto in cui il paese e i suoi abitanti vivono. Il racconto a fumetti di Delisle ci fa capire molto di più di quanto giornali e libri possano comunicarci su di esso.

Per tutti questi motivi aspettavo con ansia Cronache di Gerusalemme, tanto più dopo aver letto che il volume ha vinto il premio come migliore opera al Festival di Angoulême. Questo albo racconta l'anno trascorso da Delisle insieme alla sua famiglia in Israele al seguito della moglie, Nadêge, impegnata in una missione di MSF.
Mi aspettavo un racconto ironico e compatto anche perché - mi sono detta - rispetto alla Cina e alla Corea del Nord la realtà israeliana ci risulterà molto più familiare e più facile da capire, così come la dinamica sociale più normale e vicina ai nostri modelli culturali.
Delisle sceglie una struttura narrativa primariamente cronologica (seguendo il trascorrere dei mesi) e, all'interno di ciascun mese, il racconto procede per piccoli episodi che in parte mettono in evidenza le attività ordinarie e non in cui la famiglia è impegnata, in parte ruotano intorno a dettagli che hanno attirato l'attenzione dell'autore (cosa che costituisce un tratto tipico del suo stile narrativo).
Ne viene fuori un quadro molto meno unitario che in Shenzen e Pyongyang, un panorama frammentario e composito, come se Delisle stesse descrivendo non una o due nazioni, bensì tante realtà e comunità diverse in rapporti di conflittualità o di totale isolamento le une dalle altre, un quadro credo ben più realistico di quello che i mezzi di comunicazione tendono a presentarci.
Il racconto di Delisle è sostanzialmente a-ideologico e durante l'anno di permanenza in Israele è frequente il tentativo della famigliola di vedere le cose da più punti di vista, quello dei coloni, degli ebrei ultraortodossi, degli ex soldati israeliani, dei palestinesi, dei samaritani, delle ONG, etc. Ma in un posto come questo niente è veramente neutrale.
Resta difficile farsi un'idea di un paese che troppi considerano la propria patria religiosa, dove troppi ricercano l'esclusività dei loro costumi culturali al punto da rendere gran parte di questa terra invivibile, da complicare anche le cose apparentemente più semplici, da impedire non solo la circolazione di cose e persone costruendo muri di cemento, ma anche la circolazione delle idee, del pensiero critico, le possibilità di contaminazione attraverso la costruzione di muri invisibili tra le persone.
E così se Tel Aviv cerca di vivere una vita normale e molto occidentale nell'indifferenza verso ciò che le accade intorno, Gerusalemme è la città in cui il conflitto è immanente ma in parte non esplicito, mentre Hebron e Ramallah ne sono i luoghi simbolo.

Non so se la lettura di Cronache di Gerusalemme mi ha fatto comprendere qualcosa di più della situazione di questo territorio, certo però mi ha fatto capire che si tratta di una realtà in cui la componente religiosa è prevaricante ai limiti dell'ingestibile e il cui livello di complessità è tale da richiedere un approfondimento e una conoscenza dall'interno per potersi veramente costruire un'opinione.
Rispetto ai precedenti albi di Delisle si ride di meno, e lo si fa in maniera quasi sempre amara, a volte si resta interdetti per l'assurdità di certe situazioni. Delisle è sempre bravo nel tratteggiare persone e situazioni con un tratto che è sintetico ma anche ricco di particolari e che riesce sempre a trasmettere emozioni e stati d'animo.

Assolutamente da leggere.

Voto: 4/5

giovedì 26 aprile 2012

Via delle Oche / Carlo Lucarelli

Via delle Oche / Carlo Lucarelli. Palermo: Sellerio, 2008.

Ecco lo sapevo. Ho cominciato dalla fine…

Mi sembrava che del commissario De Luca mi sfuggisse qualcosa e che i riferimenti al suo passato fossero un po’ troppo vaghi per essere compresi perfettamente dalla sola lettura di questo romanzo. Toccherà recuperare i primi due romanzi della trilogia che un Lucarelli molto giovane ha dedicato a questo commissario e all’Italia degli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale.

Via delle Oche è ambientato nel 1948, poco prima delle elezioni politiche e di Bartali maglia gialla.

Lucarelli è molto bravo a descrivere il clima di contrapposizione e di sospetto che caratterizzava quegli anni e lo fa sia attraverso le trascrizioni dei manifesti e dei titoli di giornale dell’epoca che aprono ogni capitolo, sia attraverso la perfetta caratterizzazione dei personaggi e la descrizione dei veleni che si insinuano anche all’interno della polizia.

De Luca è un personaggio dolente, umanissimo. In fondo uno sconfitto perché crede nel mestiere di poliziotto e nella necessità di scoprire sempre la verità, anche quando questa può essere scomoda, in un mondo nel quale ci si deve sempre inchinare ai “poteri forti”. È un personaggio che ha aperto la strada a molti altri commissari, che ha fatto scuola da numerosi punti di vista, a dimostrazione delle qualità di Lucarelli scrittore (sebbene si tratti di uno scrittore molto visivo, come molti sostengono).

Il thriller prende spunto dall’assassinio di un tale Ermes Ricciotti presso la casa di appuntamenti di via delle Oche a Bologna. De Luca, pur essendo stato trasferito punitivamente alla Buoncostume, non può fare a meno di tirar fuori il proprio istinto di commissario della Omicidi. Così, un po’ per scelta un po’ per caso si ritrova coinvolto nelle indagini che riguardano non solo l’omicidio del Ricciotti, ma anche alcuni altri omicidi che ben presto mostrano di essere collegati l’uno all’altro.

La motivazione che lascia questa lunga scia di sangue è puramente politica e - guarda un po’ – non ci meraviglia affatto, visto che molte vicende degli ultimi 20 anni hanno saputo fare meglio della fiction.

Così, oltre alla “compassione” (in senso etimologico) che il racconto suscita per il personaggio di De Luca (memorabili gli incontri tra il commissario e la Tripolina, la tenutaria della casa di appuntamenti), l’aspetto che colpisce di più è la modernità di questo intreccio, la riconoscibilità dei meccanismi di potere, la falsità degli slogan politici, il gioco delle appartenenze.

Sicuramente da leggere. E a questo punto dovrò leggere anche i due precedenti.
(Ho idea invece che non vedrò la fiction televisiva tratta da questi romanzi! ;-)

Voto: 3,5/5

martedì 17 aprile 2012

Romanzo di una strage

Per una che è nata nel 1973 e si è affacciata all'età della ragione in pieni anni Ottanta in un piccolo paesino di provincia dell'Italia meridionale dove della politica e delle ideologie arrivavano solo echi lontani, l'epoca raccontata in Romanzo di una strage appare da un lato estranea - o forse sarebbe meglio dire incomprensibile - ma allo stesso tempo affascinante come tutto ciò che è al di fuori dei confini dell'esperienza personale.

Per quanto mi riguarda mi riesce difficile se non impossibile figurarmi un clima politico e sociale con una partecipazione così accanita, e mi confondono la varietà e complessità dei movimenti politici che operavano all'interno del tessuto sociale italiano. Ma soprattutto la cosa per me più incomprensibile è quella vera e propria ossessione dell'invasione comunista che in quegli anni la guerra fredda aveva alimentato a livelli talmente esasperati da creare un clima di sospetto e di tensione quasi insostenibile (e che in qualche modo mi ricorda vicende più recenti).

Negli anni Sessanta-Settanta la fine della guerra e del fascismo non sembrano vicende passate da più di vent'anni, ma una specie di ferita aperta nella società italiana.

Gli attori in campo sono numerosi (anarchici, neofascisti, militari, servizi segreti, NATO, sinistra extraparlamentare) e i confini tra i diversi gruppi non sono affatto nitidi. C'è chi è mosso dalle idee, chi dalla passione politica, chi da progetti eversivi e chi approfitta di tutto questo per ricavarne un vantaggio economico o accreditarsi in un senso o in un altro.

Non è dunque strano che in un lasso di tempo tutto sommato breve com'è quello raccontato in Romanzo di una strage (dall'autunno caldo del 1969 all'uccisione di Calabresi nel 1972) sono numerosi gli eventi che hanno sconvolto la vita del nostro paese e gli episodi che a distanza di quarant'anni restano ancora oscuri: dalla bomba esplosa alla Banca Nazionale dell'Agricoltura alla morte dell'anarchico Pinelli, dalla morte dell'editore Giangiacomo Feltrinelli all'assassinio dello stesso commissario Calabresi.

Il film di Marco Tullio Giordana - strizzando l'occhio a Pasolini e a Romanzo criminale - si dichiara intelligentemente Romanzo perché è certo difficile pretendere di esprimere verità storiche su una vicenda su cui si sono versati fiumi di inchiostro senza che si sia mai trovata convergenza su una ipotesi.

Non a caso il film di Giordana ha alimentato nuovamente il dibattito, in quanto citando alcune ricostruzioni proposte da Paolo Cucchiarelli ne Il segreto di piazza Fontana - in particolare quella della doppia bomba - ha immediatamente determinato la reazione di molti, in primis Adriano Sofri che ha pubblicato un instant book in cui contesta tale ipotesi portando una serie di argomentazioni.

Ovviamente sono l'ultima persona al mondo che può esprimersi sulla verità storica non conoscendo affatto la documentazione che altri hanno approfonditamente studiato. Chissà poi se si tratta di una verità che qualcuno conosce veramente e in tutte le sue sfaccettature.

L'aspetto romanzesco del film sta inoltre in una rappresentazione sì rigorosa dei personaggi, ma anche volutamente addolcita. L'intera vicenda viene fatta ruotare intorno a tre personaggi disegnati in maniera positiva: Giuseppe Pinelli (Pierfrancesco Favino), l'anarchico buono che finisce vittima di una vicenda incomprensibile, Luigi Calabresi (il sempre bravo Valerio Mastandrea) un poliziotto sui generis, vittima anche lui del sistema, Aldo Moro (il camaleontico Fabrizio Gifuni), politico timorato di Dio e preoccupato della deriva del proprio paese.

Probabilmente le cose non stavano esattamente così, perché luci e ombre sono parte costitutiva dell'umanità. A questi tre personaggi però il regista ci consente di aggrapparci per non sprofondare nell'abisso di un periodo storico nerissimo per il nostro paese.

Cinematograficamente e scenograficamente il film è molto bello e fa uno sforzo - sostanzialmente riuscito - per sintetizzare una vicenda complessa che ha molti percorsi paralleli e numerosissimi protagonisti. Gli attori sono il meglio che il panorama italiano potesse offrire.

All'Italia di oggi - che, come dice Sofri, ha un'età media di poco più di 43 anni - un film così serve per riaprire una pagina difficile della storia del nostro paese da una distanza forse sufficiente per analizzarla.
Oggi le sfide sono globali, ma l'umanità è sempre la stessa.

L'auspicio è che si possa evitare di ripetere in forme e modi diversi le medesime ossessioni, di riprodurre gli stessi giochi di potere, di rivivere lo stesso senso di frustrazione.

Chissà se è davvero possibile. Certo sarebbe bello.

Voto: 3,5/5

venerdì 13 aprile 2012

Rughe / Paco Roca

Rughe / Paco Roca. Latina: Tunuè, 2008.

Ho letto dell’uscita dell’ultimo albo di Paco Roca , Le strade di sabbia (che magari prima o poi comprerò), e in questa recensione mi ha attratto in particolare il riferimento ad un lavoro precedente dello stesso autore che ho poi cercato con successo in libreria e che è appunto Rughe.

Questo albo, da cui è stato recentemente tratto anche un film di animazione, ha vinto numerosi premi tra il 2007 e il 2009 ed è stato adottato dall’Associazione Italiana Malattia di Alzheimer. E dopo averlo letto niente di tutto ciò mi è sembrato sorprendente.

L’autore dedica questo racconto a suo padre e attraverso di lui a un’età della vita difficile, cioè la vecchiaia. In particolare, nell'albo si parla della storia di Emilio, un ex bancario che ora vive con il figlio e la nuora, ma che quando comincia a diventare poco gestibile prende la via della casa di riposo.

Qui il mondo si divide in due: quelli che ancora sono autonomi e che vivono al piano di sotto, dove anche Emilio viene all’inizio destinato, e quelli che stanno al piano di sopra perché resi incapaci di autogestirsi da malattie in stadio avanzato, tra tutte l’Alzheimer.

Il mondo della casa di riposo è un mondo tristemente buffo, in cui c’è Giovanni, ex conduttore radiofonico che ripete tutto quello che sente, la signora Sole che cerca un telefono per chiamare i suoi figli ma alla fine dimentica sempre cosa sta facendo e perché, Rosaria che guarda fuori dal finestrino immaginando di stare sull’Orient Express, Antonia che vive in funzione delle visite di suo nipote, Renato che vive nel ricordo dei suoi successi sportivi, Dolores e Modesto che non vivono l’uno senza l’altra, Felice che ricorda i tempi della guerra, e soprattutto Michele, il compagno di stanza di Emilio, che alla vecchiaia reagisce con il cinismo e un forte desiderio di fuga.

Tutti questi anziani, costretti ormai a una vita monotona e priva di qualunque emozione, sono rimasti aggrappati ai ricordi più forti ed emozionanti della loro esistenza, alle esperienze più significative che hanno vissuto. Per questo, pur interagendo tra di loro, di fatto ciascuno costituisce un’isola incapace di comunicare con il mondo circostante, se non per brevissimi momenti.

L’umanità che trasmettono, la forza dei sentimenti che ancora provano sono però tali da renderli indimenticabili e commoventi. La parabola di Emilio colpito da un Alzheimer con un degrado molto rapido è un pugno dello stomaco; ma la scoperta che in un’umanità così segnata dalla malattia e dal dolore ci sia ancora spazio per l’amicizia e la solidarietà è un’apertura di speranza a cui ci aggrappiamo con tutti noi stessi.

Il disegno di Paco Roca è nitido, pulito; i colori sono utilizzati con misura e sapienza. La sua capacità di dare concretezza e unicità ai volti dei suoi protagonisti, di saperli dotare di un’espressività che non si spezza neppure nei bellissimi ricordi di infanzia che qua e là si aprono nel racconto, è una qualità che contribuisce a dare spessore a questa storia.

Molti anni fa avevo fatto volontariato in una casa di riposo per anziani. Nella signora Antonia, in Michele, in Modesto, in Emilio, nella signora Sole ho ritrovato molte delle persone che ho conosciuto, con le durezze della vecchiaia e anche le infinite forme di tenerezza.
A 20 anni però è difficile (e io non ci sono riuscita) fare da filtro all’energia negativa trasformandola in freschezza e leggerezza, fungere da collante tra mondi slegati e spesso collidenti, interpretare e ricambiare un idiosincratico modo di esprimere affetto, riconoscere un senso a quello che si sta facendo quando dal mondo circostante non ti arrivano conferme.

Da un giorno all’altro non ci sono più andata, senza neanche un saluto.
Resta in me un grande rammarico. E anche vergogna per essermi tirata indietro così.
Chissà se si è mai pronti a mettersi di fronte alla vecchiaia propria e altrui con apertura, generosità e coraggio.
Chissà se qualcuno vorrà e saprà accettare la nostra di vecchiaia.
Noi stessi per primi.

Voto: 4/5

sabato 7 aprile 2012

La sovrana lettrice / Alan Bennett

La sovrana lettrice / Alan Bennett; trad. di Monica Pavani. Milano: Adelphi, 2007.

La sovrana lettrice è la storia - certo un po' improbabile - di come la regina Elisabetta, grazie a un incontro fortuito con la biblioteca circolante che ogni mercoledì staziona presso il suo giardino e con Norman Seakins, il ragazzo delle cucine che però è un accanito lettore (soprattutto di autori gay), scopra la lettura e, attraverso la lettura, la scrittura e, grazie a lettura e scrittura, il senso di sé, del suo ruolo e del rapporto col mondo circostante.

Alan Bennett, con il suo stile leggero e brillante, ci tratteggia una regina che non fa fatica a imporsi nella nostra testa come l’immagine a suo modo realistica di una donna il cui ruolo è puramente rappresentativo e la cui distanza dalla vita reale è tale da impedirle una vera coscienza di sé.

Il modo totalizzante con cui i libri catturano la regina rappresenta per lei la scoperta che – pur avendo visto tutto e conosciuto tutto – non ha mai potuto davvero apprezzare nulla e fare proprie le esperienze della vita, per la totale assenza di empatia e il completo assorbimento in un cerimoniale di pura teatralità e pochissima sostanza.

La regina – nella penna di Bennett – è un personaggio molto simpatico. Lo è quando è ancora pienamente inserita nel suo ruolo regale, quando ancora manifesta una sufficienza e un cinismo elevati nei confronti di ciò che la circonda, e lo è quando la lettura modifica la sua scala di valori e le sue priorità nella vita fino al sorprendente epilogo.

Quello di Bennett è uno straordinario omaggio alla lettura (e ai libri e alle biblioteche), ma non agli scrittori di cui si mettono semmai in evidenza le idiosincrasie e l’autoreferenzialità.

A un certo punto la regina riflette sul fatto che la lettura è un muscolo che si allena, cosicché più si legge più diventa facile leggere anche le cose più difficili, confermando quanto la scienza ha nel tempo dimostrato, ossia che la lettura non è naturale per il cervello umano, il quale faticosamente apprende questa capacità ed ha bisogno di tenerla allenata e svilupparla nel tempo. Bennett solleva così un tema di grande attualità, che però non è certamente il cuore dell'opera.

A me è piaciuto invece il modo in cui mi è parata vividissima davanti agli occhi questa donna, in tutta la sua regalità, e come altrettanto vividamente mi si è palesata – quasi plasticamente – la sua percezione di insensatezza, la necessità di vivere appieno, di capire, di interpretare la realtà, di conoscerla dall’interno che la travolgono.

Un mio amico dice che c’è chi nasce una volta soltanto, e chi nasce due volte, una alla vita fisiologica e una alla vita interiore. Penso che questo libro sia dedicato a tutti coloro che hanno avuto la possibilità di rinascere.


Voto: 3,5/5

mercoledì 4 aprile 2012

Steve McCurry. Mostra

Steve McCurry. MACRO Testaccio, 3 dicembre 2011-29 aprile 2012 / a cura di Fabio Novembre


Che Steve McCurry sia un grandissimo fotografo non c'è dubbio. Anche chi non ne conosce il nome ha sicuramente visto qualcuna delle sue foto, la più famosa delle quali è certamente quella della giovane ragazza afghana dagli occhi verdi che è stata anche scelta come copertina della mostra romana.

Le altre foto non sono da meno, innanzitutto gli straordinari ritratti nei quali McCurry riesce sempre a cogliere espressioni intense e sorprendenti, ma anche i paesaggi con figure umane, le scene di vita vissuta, le nature morte.

In tutte le sue foto sono riconoscibili un grande amore e una grande capacità di rappresentare la varietà di colori del mondo che ci circonda nonché una straordinaria curiosità per l'umanità, i suoi modi di vivere, le diverse culture, i contrasti profondi, le indicibili bellezze e bruttezze di cui l'uomo si rende protagonista.

La qualità tecnica delle foto di McCurry è altissima. È difficile trovare veri difetti nelle sue foto, ognuna delle quali ha una qualità estetica tale da farne un vero e proprio quadro.

Le sue sono fotografie divulgative, direi quasi didascaliche per il modo diretto in cui rappresentano un'emozione o una condizione precisa. Diciamo che le sue foto sono letture semplici, senza essere semplicistiche, nonostante a volte rischino di fornire una visione un po' troppo stereotipata della realtà, o forse sarebbe meglio dire "attesa", cioè non sorprendente dal punto di vista dei contenuti, ma semmai solo dal punto di vista della forma estetica e della bravura del fotografo.

Detto ciò, le fotografie di Steve McCurry sono emotivamente molto coinvolgenti, e non è difficile leggere nei volti delle persone che visitano la mostra turbamento, commozione e partecipazione, anche di fronte a mondi e culture lontane e diverse.

Certamente l'allestimento di Fabio Novembre contribuisce ad accrescere ulteriormente la leggibilità di queste fotografie, visto che sceglie un'esposizione per gruppi di foto legate non dal luogo o dal momento, bensì da assonanze emotive, da connessioni mentali, da contatti visivi. Tali gruppi di foto occupano delle aree autonome, ma collegate le une alle altre, una specie di igloo realizzati con una struttura di acciaio cui sono appese le foto.

Sarà che ho visto la mostra durante uno degli ultimi fine settimana di programmazione, ma l'allestimento - che sarebbe stato perfetto se fossi stata al massimo con un altro paio di persone in ciascun igloo - risultava invece claustrofobico nel momento in cui 15-20 persone si intralciavano a vicenda per poter guardare le foto a una distanza accettabile e leggere le didascalie.

Devo aggiungere che per il mio gusto personale le scelte di accostamento delle foto - pur molto spesso suggestive e in linea con lo stile del fotografo - risultava talvolta un po' lezioso, talaltra eccessivamente banale. Solo raramente gli accostamenti suscitano sorpresa, aprono spiragli, creano spazi di immaginazione e forniscono lo spunto per idee e prospettive personali e originali.

In conclusione, una mostra decisamente da vedere, di quelle che riempiono gli occhi e che certamente fanno venire voglia di conoscere e approfondire alcune realtà e alcuni mondi per noi lontani. Mi è mancato però l'effetto spiazzante che mi aspetto da un prodotto come la fotografia che considero una forma d'arte. È chiaro, Steve McCurry è un fotoreporter, un documentarista della fotografia. Però da uno che fa delle foto così straordinarie forse si poteva tirare fuori qualcosa di più.


Voto: 3/5