venerdì 30 marzo 2012

Colazione da Tiffany / adattamento teatrale di Samuel Adamson

Vi ricordate il famoso film del 1961 con Audrey Hepburn e George Peppard? Ebbene, prima di andare a vedere Colazione da Tiffany nell’adattamento teatrale di Samuel Adamson (lo stesso dell’adattamento teatrale della sceneggiatura di Tutto su mia madre) cercate di dimenticarlo.
Avete presente l’elegante leggerezza con cui Audrey Hepburn interpreta la protagonista Holly? Mettete da parte anche quella.

Io per fortuna non ricordavo quasi nulla del film. Avevo solo la vaga percezione dell’atmosfera propria delle commedie hollywodiane che sanno essere anche malinconiche senza però quasi mai scontentare le aspettative dello spettatore.

Il regista Piero Maccarinelli e l’intero cast, prima fra tutte Francesca Inaudi che interpreta Holly, tengono a sottolineare la distanza dal film, sottolineando invece la loro maggiore fedeltà alle intenzioni e allo spirito originario con cui Truman Capote scrisse questo breve romanzo.
La Inaudi nelle interviste relative a quest’opera dice esplicitamente di non essersi ispirata a Audrey Hepburn, bensì a Marylin Monroe, che pare fosse l’attrice che lo stesso Capote aveva in mente in vista della trasposizione cinematografica.

Fatta questa inevitabile premessa, la mia anima che ogni tanto si scopre filologica pretende a questo punto una lettura del romanzo e una visione del film, allo scopo di cogliere elementi di continuità e discontinuità tra questi diversi linguaggi e letture di cui i vari registi e interpreti hanno arricchito le diverse versioni.

Per l’intanto non posso che attenermi esclusivamente a quello che ho visto all'Eliseo (dove l'opera è in programmazione fino all'1 aprile).
Devo ammettere che ho trovato lo spettacolo eccessivamente lungo (oltre due ore); forse qualche sforbiciata in più e un approccio più sintetico e compatto avrebbero dato maggiore verve e spinta a una narrazione qualche volta faticosa.

Un plauso invece va fatto allo scenografo, Gianni Carluccio, che – lui sì – è riuscito a fare uno straordinario lavoro di sintesi di grande impatto visivo, nonché decisamente funzionale. Una strada in primo piano, su cui ogni tanto si affaccia il bancone del bar di Joe Bell. Un appartamento al piano terra (quello di Holly), uno al primo piano (quello di William Parsons), che si affacciano entrambi su una scala e un balcone a ringhiera che mette questi due appartamenti in comunicazione con quelli di due vicini, il soprano e il fotografo giapponese. Sullo sfondo lo skyline in bianco e nero di New York, tutto molto suggestivo.

La storia è semplice e molto articolata al contempo. Holly, il cui vero nome è Lula Mae, fa la prostituta d’alto bordo a New York; svampita, disinibita e sempre pronta a utilizzare tutte le armi della sua femminilità, si accompagna a uomini privi di carattere ma decisamente pieni di soldi. Quando nell’appartamento al primo piano si trasferisce a vivere il giovanissimo aspirante scrittore William Parsons (interpretato da Lorenzo Lavia), tra Holly e William si crea un rapporto e un legame del tutto particolare, che è difficile definire amore in senso stretto (anche per via dell’omosessualità latente di William) ma che certo è un reciproco riconoscimento, una connessione profonda e originale.

Intorno a Holly e William ruota un cast ricco che si compone di tutti i personaggi che a poco a poco svelano non solo la vita presente di Holly ma anche il suo misterioso passato, quello di cui lei non parla mai.

Qualcuno rileva che i personaggi sono tutti un po’ macchiettistici, e certamente per alcuni comprimari non lo si può negare (si veda il fotografo giapponese, oppure il milionario obeso, Rusty, con cui Holly si accompagna, o ancora il marito più anziano che a un certo punto ricompare nella sua vita).

Non mi sentirei invece di dire la stessa cosa delle interpretazioni relative ai personaggi di Holly e di William. È vero, entrambi sono parecchio sopra le righe, ma – oltre all’effetto teatro – trovo che questa scelta di recitazione sia assolutamente in linea con i caratteri dei loro personaggi.
Holly è il prototipo della “bionda” per scelta, ossia che è consapevole di utilizzare tutte le armi che la femminilità le mette a disposizione per esercitare un ascendente su tutti gli uomini che la circondano. Per questo, recita a vantaggio del mondo che la circonda la parte della donna superficiale, leggera, priva di pensieri, poco impegnativa e molto scenografica. La pesantezza e le ferite che si porta dentro (le paturnie come le chiama lei) cerca di sconfiggerle sempre con una risata, che però spesso non può che risultare amara, le affronta spesso fuggendo perché incapace in fondo di guardarle in faccia.

Francesca Inaudi riesce perfettamente nell’intento di comunicarci un personaggio che non può essere sinceramente simpatico, perché non è spontaneamente leggero e fresco. La messa in scena sembra infatti voler tirare fuori proprio il groviglio interiore di questa donna, ciò che da sempre cerca di far dimenticare pure a se stessa, e lo fa nel rispecchiamento con un personaggio imbranato e ingenuo come appare William.

Quest’ultimo – dal canto suo – è altrettanto artefatto, quasi finto nella sua modalità un po’ univoca di rapportarsi al mondo circostante, perché è a sua volta un personaggio la cui interiorità e identità è fortemente compressa o ancora troppo immatura per poter emergere in maniera pulita e realistica. William ama Holly perché la capisce profondamente e si sente capito, ne coglie in qualche modo il lato oscuro senza palesarlo.
E quest’incontro farà uscire anche lui dal bozzolo dell’incertezza e dell’ambiguità fino a portarlo sulla sua autentica strada di scrittore e di uomo.

Holly e William mi hanno ricordato caratteri che conosco; mentre guardavo lo spettacolo anche la leggerezza e la brillantezza di certi passaggi della sceneggiatura non mi hanno mai fatto dimenticare quel senso di irrisolto che personaggi come questi portano con sé.

Forse Samuel Adamson con il suo adattamento e Piero Maccarinelli con la sua regia avrebbero dovuto portare alle estreme conseguenze queste premesse, cioè evitare di strizzare l’occhio alla commedia brillante e divertente calcando la mano su certi personaggi e passaggi e invece sviluppare compiutamente la vena profondamente triste e drammatica che c’è in questa storia.

Mi riservo un giudizio più compiuto dopo aver letto il romanzo, ma forse se distanza doveva essere da Hollywood e dal cinema, allora doveva essere una distanza perseguita con ancora maggiore coraggio.

Un’ultima annotazione: Francesca Inaudi si conferma attrice eclettica e capace di esplorare personaggi e linguaggi differenti con ottimi risultati. Senza di lei i difetti di quest’opera teatrale sarebbero diventati probabilmente molto meno tollerabili.

Voto: 3,5/5

domenica 25 marzo 2012

Gli anni dello Sputnik / Baru

Gli anni dello Sputnik / Baru. Bologna: Coconino Press, 2011.

Di Baru avevo letto qualche tempo fa Pompa i bassi, Bruno!, albo che mi era piaciuto pur essendo uno dei miei primissimi incontri con il mondo del fumetto e la specificità di lettura che esso implica. Un tempo si diceva che chi non amava leggere guardava le figure. Ebbene il fumetto realizza una specie di ossimoro (magistralmente utilizzato nel titolo di un blog dedicato a quest’arte), ossia la possibilità e la necessità di “leggere le figure”, perché il fumetto va guardato, osservato, interpretato, sciolto nella narrazione attraverso un processo mentale che gli è del tutto proprio.

Baru, in particolare, si caratterizza per uno stile narrativo che personalmente definirei “sincopato”, che è qualcosa di più di sintetico, perché procede per distensioni e compressioni del ritmo narrativo.
La lettura dei suoi albi non è dunque affatto una lettura semplice, perché richiede attenzione, direi quasi amorevolezza nei confronti dei personaggi e della storia.

Ne Gli anni dello Sputnik questo stile trova secondo me la sua massima espressione, grazie a un racconto che attinge ai ricordi dell’autore e che dunque si nutre al contempo della tenerezza dello sguardo sul passato e della commistione tra realtà e fantasia che è propria dell’infanzia o - forse meglio - dei ricordi d'infanzia.

Siamo nella Francia degli anni ’50 in piena guerra fredda. Un paese di una regione siderurgica in cui gli abitanti si dividono tra quelli che lavorano in miniera e quelli che lavorano nelle fabbriche. La composizione etnica è estremamente diversificata, dagli italiani ai polacchi, dagli algerini agli ucraini, tutti faticosamente inseriti nel conflitto politico e nella lotta di classe.

Ma il focus del racconto non sono gli adulti, bensì i ragazzini e i ragazzi della scuola, quelli che nel mondo del lavoro ancora non ci sono entrati. Divisi in bande tra cui si svolge uno scontro costante e una competizione continua, ma anche caratterizzati al loro interno da meccanismi di competizione e cooperazione che si alternano repentinamente come solo tra i ragazzini può accadere. Per certi versi mi ha ricordato le guerre tra ragazzini che Amélie Nothomb racconta nel bellissimo Sabotaggio d’amore.

Qui il protagonista è Igor, chiamato da molti “Goretto” (che vuol dire maiale), il quale sogna di diventare il nuovo capo della banda dei piccoli e lo fa dimostrando di essere il migliore nelle interminabili partite di calcio, nel costruire un modello di missile che vola per davvero, nel tirare meglio con l’arco e nel convincere gli altri di non avere paura di nulla. Intorno a lui un mondo variopinto e colorato, in cui spicca Leila, la bambina figlia di algerini che vuole sempre giocare con i maschi e che popola tutti i sogni di Goretto.

La narrazione si articola in episodi all’interno però di un percorso di continuità, inframmezzato da flashback e da spiegazioni in cui Igor si rivolge direttamente al lettore.

La capacità di Baru di raccontare la difficoltà e la bellezza di essere bambini, mentre sullo sfondo il mondo dei grandi combatte un’altra battaglia altrettanto inutile e fallimentare, illumina le pagine di questo albo e gli occhi di chi legge.

Il gusto un po’ retrò di un mondo che non c’è più e che pur nella sua assurdità aveva una schiettezza e una semplicità forse in parte perduti, e dall’altro lato la ricorsività delle dinamiche umane che a distanza di tempo ripropone fenomeni simili rendono Gli anni dello Sputnik un’opera equilibrata, divertita e commossa allo stesso tempo, in cui il "come eravamo" funziona per tutti, attraversando intatto il tempo e lo spazio.

Voto: 4/5

martedì 20 marzo 2012

Magnifica presenza

I film di Ozpetek li ho visti quasi tutti. Mi mancano all’appello solo uno dei suoi primissimi, Harem Suaré, che conto prima o poi di recuperare, e Cuore sacro che invece mi sono rifiutata di andare a vedere.

Trovo che il regista italo-turco abbia sostanzialmente una poetica coerente, anche quando si allontana dai suoi temi privilegiati, sebbene – a mio modesto avviso – dà il meglio di sé quando racconta i mondi che conosce meglio e le realtà a lui più vicine, di cui riesce a tirar fuori vizi e virtù in maniera del tutto originale.

Con Magnifica presenza mi pare si possa affermare che ci troviamo di fronte a una specie di divertissement cinematografico, un film d’occasione che – muovendo da un dato di cronaca (l’annunciata chiusura del Teatro Valle a Roma e la sua occupazione che dura ormai da mesi e che ha dato origine a una specie di maratona artistica di tutto rilievo) – propone un personalissimo omaggio ozpetekiano al mondo del teatro.

In questo omaggio trovano posto e composizione tutti i temi cari al regista: l’identità sessuale, la famiglia allargata, il travestimento, le verità nascoste, la lotta per la libertà in tutte le sue declinazioni, nonché una colonna sonora italo-turca sempre di altissimo livello.

Qualche elemento risulta eccessivo e in definitiva poco chiaro – come ad esempio l’incontro di Pietro (il bravissimo Elio Germano, ormai l’attore del momento) con la badessa – ma anche questi eccessi e l’inevitabile sopra le righe fanno parte della cifra stilistica del regista.

In fondo, basterebbe quanto fin qui detto per farne un buon film e garantirne gradevolezza.

A me però questa lettura non basta, perché non riesco a fare a meno di pensare che in un film di questo genere non ci sia anche una riflessione più ampia, un valore simbolico che vada al di là di quello che vediamo. Senza dover per forza scomodare Pirandello e inoltrarmi in terreni accidentati come quelli che alcune critiche propongono (e che non mi sento in ogni caso di smentire), personalmente mi è sembrato che il fulcro del film sia il palcoscenico, quello riconoscibile come tale del teatro in cui si chiude la narrazione con i nostri fantasmi-personaggi che ritrovano il loro mondo, ma anche quello quotidiano delle vite che viviamo.

I fantasmi con cui Pietro viene in contatto nella casa che ha preso in affitto (la compagnia Apollonio al completo, scomparsa durante il periodo della seconda guerra mondiale) sono rimasti intrappolati in un ruolo che la morte gli ha impedito di recitare compiutamente e sono destinati a ripeterlo all’infinito fino a quando qualcuno non li aiuterà a scoprire la verità. Ma in fondo non è lo stesso per Pietro, omosessuale che non ha ancora trovato il modo di vivere la propria identità? Non è lo stesso per sua cugina, intrappolata a sua volta nel personaggio della giovane donna usata dagli uomini? Non è perennemente così per il trans che Pietro soccorre per strada e che da tutta la vita recita un personaggio? Non è così per Livia Morosini che da tutta la vita cela la sua vera identità al mondo intero? E non è in qualche modo così anche per le due bariste che a loro modo recitano ogni giorno la loro scena dietro il bancone del loro bar?

Le dicotomie “menzogna/verità” e “finzione/realtà” tornano instancabilmente e forse anche troppo didascalicamente durante tutto il film, costringendoci continuamente a chiederci se le une o le altre si trovino effettivamente dove ce le aspettiamo. Ozpetek guarda questo mescolarsi continuo e inestricabile da due osservatori privilegiati: quello del cinema – dove anche le vite reali degli attori si svolgono in fondo su un palcoscenico – e quello del mondo omosessuale – dove costruirsi un personaggio che corrisponda all’immagine di sé è fenomeno diffuso e a volte quasi ossessivo.

Ci si potrebbe aspettare che l’incontro di Pietro con questo originale gruppo di fantasmi trasformi il racconto in un romanzo di formazione al termine del quale il nostro spaesato e confuso protagonista ha fatto chiarezza dentro di sé e si è affacciato finalmente alla vita vera. Ma non è così.
Perché i personaggi troveranno il loro palcoscenico proprio grazie a Pietro, ma lui è lì in platea a guardarli con lo sguardo ingenuo e commosso da bambino mai cresciuto che lo caratterizza fin dalla prima scena.

Il palcoscenico della vita di Pietro è ancora tutto da costruire: non esiste un copione da recitare e i silenzi vanno riempiti con la propria creatività e sensibilità.

Certo, resta un film spiazzante. E per questo sta già suscitando reazioni spesso diametralmente opposte (si vedano per esempio questa recensione e quest'altra).

A me è piaciuto; non è però al vertice della mia personale classifica ozpetekiana.


Voto: 3/5


domenica 18 marzo 2012

Quasi amici

Il film è la storia di Philippe (François Cluzet, una specie di fratello minore di Dustin Hoffman per quanto gli assomiglia), ricco e colto cinquantenne parigino, che vive in una specie di reggia, ma è paraplegico a causa di una caduta col parapendio dopo la morte dell’adorata moglie, e di Driss (Omar Sy), un ragazzone di colore ben poco acculturato e molto politically incorrect, che vive con la zia e altri parenti in un piccolo appartamento della banlieu parigina.

Apparentemente questi due uomini non hanno nulla in comune e nessun motivo per incontrarsi. Il fatto è che Philippe – aiutato dalla sua assistente Magalie (Audrey Fleurot) – sta facendo dei colloqui per cercare un nuovo badante e Driss si è presentato per avere una firma su un foglio che gli consenta di accedere nuovamente al sussidio di disoccupazione col quale vive.

Per Philippe sarà una specie di colpo di fulmine o di scommessa quella che lo porterà a mettersi nelle mani di Driss, totalmente inesperto del mestiere e totalmente inopportuno nell’ambiente di Philippe, come un elefante in una cristalleria, ma dotato di un gran cuore, una straordinaria ironia e un notevole buon senso.

Philippe non vuole la pietà di nessuno, dunque ha bisogno di qualcuno che come Driss lo tratti per quello che è, senza risparmiargli nulla, e che gli porti in casa una grande energia e un sincero amore per la vita, tutto ciò che l’handicap ha fatto perdere a Philippe.

Driss, a sua volta, ha bisogno di qualcuno che creda in lui, che gli dia fiducia, che gli lasci la possibilità di essere completamente se stesso.

Dris e Philippe in parte impareranno l’uno dall’altro quello che manca a ciascuno, in parte si riconosceranno in ciò che li accomuna al di là delle differenze di superficie. Insomma, un’amicizia apparentemente impossibile e per questo tanto più bella e commovente. L’incontro impossibile di due mondi.

La forza del film sta nel fatto che tutto questo si sviluppa non attraverso un racconto melenso e lacrimevole, bensì a ritmo della musica classica che piace tanto a Philippe e di quella disco che fa ballare Driss, tra una risata e una battuta scorretta, con Driss a fare da mattatore in mezzo a personaggi secondari e comprimari tutti molto belli e divertenti.

Qualche macchiettismo i due registi Olivier Nakache e Eric Toledano se lo lasciano sfuggire, anche qualche semplificazione è quasi inevitabile in quella che - pur ispirata a una storia vera - è e rimane una favola. Il risultato finale è però molto piacevole e fa bene al cuore, che di questi tempi non è un merito da sottovalutare.

Una volta visto il film non si fa fatica a capire perché esso ha guadagnato così tanto in Francia e perché in Italia sta beneficiando di un fittissimo passaparola che lo sta portando ai vertici delle classifiche di incasso.
Bene così.

Voto: 3,5/5

mercoledì 14 marzo 2012

Paradiso amaro

Innanzitutto va riconosciuto a questo film di avere uno degli incipit migliori sentiti al cinema negli ultimi anni: "I miei amici credono che solo perché io abito alle Hawaii io viva in paradiso, passando il tempo a bere Mai Tai e a fare surf: sono 15 anni che non salgo su una tavola da surf" (a volte ho la sensazione che qualcuno pensi più o meno la stessa cosa di me che vivo a Roma! ;-).

Probabilmente il difetto di Paradiso amaro sta nel non avere un centro, perché sono tanti, forse troppi i temi affrontati e alla fine non si è veramente in grado di dire di cosa ci voleva parlare.

Come dice C., si tratta di un "film 3x2 anticrisi: film sul rapporto moderno padre-figlie, film ambientalista, film polpettone strappalacrime con un solo biglietto e pure con l’intramontabile George!"
Aggiungerei che c'è pure il tema del testamento biologico e così l’offerta si fa ancora più succulenta ;-)

In realtà, esiste un centro della storia e questo centro è il personaggio di Matthew King (George Clooney), un uomo che - per almeno una buona metà del film - ci appare completamente spaesato e inadeguato di fronte agli eventi che lo travolgono: il coma della moglie e il suo testamento biologico in cui chiede che le macchine siano staccate, i bisogni pratici ed emotivi delle figlie di cui di fatto non si è mai occupato personalmente, la vendita di una vasta area ereditata dalla trisnonna hawaiana che aveva sposato il suo medico bianco e che quasi sicuramente sarà destinata alla speculazione edilizia, la scoperta del tradimento della moglie e della sua intenzione di chiedere il divorzio.

Di fronte a tutto questo Matt appare inizialmente quasi un estraneo: sembra osservare e commentare le cose dall’esterno, senza toccarle, senza entrarci veramente in relazione. Matt è un buono, ma non riesce davvero a prendere in mano la vita, a diventarne in qualche modo motore attivo.

Matt vive come in apnea, congelato all’interno di una vita in cui tutto è esattamente come dovrebbe: una moglie bella e attiva, l’affetto degli amici, due figlie sveglie di cui una va a un college prestigioso, un lavoro che gli piace, la ricchezza familiare, la villa con piscina e l’isola paradisiaca a fare da culla a tutto questo.

In realtà, niente è come la sua intelligenza emotiva rarefatta gli fa credere. Ed è la vita stessa che lo costringe a porsi delle domande, a tirare fuori la rabbia, a guardarsi intorno forse per la prima volta, a entrare in contatto con se stesso.

La storia di Paradiso amaro è raccontata in modo un po’ spiazzante, è costellata di personaggi buffi, quasi irreali e di situazioni tragicomiche; la stessa ambientazione teoricamente idilliaca appare inquietante, con i suoi orribili grattacieli, i fintissimi prati inglesi, i cieli scuri e cangianti, la natura quasi respingente.

Tutto però si compone nel personaggio di Matt e nel percorso che lo porterà a perdonare, a scegliere, a ritrovare.

Non certo un film lineare, ma nemmeno un film banale e scontato come si poteva temere.
Alexander Payne dimostra di essere un signor regista e riesce sostanzialmente a tenere insieme la materia magmatica di questa storia, anche e soprattutto grazie alla bravura di George Clooney.

E comunque se pensavate che le camicie a fiori o dalle fantasie orribili cui associamo mentalmente le Hawaii sono un vezzo da turisti, sappiate che non è così…
Le portano davvero tutti!

Voto: 3/5

P.S. Straordinaria la metafora di Matt sulla famiglia, un arcipelago come le Hawaii, le cui componenti sono parte di un tutt'uno, benchè separate e sole e sempre alla deriva, lentamente si allontanano... (benché il film in qualche modo dimostri esattamente il contrario!)

lunedì 12 marzo 2012

Les ballets Trockadero de Monte Carlo

Figuratevi un balletto classico, tipo Il lago dei cigni di Čajkovskij.

Ora immaginate che la compagnia di ballo sia composta esclusivamente da uomini: giovani esili e slanciati, omoni alti due metri e con piedi misura 45, ragazzi muscolosi e villosi, che interpretano sia le parti maschili che quelle femminili, con i loro tutù, gli occhi truccati e i capelli raccolti.

La somma di queste due immagini sono i Trockadero, i Trocks come si fanno affettuosamente chiamare.

La loro filosofia è quella di rendere omaggio al balletto (classico e moderno) mediante un’interpretazione attenta delle coreografie e una qualità tecnica della danza altissima, ma anche di svelarne in qualche modo i vezzi e la teatralità un po’ eccessiva grazie a un’ironia che in parte scaturisce quasi automaticamente dalla contraddizione tra i corpi maschili e le parti danzate, dall’altro nasce dalle buffe e intelligenti variazioni sul tema che i ballerini introducono.

Nessuno più dei Trocks è in grado di far apprezzare il balletto anche a chi – come me – non lo conosce e non lo ama particolarmente, in particolare quello classico. È come se questi ballerini riuscissero a mettere insieme un approccio quasi didascalico, rendendo espliciti ovvero esagerando il contenuto narrativo del balletto, con un approccio filologico, la cui fedeltà all’originale è tale che in alcuni momenti ci si dimentica di star vedendo ballare degli uomini, tanto il loro gioco di gambe, la loro leggerezza, l’armonia dei loro movimenti sono straordinari.

A Roma , all’Auditorium Conciliazione, il 7 e l’8 marzo i Trocks hanno portato un programma composto da Il lago dei cigni – II atto con coreografie di Lev Ivanov, Patterns in space da coreografie di Merce Cunningham, Grand Pas de Quatre da coreografie di Anton Dolin e Jules Perrot e Raymonda’s Wedding da coreografie di Marius Petipa.

Non è mancata nemmeno la morte del cigno, che ha disseminato il palcoscenico di piume prima di accasciarsi al suolo!

Complessivamente uno spettacolo gradevolissimo che vale la pena di essere visto e goduto in tutta la sua “leggerezza”.

Voto: 4/5

venerdì 9 marzo 2012

Oggi ho imparato a volare / Luca Bassanese; con Elisa Bedin

Oggi ho imparato a volare: [Ad ogni creatura ferita nel tentativo di un volo] / Luca Bassanese; con Elisa Bedin; pref. di Eugenio Finardi. [S.l.]: Buenaonda, 2012.

Oggi ho imparato a volare (che prende il titolo da una canzone di Eugenio Finardi, anche autore della prefazione) è la storia di Katalin, una ragazza ungherese sedicenne, una giovane come tante altre, con il sogno di sposarsi con una persona che la ami, di avere dei figli e una bella casa e di realizzarsi così nella vita.

Il fatto è che Katalin viene da un passato molto difficile, un padre che ha abusato di lei, una madre indifferente, un istituto, e così quando incontra Josef lo scambia per il principe azzurro che aspettava e lo segue fiduciosa in Italia.

Qui accetterà di prostituirsi per strada col nome di Maria, accetterà i silenzi e le stranezze del suo uomo, persino le botte, nella convinzione di essere amata e di doversi sacrificare per realizzare il suo sogno.

Il caso fortuito le offrirà l'occasione di riallacciare i contatti con la nonna tanto amata, di avere una seconda opportunità, di riscattarsi, di imparare a volare al di là del vetro della lampada che fino allora aveva scambiato per il cielo.

Il romanzo è la storia di tutte le Katalin, ragazze minorenni che hanno lasciato il loro paese e delle condizioni personali spesso pesanti per trovare una vita migliore e invece si ritrovano schiave – e spesso psicologicamente succubi – di uomini che le sfruttano facendo loro credere di amarle.

Il linguaggio di Katalin/Maria è quello semplice di un’adolescente: sognante e ingenua come tante sue coetanee, ma anche coraggiosa e determinata come solo chi ha dovuto affrontare molte brutture può essere.

Una storia esile, ma che vuole essere paradigmatica, esemplificativa, didascalica senz essere mai banale, rispetto a uno dei problemi più complessi della nostra contemporaneità. E lo fa con una delicatezza che fa commuovere.

Se a Luca Bassanese si deve rendere il merito di essere riuscito a calarsi nella sensibilità di queste ragazze con grande capacità mimetica, a Elisa Bedin si deve la Relazione sul fenomeno della tratta dei minori e sulla prostituzione minorile che chiude il libro. Lettura meno semplice, che trasforma le emozioni delle pagine precedenti in dati e nozioni giuridiche che ci riportano con i piedi per terra per provare a capire, dopo aver condiviso uno stato d'animo.

Voto: 3,5/5

martedì 6 marzo 2012

Hotel Bosforo / Esmahan Aykol

Hotel Bosforo / Esmahan Aykol; trad. di Emanuela Cervini. Palermo: Sellerio, 2010.

Ho comprato questo libro sulla scia dell’entusiasmo del viaggio a Istanbul. Acquistare un giallo ambientato in questa città, la cui protagonista – non turca – vive e lavora nel quartiere di Cihangir mi era sembrato un ottimo modo per camminare di nuovo per le strade di Istanbul, sentirne i sapori e gli odori.

Ed effettivamente da questo punto di vista il romanzo riesce perfettamente nell’intento. Kati Hirschel è una tedesca, che però ha vissuto i primi 13 anni della vita a Istanbul per poi fare ritorno insieme alla sua famiglia in Germania, e che ha infine deciso di trasferirsi a vivere in quella che considera la sua vera patria d’adozione, non la Turchia, come lei stessa dice, ma proprio la città di Istanbul. Una città di cui Kati – come tutti coloro che scelgono di vivere in una città che non è la propria di origine - vede tutti i difetti e le cose insopportabili, dai tassisti che fanno la cresta all’invadenza delle persone, ma di cui ha imparato ad amare lo spirito più vero e più profondo, che ha acquisito come una seconda pelle.

Kati è un personaggio simpatico, spesso si rivolge direttamente ai suoi lettori, è un po’ confusa dal punto di vista sentimentale, ha amici ed amiche con cui condivide intoccabili abitudini (dal thè pomeridiano alla chiacchierata domenicale), e gioca a fare la detective come quelli dei gialli che vende.

E come spesso accade in questi casi si imbatte per caso nell’omicidio di Kurt Muller, un regista tedesco arrivato con tutta la troupe a Istanbul per girare un film, la cui protagonista principale è Petra, un’amica di infanzia di Kati che ha una dolorosa storia alle spalle.

Il giallo è decisamente deludente, diciamo un gialletto senza troppe pretese; anche il racconto e il linguaggio risultano a volte un po’ troppo banali e semplificati; i personaggi fanno fatica a trovare una loro precisa identità psicologica, e spesso restano piuttosto incompiuti, come nel caso del commissario di polizia Batuhan, con cui Kati ha una breve storia.

Alla fine però il gialletto procede spedito, la città ammalia, e volentieri ci si perde con Kati nelle strade inerpicate di Cucurkuma, ci si ferma a mangiare un kebab a Eminönü, si prende un aperitivo in uno dei molteplici locali di Beyoglu.

Più di questo però non aspettatevi.

Voto: 2,5/5

domenica 4 marzo 2012

Hysteria

Se volete trascorrere una serata allegra e non troppo impegnativa, ma neppure stupida o volgare, questo è assolutamente il film che fa per voi.

Non c’è dubbio che soltanto gli inglesi potevano concepire un film che parlasse dell’invenzione del vibratore e che lo facesse con tale garbo e grazia.

Siamo nell’Inghilterra dell’età vittoriana (precisamente nel 1880) e il giovane medico Mortimer Granville (Hugh Dancy) viene cacciato da tutti gli ospedali e gli studi medici, perché ha idee troppo moderne sulla medicina e rifiuta i metodi in uso fino a quel momento.

Non volendo accettare la generosità di Edmund St. John-Smythe (un dissacrante e divertentissimo Rupert Everett), il figlio dei suoi tutori, un eccentrico che si diletta di invenzioni elettriche, accetta l’impiego presso il dottor Robert Dalrymple (Jonathan Pryce), un medico specializzato nella cura dell’isteria femminile, un'etichetta sotto la quale nell’Ottocento si classificava una gran varietà di condizioni e sintomi, e per la quale una donna poteva finire in manicomio o subire un’isterectomia. La cura dell’anziano medico consisteva nel produrre il "parossismo della condizione isterica" mediante un metodo di manipolazione, in un’epoca in cui non si riteneva neppure che le donne potessero provare piacere.

Il giovane Mortimer dimostra uno straordinario talento per questo lavoro (con qualche piccolo effetto collaterale!), tanto che diventa socio dello studio con la prospettiva di diventarne responsabile una volta sposata la figlia più piccola del medico, Emily, la ragazza perfetta secondo il modello vittoriano, silenziosa, dedita alla casa, amante delle arti. Il medico ha anche una figlia maggiore, Charlotte (la splendida Maggie Gyllenhaal), che non solo non ha alcuna intenzione di sposarsi, ma è vulcanica e orgogliosa, e disonora la famiglia occupandosi dei poveri e dei diseredati del quartiere per i quali ha aperto un ricovero, che fa anche da asilo, scuola e ambulatorio medico.

Il fallimento del dottor Granville con una delle pazienti lo porterà all’ennesimo licenziamento, ma la scoperta di poter trasformare - a partire da un attrezzo elettrico creato dal suo amico Edmund - il trattamento manuale in un elettromassaggio dal risultato ancora più strabiliante darà al dottore fama e ricchezza.

Parallelamente Mortimer sarà chiamato a deporre sulla presunta isteria di Charlotte che cambierà anche le sue scelte sentimentali, mentre l’invenzione del nuovo, portentoso oggetto rappresenterà un primo segnale tangibile di quel processo di faticoso affrancamento che la donna aveva appena cominciato.

Non manca sui titoli di coda un’illustrazione di tutti i modelli di vibratore più fantasiosi e di maggiore successo creati e messi in vendita dalla fine dell’Ottocento ai giorni nostri ;-))

Che dire? Non è certo un film sul quale soffermarsi con grandi disquisizioni intellettuali, sebbene la riflessione sulla condizione femminile e soprattutto sulla totale ignoranza che caratterizzava quell'epoca rispetto alla donna nella sua complessità ha una sua efficacia.

Oltre ad attori gradevolissimi e con facce molto belle, il film scivola via leggero con molte risate e qualche pudore perché evidentemente dopo 150 anni siamo ancora perbenisti e un po’ puritani. In ogni caso, sfido chiunque delle donne in sala a negare che il primo pensiero uscite dalla sala sia stato: “Mai più senza”.

Voto: 3,5/5

P.S. Ancora stampellata ho visto il film nella stessa sala dove avevo visto Albert Nobbs, la sera che sono caduta proprio davanti al cinema... Speriamo di aver esorcizzato tutto! ;-)

giovedì 1 marzo 2012

Polina / Bastien Vivès

Polina / Bastien Vivès. Firenze: Black Velvet, 2011.

Dopo lo splendido Il gusto del cloro, il giovane prodigio francese del fumetto Bastien Vivès torna a sorprenderci con Polina.

All’unità di luogo e di tempo e al minimalismo linguistico e narrativo che caratterizzavano Il gusto del cloro si sostituisce l’unità “di flusso” di Polina, una storia che scorre unitaria e compatta dal punto di vista emotivo.

Alle tonalità del verde-azzurro della piscina in cui si svolgeva l’intera vicenda dell’albo precedente, si sostituisce un grigio-seppia in cui sono immersi i personaggi e gli ambienti di questo nuovo lavoro.

Ancora una volta Vivès ci racconta lo sguardo di una persona giovane di fronte ai propri sentimenti e alle proprie aspirazioni.

In questo caso possiamo parlare di un vero e proprio “romanzo di formazione” che racconta la storia di una bambina russa di nome Polina che vuole diventare una ballerina e che per realizzare questo sogno deve innanzitutto realizzare se stessa come persona e come donna, in un percorso caratterizzato da incontri, allontanamenti e riavvicinamenti.

Nella storia di Polina ci sono molti temi importanti.
Innanzitutto il significato dell’arte nella vita, e quello che porta con sé in termini di irrequietudine, di ricerca della perfezione, di fatica, di difficoltà a trovare la propria strada, di paura del fallimento.

In secondo luogo, c’è il tema del rapporto con l’autorità, in questo caso rappresentata dal maestro Bojinski, un purista del balletto classico, burbero e severo, capace di mettere in difficoltà l’autostima di chiunque, insomma quel tipo di figura – che come quelle parentali – abbiamo bisogno di rinnegare per crescere, da cui è necessario prendere le distanze per riconoscere se stessi, ma di cui alla fine di questo percorso è possibile ricostruire il senso e il ruolo all’interno della propria vita.

Allo stesso modo, Polina non può fare a meno di rifiutare le proprie origini, il mondo dal quale proviene per poterne recuperare il valore più autentico, spogliato dai condizionamenti che le impedivano di essere autonoma e di aprire la propria mente.

In Polina ci sono i modi diversi di reagire alla vita, il coraggio o meno di fare delle scelte dirompenti, la forza o meno di prendere delle decisioni, la capacità di ascoltare il proprio sentire e di dargli seguito.

Vediamo così Polina passare dalla danza classica a quella sperimentale (passando per fallimenti e delusioni, anche sentimentali) fino alla scelta di andare a Berlino e alla fatica di trovare un modo del tutto inedito di esprimere la propria arte. La vedremo infine tornare da dove è partita e riscoprire il senso di ciò che allora aveva rifiutato.

In sostanza, Bastien Vivès ci racconta la difficile arte del crescere mediante il ritmo interiore delle emozioni.

Il disegno di Vivès è straordinariamente espressivo, pur essendo convintamente sintetico. Il suo tratto di solito non rappresenta il dettaglio, lasciandolo implicito; quando necessario, però, è come se un fascio di luce improvviso scoprisse quanto ci era stato fatto immaginare o quanto dobbiamo vedere precisamente.

In questa sinteticità del disegno c’è una capacità di trasmettere sensazioni, stati d’animo, pensieri nascosti che raramente si riscontra in altri disegnatori. Vivès si conferma autore che dà forma ai silenzi più che alle parole, e che nei silenzi è in grado di far passare i messaggi e i contenuti più profondi.

Dopo un grande lavoro come Il gusto del cloro ci si poteva facilmente aspettare una nuova opera o non all’altezza o ripetitiva rispetto alla prima.

Vivès invece dimostra di avere uno stile riconoscibile, ma di possedere molte frecce al proprio arco, in particolare di poter attingere a una sensibilità che sembra avere ancora molte cose da dire.

Voto: 4/5