giovedì 3 novembre 2011

Circumstance

I festival del cinema sono ormai diventati una passerella per star coperte di lustrini, per giornalisti in cerca di notorietà e per spettatori ossessionati dall’ “Io c’ero”. Eppure, possono essere una bella occasione sia per vedere film che difficilmente raggiungeranno le nostre sale cinematografiche, invase ormai solo di film da botteghino, sia per incontrare registi e attori (quelli minori di cui nessuno si accorge quando passano sul tappeto rosso) e per ascoltare le loro voci e il loro punto di vista sul film.

All’interno di questo panorama caratterizzato da molte luci, ma anche da parecchie ombre, il Festival internazionale del cinema di Roma mantiene una certa atmosfera un po’ naif, perché - pur strizzando l’occhio ai grandi festival come Cannes e Venezia e rivestendo di rosso la location dell’Auditorium – mantiene un’aria elegante e casalinga al tempo stesso, che lo rende – non so ancora per quanto – molto piacevole.

E così lunedì sera - ma solo dopo aver comprato su Internet i biglietti del film per evitare lunghe file – andiamo a vedere questo film di una giovane regista di origine iraniana che vive a New York, Maryam Keshavarz, dal titolo Circumstance.

Questo film - che per noi italiani risulta praticamente sconosciuto - ha vinto in realtà il premio del pubblico al Sundance Film Festival, quello di Robert Redford. E così io e C. arriviamo in sala piene di aspettative. Superato qualche problemino tecnico che ci costringe a rivedere i primi 10 minuti del film, siamo finalmente catturati nel mondo di Atafeh (nella fresca interpretazione di Nikohl Boosheri) e Shireen (la bellissima Sarah Kazemy), due liceali che vivono a Teheran, la prima proveniente da una famiglia ricca e influente, la seconda i cui genitori – due intellettuali – sono stati allontanati (uccisi?) dal regime in quanto considerati oppositori.

Tra le due ragazze si inserisce il fratello di Atafeh, Mehran (Reza Sixo Safai), tornato in famiglia dopo un passato di droga, catturato dalla prospettiva di potere che la scelta di diventare un musulmano ortodosso gli garantisce in una società come quella iraniana, affascinato dalla possibilità di esercitare un vero e proprio controllo su tutti i membri della sua famiglia.

Il legame intenso tra le due ragazze, la loro adolescenziale ricerca di se stesse, la loro voglia di sperimentare tutto e di vivere con intensità finiranno inevitabilmente per attirare l’attenzione sia di Mehran che della polizia religiosa costringendole a scelte dolorose e difficili.

Il film – come si può immaginare – non è stato girato in Iran, dove sicuramente non sarà distribuito e dove probabilmente la giovane regista non sarà ben accetta per il prossimo futuro, bensì in Libano allo scopo di garantire comunque veridicità al contesto. Gli stessi attori – pur essendo tutti di origine iraniana (il film è recitato quasi tutto in persiano) – sono anch’essi espressione di quella diaspora che dopo la Rivoluzione del 1979 ha portato molti iraniani fuori del loro paese.

Lo sguardo di chi conosce dall’interno una realtà che ama e che gli appartiene, ma che ha avuto la possibilità di guardare quella stessa realtà dall’esterno e da un contesto culturale diverso è evidente non solo nei contenuti, bensì anche nella forma cinematografica di questo film. Niente di paragonabile alla essenzialità narrativa e ai tempi lenti del cinema iraniano d’origine; piuttosto si respirano in questo film una vitalità, una fisicità, una tenerezza e una ricchezza emotiva che sono molto vicini alla nostra sensibilità occidentale. Il tutto però senza tradire un contesto che viene rappresentato con fedeltà documentaria e profondo rispetto e amore per le sue caratteristiche culturali, a cominciare dalla lingua e dalla musica.

Ne viene fuori l’immagine di un Iran schizofrenico, in cui dietro un’apparenza dominata dal rispetto delle regole imposte dal governo religioso (e particolarmente severe nei confronti delle donne) esiste una realtà molto più mossa e articolata, dove feste, discoteche, droghe, sessualità e cultura occidentale si sviluppano tra le maglie strette dei controlli della polizia.

Atafeh e Shireen sono due personaggi belli e vivi, che ci ricordano i tempi della nostra adolescenza (bellissima la scena in cui, di fronte alla televisione accesa su un programma musicale, fanno finta di cantare in playback Total eclipse of the heart), e però sono costrette dalle “circostanze” a scelte di compromesso, a decisioni difficili, a crescere più in fretta di quanto la loro età richiederebbe.

Circumstance è un film che strappa molti sorrisi e intenerisce il cuore, ma che al contempo stringe lo stomaco e fa montare la rabbia di fronte ad un’immotivata privazione della libertà personale e soprattutto della possibilità di essere giovani, di amare, di fare liberamente le proprie scelte.

L’applauso finale del pubblico (uno dei motivi per cui adoro andare ai festival) è immediato ma non propriamente convinto, a dimostrazione del fatto che il pubblico italiano è e rimane un po’ provinciale. L’intervista finale alla regista e agli attori (che parlano inglese o francese a seconda dei paesi in cui vivono) chiarisce bene la molteplicità di sfumature e di letture che sottendono la storia. Non dunque un film cui semplicemente affibbiare etichette convenzionali o di cui collocare i contenuti dentro categorie già note (come molti critici italiani hanno subito fatto), bensì un punto di vista inevitabilmente in bilico tra storia personale e sociale in un paese in cui il confine tra pubblico e privato è insieme enorme e sottile.

Circumstance dimostra che esiste un Iran diverso, quello di tutti coloro che hanno deciso o sono stati costretti ad abbandonare il loro paese e quello di chi - pur continuando a vivere in Iran - ne sogna un futuro diverso.

Voto: 3,5/5

4 commenti:

  1. E' la miglior recensione che abbia letto perchè non è fredda come le altre che riassumono la trama ed esprimono freddamente un giudizio ma c'è un coinvolgimento interiore che rende la lettura,piacevole,lineare e fa davvero venire voglia di vedere questo film.Complimenti

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  2. Grazie, Francesca. Sono contenta di essere riuscita a trasmettere una sensazione, prima ancora che un contenuto.

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