lunedì 6 dicembre 2010

We want sex

Sia chiaro. Il titolo del film non ha sostanzialmente niente a che vedere con il suo contenuto. È un pezzo di uno degli slogan che le 187 operaie della Ford di Dagenham scrissero su uno dei tanti striscioni utilizzati durante il loro storico sciopero del maggio 1968: We want sex equality.

Questo infatti è l'argomento del film di Nigel Cole (già noto per L'erba di Grace e Calendar girls), che si potrebbe definire come la versione leggera e ottimista - da commedia - di un Ken Loach d'annata.

Siamo infatti in un grande stabilimento della Ford della provincia inglese dell'Essex, dove le operaie che si occupano di cucire e rifinire i sedili in pelle della automobili chiedono che sia loro riconosciuta una specializzazione e iniziano così uno sciopero che diventerà il primo atto della richiesta di un trattamento economico paritario con gli uomini. Grazie alla loro battaglia il principio dell'equo compenso per uomini e donne entrerà nella legislazione britannica nel 1970 e poi in gran parte dei paesi occidentali.

Il tutto raccontato con la passione civile e la verve umoristica di cui solo gli inglesi sono capaci.

Nel film il motore della storia è Rita O'Grady (Sally Hawkins), che diventa leader unitaria di questo manipolo di donne, costringendo la Ford a interrompere la produzione, attirando l'attenzione dei media e, infine, arrivando ad un colloquio ufficiale con il Ministro del Lavoro britannico, in quel momento una donna altrettanto volitiva e risoluta, Barbara Castle (Miranda Richardson).

Resterà a lungo nella mia testa lo scambio di battute in macchina tra il Ministro Castle e l'allora Primo Ministro Harold Wilson (John Sessions). La Castle si lamenta del fatto che un tempo Wilson non aveva paura di sostenere le lotte operaie e di mettersi contro la grande industria e il Primo Ministro risponde rassegnato: "Allora non ero in politica".

Con mirabile leggerezza, il film tocca, dunque, problemi importanti e, per gran parte, molto attuali: il preponderante potere maschile nel mondo del lavoro, in particolare nelle posizioni di vertice; la tendenziale retroguardia dei sindacati e la loro linea fortemente politicizzata; le tante contraddizioni del capitalismo occidentale e i suoi intrinseci motivi di debolezza; la forza delle idee e l'importanza di persone che scelgano di spendersi per esse.

Il risultato finale è gradevole, sebbene a tratti convenzionale e prevedibile. Ma certo è salutare quel po' di nostalgia che il film suscita per un'epoca in cui la battaglia per i diritti era sufficientemente ingenua da diventare realmente collettiva, in cui esisteva una classe genuinamente operaia, in cui il disincanto non aveva preso del tutto il sopravvento, in cui le donne sapevano essere solidali.

Probabilmente c'è molto del gusto contemporaneo nella scelta di Rita O'Grady come leader carismatica di questo gruppo al femminile, che invece pare non avesse una guida così unitaria, bensì riuscì ad ottenere dei risultati proprio per il fatto di configurarsi come un collettivo.

Insomma, il tutto è forse un po' edulcorato e romanzato, ma colpisce nel segno. Oggi, più ancora di ieri, abbiamo bisogno di credere nella possibilità di un cambiamento, di pensare che esiste ancora una parte buona della società, che l'individualismo e lo snobismo non hanno completamente inaridito qualunque idealità, che la rivoluzione dal basso non appartiene solo ai secoli passati.

Va detto che il mondo di oggi, globalizzato e scontento (come direbbe Saskia Sassen), è molto più complesso, dal momento che i nostri destini sono più intrecciati di un tempo e l'azione locale è, insieme, più debole e più potente. La nuova frontiera di un capitalismo aggressivo e sempre più consumistico, ma che aspira ad un'alleanza con governi senza opposizioni interne e si fa forte del lavoro di classi operaie senza diritti (come avviene in Cina), fa paura, tanto più in una fase di crisi economica e di assenza di passioni civili da parte di gruppi e singoli che sempre più si ritirano in buon ordine a vita privata.

Un film che scuote le coscienze, facendo sorridere, non può che far bene.

Voto: 3,5/5

2 commenti:

  1. Bello, interpretazioni simpatiche...edulcolorate si, forse anche un po' piacione ma piacevoli. Bei tempi, bei vestitini, belle musiche, belle personcine. In inglese si intitola "Made in Dagenham", non potevano tenerlo? Ho sempre piu' l'impressione che, in questo paese, sia indispensabile l'allusione sessuale per fare pubblico. Che palle!
    Enrico.

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  2. Sulle allusioni sessuali per fare pubblico, sviando completamente rispetto al significato hai perfettamente ragione e sono assolutamente d'accordo.

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