martedì 14 dicembre 2010

Il malinteso / Irène Némirovsky

Il malinteso / Irène Némirovsky; trad. di Marina Di Leo; con una nota di Olivier Philipponnat. Milano: Adelphi, 2010.

Non conoscevo Irène Nèmirovsky. La lettura del suo libro è nata da una semplice coincidenza. Una mia amica l'aveva appena comprato, io ho letto la quarta di copertina e ho trovato intrigante la storia, cosicché - seduta stante - mi è stato prestato.

Per questo motivo non sapevo assolutamente cosa aspettarmi e, dopo la prima decina di pagine e una iniziale sensazione di spaesamento per il tipo di scrittura e il contesto storico-geografico, mi sono andata a leggere la nota di Philipponnat che mi ha permesso di inquadrare meglio la scrittrice e l'opera.
Mi ha dunque colpito scoprire che Il malinteso (Le malentendu) è il suo primo romanzo, scritto a soli 23 anni e non privo di richiami autobiografici, in particolare per quello che riguarda il suo complesso e controverso rapporto con la società alto-borghese francese.

Il romanzo racconta la storia d'amore tra Denise, giovane altolocata, sposata a un ricco parigino da cui ha avuto una figlia, e Yves, che ha perso le ricchezze di famiglia e, dopo il servizio militare prestato durante la guerra, è tornato a Parigi ad un umile lavoro impiegatizio. I due si conoscono e si innamorano durante le vacanze sulla spiaggia di Hendaye in Spagna, ignari delle storie e dei mondi che ognuno di loro ha alle spalle e che si riveleranno al loro ritorno a Parigi, minando e infine distruggendo la relazione.

Di questo romanzo ho trovato sorprendente la capacità di cogliere e descrivere sentimenti e atteggiamenti psicologici universali, pur rimanendo all'interno di un quadro storicamente determinato.

C'è infatti un livello di lettura storico-sociale, all'interno del quale l'allontanamento tra Denise e Yves sembra - e forse è - dovuto alla diversa condizione di vita dei due, alla ricchezza e spensieratezza della prima in contrapposizione all'orgoglio e alle difficoltà economiche del secondo. Non già una vera contrapposizione tra classi sociali, bensì tra ricchi un po' superficiali e inconsapevoli ed ex-ricchi che non si rassegnano a doversi guadagnare la vita col lavoro quotidiano e a dover adottare uno stile di vita più morigerato.
Questo livello di lettura è certamente quello che ci appare più datato, ma non per questo meno interessante nel tratteggiarci un'epoca di transizione e un'intera generazione.

Dall'altro lato, c'è invece un livello di lettura psicologico, che contrappone la concezione dell'amore di Denise a quella di Ives. La prima intrisa del mito dell'amore assoluto, del pensiero dell'amato che occupa tutti gli istanti, del bisogno delle parole e delle continue conferme, del vortice confuso dei sentimenti e dell'inevitabile mix di odio-amore, della complementarità a tutti i costi; l'altro alla ricerca della serenità dei sentimenti, della continuità, dello scambio silenzioso, dell'equilibrio tra spazio del sé e spazio della coppia.

Entrambi di fatto incompiuti. La prima troppo melodrammatica e sopra le righe, il secondo troppo spento e riservato.

Così, quello che entrambi riconoscono come "amore" finirà per smontarsi, pezzo per pezzo, irrimediabilmente, lasciando amarezza e disillusione, nonché il rimpianto di ciò che non si è stati in grado di afferrare e preservare.

Questo piano di lettura è senza tempo e resta oggi, senza soluzione di continuità rispetto al passato, oggetto di lancinanti dubbi e innumerevoli riflessioni: è realmente possibile l'incontro tra due anime, la conoscenza reciproca, la felicità riconosciuta? È possibile un equilibrio tra l'amore senza sosta di Denise e quello parentetico di Yves? È possibile compenetrarsi senza annullarsi, trovare serenità senza cadere nella banalità?

In definitiva, non v'è dubbio sul fatto che la Némirovsky, pur utilizzando questa storia d'amore anche come metafora sociale del suo tempo e della sua vita, riesca, con acutezza e maturità, a parlarci anche della nostra, immutabile e incompiuta umanità nella sua infinita ricerca di sé.

Voto: 3,5/5

P.S. Per M.T.: come vedi ho finito di leggere il libro, te lo restituisco alla prima occasione ;-)

domenica 12 dicembre 2010

Bocche di donna / Stella Duffy

Bocche di donna / Stella Duffy; trad. di Marta Mazzola. Venezia: Marsilio, 2009.

I libri di Stella Duffy, nel raccontarci le avventure dell'investigatrice londinese Saz Martin, sono sempre una lettura gradevole e leggera, senza essere banale.
Inoltre, avendo seguito fin qui i cambiamenti di vita di Saz Martin (ma devo recuperare Calendar girls e Beneath the blonde), la curiosità di sapere come andrà a finire nella sua nuova vita di mamma della piccola Matilda e con la sua compagna Molly mi ha spinto inevitabilmente verso la lettura di quest'ultimo capitolo della "saga".

Si tratta di una storia anomala rispetto alle precedenti perché, se è vero che il coinvolgimento personale di Saz nelle sue indagini è sempre molto elevato, in questo caso non si può realmente parlare di un'indagine. Il romanzo risale piuttosto alle radici e alle motivazioni delle azioni di una fase della vita di Saz, l'adolescenza, di cui finora non conoscevamo praticamente nulla.

Non c'è di fatto nessun assassino o vero mistero da scoprire, bensì lo svelamento di un passato in parte oscuro, la cui scoperta - come sempre - Stella Duffy riesce a dosare sapientemente, introducendo nella narrazione brevi flashback che ci raccontano emozioni ed episodi lì per lì decontestualizzati, ma che al termine del racconto si compongono in un quadro coerente.

La prima parte del romanzo (se si tralascia qualche errore di traduzione e qualche refuso editoriale un po' fastidioso) risulta piuttosto intrigante e coinvolgente, soprattutto perché ci conduce alla scoperta di quell'età difficile e spesso crudele, ma sempre determinante rispetto ai destini e all'evoluzione psicologica individuale, che è l'adolescenza.

Peccato che l'attesa partecipata di questa prima parte venga in parte delusa nella seconda metà del romanzo, che da un lato forza eccessivamente la mano, dall'altro risolve un po' semplicisticamente alcuni nodi, in particolare quello del rapporto tra Saz e Molly e delle conseguenze del non detto che si è insinuato tra di loro.

Certamente Bocche di donna non è tra i romanzi più memorabili della Duffy, ma è pur sempre una lettura che vale la pena per gli amanti del genere.

Voto: 3/5

lunedì 6 dicembre 2010

We want sex

Sia chiaro. Il titolo del film non ha sostanzialmente niente a che vedere con il suo contenuto. È un pezzo di uno degli slogan che le 187 operaie della Ford di Dagenham scrissero su uno dei tanti striscioni utilizzati durante il loro storico sciopero del maggio 1968: We want sex equality.

Questo infatti è l'argomento del film di Nigel Cole (già noto per L'erba di Grace e Calendar girls), che si potrebbe definire come la versione leggera e ottimista - da commedia - di un Ken Loach d'annata.

Siamo infatti in un grande stabilimento della Ford della provincia inglese dell'Essex, dove le operaie che si occupano di cucire e rifinire i sedili in pelle della automobili chiedono che sia loro riconosciuta una specializzazione e iniziano così uno sciopero che diventerà il primo atto della richiesta di un trattamento economico paritario con gli uomini. Grazie alla loro battaglia il principio dell'equo compenso per uomini e donne entrerà nella legislazione britannica nel 1970 e poi in gran parte dei paesi occidentali.

Il tutto raccontato con la passione civile e la verve umoristica di cui solo gli inglesi sono capaci.

Nel film il motore della storia è Rita O'Grady (Sally Hawkins), che diventa leader unitaria di questo manipolo di donne, costringendo la Ford a interrompere la produzione, attirando l'attenzione dei media e, infine, arrivando ad un colloquio ufficiale con il Ministro del Lavoro britannico, in quel momento una donna altrettanto volitiva e risoluta, Barbara Castle (Miranda Richardson).

Resterà a lungo nella mia testa lo scambio di battute in macchina tra il Ministro Castle e l'allora Primo Ministro Harold Wilson (John Sessions). La Castle si lamenta del fatto che un tempo Wilson non aveva paura di sostenere le lotte operaie e di mettersi contro la grande industria e il Primo Ministro risponde rassegnato: "Allora non ero in politica".

Con mirabile leggerezza, il film tocca, dunque, problemi importanti e, per gran parte, molto attuali: il preponderante potere maschile nel mondo del lavoro, in particolare nelle posizioni di vertice; la tendenziale retroguardia dei sindacati e la loro linea fortemente politicizzata; le tante contraddizioni del capitalismo occidentale e i suoi intrinseci motivi di debolezza; la forza delle idee e l'importanza di persone che scelgano di spendersi per esse.

Il risultato finale è gradevole, sebbene a tratti convenzionale e prevedibile. Ma certo è salutare quel po' di nostalgia che il film suscita per un'epoca in cui la battaglia per i diritti era sufficientemente ingenua da diventare realmente collettiva, in cui esisteva una classe genuinamente operaia, in cui il disincanto non aveva preso del tutto il sopravvento, in cui le donne sapevano essere solidali.

Probabilmente c'è molto del gusto contemporaneo nella scelta di Rita O'Grady come leader carismatica di questo gruppo al femminile, che invece pare non avesse una guida così unitaria, bensì riuscì ad ottenere dei risultati proprio per il fatto di configurarsi come un collettivo.

Insomma, il tutto è forse un po' edulcorato e romanzato, ma colpisce nel segno. Oggi, più ancora di ieri, abbiamo bisogno di credere nella possibilità di un cambiamento, di pensare che esiste ancora una parte buona della società, che l'individualismo e lo snobismo non hanno completamente inaridito qualunque idealità, che la rivoluzione dal basso non appartiene solo ai secoli passati.

Va detto che il mondo di oggi, globalizzato e scontento (come direbbe Saskia Sassen), è molto più complesso, dal momento che i nostri destini sono più intrecciati di un tempo e l'azione locale è, insieme, più debole e più potente. La nuova frontiera di un capitalismo aggressivo e sempre più consumistico, ma che aspira ad un'alleanza con governi senza opposizioni interne e si fa forte del lavoro di classi operaie senza diritti (come avviene in Cina), fa paura, tanto più in una fase di crisi economica e di assenza di passioni civili da parte di gruppi e singoli che sempre più si ritirano in buon ordine a vita privata.

Un film che scuote le coscienze, facendo sorridere, non può che far bene.

Voto: 3,5/5

venerdì 3 dicembre 2010

Precious

In fondo Precious è un po' come Shrek, perché si può sostanzialmente raccontare come una fiaba classica, con l'unica differenza che molti dei luoghi comuni che le caratterizzano sono completamente capovolti.

C'è infatti una cenerentola indifesa, ma con grandi potenzialità e risorse, che è finita nelle grinfie di un uomo nero e di una matrigna cattiva, fino a quando non arriva il principe azzurro che - con il suo amore - la libera dal sortilegio e le offre una possibilità di vita e di riscatto.

Il fatto è che la cenerentola indifesa si chiama Clareece Precious Jones (Gabourey Sidibe) (un nome che suona come una beffa), ha 17 anni, è nera, obesa, vive nei bassifondi di Harlem, è incinta per la seconda volta del padre che la violenta, e sostanzialmente fa la serva di una madre nullafacente e violenta (interpretata da Mo'nique). Precious ha, però, straordinarie potenzialità e risorse, sia esterne, visto che con un ceffone è in grado di abbattere praticamente chiunque, ma soprattutto interiori, tanto che nei momenti più difficili della sua difficilissima esistenza si immagina diva del cinema, vestita da gran sera, ambita da fotografi e fan, affiancata da un ragazzo giovane e bellissimo, ovvero magra, bionda e ricca. In ogni caso, si muove leggiadra al ritmo della musica nera anni '80 e '90 (fantastica, tra l'altro, la colonna sonora).

L'uomo nero non vive nei boschi oscuri, bensì è un padre senza volto e dalle poche parole, che abusa di lei senza limiti né vergogna.

La matrigna cattiva è la sua vera madre, invidiosa del fatto che il suo compagno preferisca sua figlia a lei, abbrutita dall'esistenza, priva di qualunque forma di delicatezza e compassione, fonte di una violenza senza sconti.

Ma ecco arrivare infine il principe azzurro. In realtà, si tratta della signorina Rain (Paula Patton), una giovane insegnante di colore della scuola cosiddetta alternativa (cioè di recupero) dove Precious viene spedita dopo essere rimasta incinta per la seconda volta. La scuola si chiama "Each one, teach one" e raccoglie ragazze che, per i motivi più vari, sono finite ai margini e la scuola tradizionale non riesce ad assorbire. La signorina Rain è gay (vive con la sua compagna Catherine ed accoglie in casa Precious scappata da sua madre), ed ha una grande passione per l'insegnamento e un gran cuore.
Le squinternate, ma divertenti compagne di scuola di Precious (e d'ora in poi - mi raccomando - se vi chiedono qual è il vostro colore preferito rispondete "il beige fosforescente") saranno anche loro un tassello importante del suo percorso di liberazione, un po' come i sette nani per Biancaneve...

L'incantesimo è l'affetto e la fiducia che la signorina Rain dà a Precious, e che le consentono di imparare a leggere e scrivere e cominciare quel processo di affrancamento e di riscatto dal mondo di sopraffazioni, bugie e dolore in cui vive.
L'immagine di Precious che cammina per le strade di New York con il suo bambino in braccio e la piccola "Mongo" per mano (la sua prima figlia affetta dalla sindrome di Down) è la speranza di un futuro migliore.

Insomma, signori, è una fiaba. E così va presa. I cattivi sono cattivi, e i buoni sono buoni. L'happy end è d'obbligo e la speranza pure. C'è spazio per le fiabe anche nello squallore dello stagno melmoso di un'orchessa.

La figura di Precious è la rappresentazione massima del film. Obesa e pesante, ma anche leggiadra e ottimista.
Così, raramente si incontra al cinema un film che sa essere così crudamente duro e realistico nella rappresentazione della bassezza umana e, al contempo, così leggero, ricco di aperture, capace di parlare con soavità di temi che sono macigni, di farci ballare e sorridere nella tragicità del contesto.

Più ci penso e più mi è piaciuto. Non un capolavoro, ma un'operazione cinematografica intelligente e riuscita, un impianto narrativo efficace.
Del resto, non c'è storia che funzioni meglio di una favola.

Voto: 4/5

Il trailer in inglese (più espressivo linguisticamente di quello italiano)

giovedì 2 dicembre 2010

Donna Rosita nubile / Federico Garcia Lorcia

Ci sono delle cose che cominciano male e a quel punto l'operazione di recupero quasi sempre è difficile se non impossibile.

Potrei sintetizzare così la mia esperienza teatrale con Donna Rosita nubile, ovvero il linguaggio dei fiori di Garcia Lorca, attualmente in programmazione al Teatro Argentina a Roma per la regia di Lluís Pasqual.

La serata a teatro è iniziata con l'incontro con una "maschera" che non mi ha voluto lasciar entrare in platea (mezza vuota) con il mio casco da moto e mi ha costretto a posarlo al guardaroba (a pagamento). Posato il casco, ci riprovo e mi dice che lo spettacolo è iniziato (tipo da un secondo) e quindi non posso accedere alla platea. Mi tocca un palco, mentre le mie amiche si domandano che fine ho fatto...

Dunque, non un bel modo per cominciare la visione di uno spettacolo teatrale che subito si annuncia piuttosto impegnativo. La prima ora mi risulta particolarmente pesante. Allestimento scenografico classico, recitazione molto impostata, resa un po' grottesca, contestualizzazione ai minimi termini dal punto di vista storico-geografico, testo difficile da seguire, più che altro per quello che riguarda la comprensione dei ruoli e delle anime dei personaggi.

La storia in realtà è molto semplice: la giovane Rosita (Andrea Jonasson) è fidanzata con il cugino, che però deve partire per affari per le lontane Americhe, lasciandola in Spagna ad attenderne il ritorno e il compimento della promessa di matrimonio. In realtà, il giovane si sposerà con un'altra donna, ma l'ambiguità di lui, il silenzio delle persone che stanno intorno a Rosita (in particolare la zia) e l'atteggiamento di Rosita stessa, che sembra non voler sapere, la condanneranno a un'attesa di vent'anni e, infine, al disonore sociale e alla solitudine.

Le cose che non mi sono piaciute, fors'anche per ignoranza e limiti personali, oltre che per gusto, sono diverse: la non perfetta traduzione registica del testo teatrale che perde un po' di coerenza narrativa e di spessore per la difficoltà ad identificare le identità psicologiche dei personaggi; lo stile di recitazione un po' troppo artefatto (in particolare, l'accento della Jonasson, che in altre occasioni conferiva potenza alla recitazione, qui l'ho trovato un po' fastidioso); la sensazione di trovarsi di fronte a un testo e a una storia un po' datati, che certamente non dipende tanto dal testo in sé (visto che i sentimenti delle persone sono evidentemente senza tempo), ma forse dalla freddezza e dalla distanza del modo in cui il dramma di Rosita è messo in scena.

Dall'altro lato, diverse sono le cose che mi sono piaciute: il personaggio della governante (Giulia Lazzarini), che pur in maniera un po' macchiettistica è in fondo l'unica che trasmette un'umanità profonda e un ruolo affettivo preciso, ed usa un linguaggio più diretto e intellegibile; il monologo finale di Rosita, quello sì intenso e accorato, in cui la tensione e gli equilibri dell'ipocrisia borghese finalmente si sciolgono nella disperazione di una scelta che segna la vita; il dialogo tra la zia (Franca Nuti) e il signor Martin, personaggio un po' sbucato dal nulla, ma che suscita una certa qual "simpatia" nel senso etimologico del termine.

Mentre scrivo queste riflessioni capisco che ciò che probabilmente non riesco a comprendere sul piano culturale (e che mi rende questo testo lontano) è la rappresentazione di una società borghese, i cui principali tratti sono il contenimento domestico dei sentimenti, l'importanza delle forme e delle convenzioni sociali, l'accettabilità dell'apparire, la rigidezza delle strutture relazionali.
Forse per questo la governante è l'unica ad apparirmi reale e vicina, ma soltanto perché è la sola ad uscire dagli schemi e a potersi permettere di essere se stessa.

Certamente mi mancano numerosi elementi nel background culturale per dare un giudizio più pieno e motivato. Posso dire però che se l'intento di Lorca era quello di trasmettere un senso di malinconica asfissia, di rassegnata angoscia della costrizione, ebbene ci è riuscito appieno.

Voto: 2,5/5