venerdì 28 agosto 2009

Sabotaggio d'amore / Amélie Nothomb

Sabotaggio d'amore / Amélie Nothomb; trad. di A. Galli. Parma, Guanda, 2001.

Amélie Nothomb è una scrittrice nei confronti della quale nutro uno strano sentimento di amore/odio che a volte mi tiene lontana dai suoi libri, altre volte me li fa amare follemente (d'altra parte basta leggere le recensioni dei lettori ai suoi libri per capire che non sono l'unica...).
Il suo cinismo senza mezzi termini, il suo spirito corrosivo della realtà, la sua sensibilità sarcastica a volte mi risultano disturbanti rispetto al tentativo di preservare un piccolo spazio di ingenuità nella mia mente.
In questo caso, però, il racconto e la scrittura mi hanno completamente conquistata. Storia e riflessioni sono di una profondità e, al contempo, di una semplicità sconvolgente. Leggere questo libro è come incontrare delle verità che abbiamo sempre avuto dentro, ma che solo in alcune circostanze, come ad esempio quando uno scrittore le fa emergere dal profondo, ci risultano lampanti e a quel punto quasi banali.

La piccola protagonista di questa storia, che si svolge nel quartiere abitato dai diplomatici occidentali a Pechino nei primi anni Settanta, è un viaggio alla scoperta della Cina, del rapporto Oriente/Occidente, della dinamica adulto/bambino, del senso della guerra e della pace, della natura - a volte malata - dell'amore.
Entrare nella testa e nel corpo di questa bimba di sette anni, dotata di straordinaria creatività e intelligenza, alle prese con le prime sconvolgenti esperienze affettive, è una vera e propria seduta psicanalitica, durante la quale si soffre, si capisce, si ride, si impara, si sente. E così sentiamo la protagonista dire cose tipo:

"Il solo modo per smettere di soffrire è avere la testa completamente vuota. Il solo modo di vuotarsi completamente la testa è andare più velocemente possibile [...]" (p. 44)
"[...] penso che la bella Elena se ne fregasse della guerra di Troia, a un punto difficilmente concepibile. Non penso che ne ricavasse motivo di orgoglio: sarebbe stato fare troppo onore agli eserciti umani.
Penso che lei restasse infinitamente al di sopra di quella storia e che continuasse a guardarsi negli specchi.
Penso che avesse bisogno di essere guardata - e poco le importava che fossero sguardi di guerrieri o di pacificatori: dagli sguardi lei si aspettava che parlassero di lei, solo di lei, e non di quelli che glieli rivolgevano.
Penso che avesse bisogno di essere amata. Di amare no: non era nella sua natura. A ciascuno la sua specialità." (p. 11)
"[...] ogni eroe trova nel campo avverso il suo nemico designato, mitico, quello che lo tallonerà finché non l'abbia distrutto. E viceversa. Ma questa non è la guerra: è l'amore, con tutto l'orgoglio e l'individualismo che presuppone." (p. 113)

"Gli errori sono come l'alcol: ci si rende conto subito di aver ecceduto, ma piuttosto che avere l'accortezza di smettere per limitare i danni, una sorta di rabbia la cui origine è estranea all'ubriachezza obbliga a continuare. Questo furore, per quanto strano possa sembrare, potrebbe definirsi orgoglio: orgoglio di reclamare che, contro ogni logica, si aveva ragione a bere e a sbagliarsi. Persistere nell'errore o nell'alcol acquista allora il valore di argomento, di sfida alla logica: se mi ostino, vuol dire che ho ragione, checché se ne possa pensare. E mi ostinerò fino a che gli elementi non mi daranno ragione: diventerò alcolizzata, prenderò la tessera del partito del mio errore, nell'attesa di scivolare sotto il tavolo o di essere ignorata da tutti, con la vaga speranza aggressiva di far ridere il mondo intero, convinta che fra dieci anni, dieci secoli, il tempo, la Storia o la Leggenda finiranno per darmi ragione, il che del resto non avrà più alcun senso, visto che il tempo riscatta tutto, visto che ogni errore e ogni difetto ha il suo momento d'oro, visto che sbagliare è comunque sempre una questione di epoca." (p. 119)

Nella guerra d'amore che lei combatte, ignara delle motivazioni e delle conseguenze, vediamo quanto possano essere accecanti i sentimenti al punto da occultarci anche l'ovvio e l'evidente. Soffriamo, e al contempo ridiamo, di un esito scontato fin dal principio e riconosciamo dinamiche affettive che ci sono familiari.
Alla fine, ci intristisce il fatto che il passaggio all'età adulta si configuri come lo svelamento di una natura maligna (ma a quel punto priva di poesia) che forse da sempre ci portiamo dentro.

È questo pessimismo che ci scuote dentro e che non vogliamo accettare.
Si può essere cinici senza essere pessimisti? Si può essere realisti continuando a credere in qualcosa? Si può amare ancora dopo aver svelato la natura profondamente egoistica e individualistica di certi rapporti amorosi?

Voto: 4,5/5

martedì 18 agosto 2009

Il buio oltre la siepe / Harper Lee

Il buio oltre la siepe / Harper Lee; trad. di A. D'Agostino Schanzer. Milano, Feltrinelli, 2002.

Innanzitutto, è un libro che va contestualizzato. Scritto da Harper Lee (amica di Truman Capote, cui alcuni attribuiscono l'effettiva scrittura del romanzo), fu pubblicato la prima volta nel 1960 (il suo titolo originale è To Kill A Mockingbird) e vinse il Premio Pulitzer. Dal libro è stato tratto anche un film con Gregory Peck, che però ancora non ho visto e che mi si dice focalizzato sull'episodio centrale del romanzo, piuttosto che sul complessivo affresco della comunità di Maycomb.

Il contesto ci aiuta a capire la portata di un romanzo che parla di una famiglia che vive in Alabama formata da un padre avvocato, Atticus Finch, e due figli, un ragazzino di nome Jem e una bimba un po' maschiaccio che tutti chiamano Scout, e che pone al centro del racconto il processo contro il nero Tom Robinson accusato ingiustamente di violenza sessuale e difeso invano da Atticus.

Il fil rouge è dunque il tema della diversità, nelle sue diverse manifestazioni, quella più eclatante del razzismo dell'America di quegli anni, ma anche quella più strisciante nei confronti di tutto ciò che non si conforma ai modelli condivisi e dominanti in una comunità. E già solo questo basterebbe a fare del libro un classico da leggere a qualunque età.
Ma di più mi ha colpito un approccio alla scrittura che definirei di altri tempi, nella modalità con cui la forza delle idee - anche quelle piccole - si fa discretamente spazio nel libro squarciando le pagine con la potenza delle parole.

Sono una che fa le orecchie alle pagine (e non dovrei dirlo, visto che faccio la bibliotecaria!! Ma in questo caso il libro è di mia proprietà) e in questo caso basta dare un'occhiata alle sue condizioni per capire quante volte la scrittura mi ha colpito in profondità.

Giusto per avere un'idea, ecco alcune brevi citazioni che ho trovato particolamente significative:

"Se c'è una cosa che tuo padre possiede, è la grandezza d'animo. Una mira eccellente è un dono di Dio, un talento... oh, intendiamoci, bisogna esercitarsi per arrivare alla perfezione. Ma sparare non è come suonare il piano o cose del genere. Può darsi che egli abbia messo giù il fucile e non abbia più voluto sparare quando ha capito che Dio gli aveva dato un vantaggio eccessivo, direi quasi ingiusto sulla maggior parte degli esseri viventi." (p. 111)

"Avere coraggio significa sapere di essere sconfitti prima ancora di cominciare, e cominciare egualmente e arrivare fino in fondo, qualsiasi cosa succeda. È raro vincere, in questi casi, ma qualche volta si vince." (p. 127)

"Quasi tutti son simpatici, Scout, quando finalmente si riescono a capire." (p. 315)

Un libro che a distanza di quasi 50 anni continua a essere capace di far sorridere, riflettere, commuovere, indignare - anche nella sua apparente semplicità, che non è affatto semplificazione - è indubbiamente un gran libro.
Un libro che ci fa guardare al mondo con gli occhi della piccola Scout e davvero ci fa vedere gli adulti con le loro piccolezze e contraddizioni, ma anche con le loro grandezze, merita un'attenzione particolare.

Voto: 4/5

mercoledì 5 agosto 2009

La Grecia e le sue isole

Non ero mai stata in un'isola della Grecia... Numerosi anni fa avevo fatto il giro archeologico, di cui ricordo l'entusiasmo per le vestigia del passato e il grande caldo.
E invece, quest'anno, al seguito di un amico, ho avuto un primo assaggio delle mille isole greche. Prima tappa: Koufonissi, seconda tappa, Naxos.


Che dire? Basta guardare le foto per capire che in questi posti è ancora possibile (ma forse per poco!) ritrovare un angolo di paradiso. Certo Naxos è più adatto a chi cerca la movida e una maggiore varietà di stimoli, ma forse è per questo che noi "animali metropolitani" non l'abbiamo molto amata: di gente, confusione e stimoli ne abbiamo già troppi durante l'anno.

E invece Koufonissi, anzi per l'esattezza Pano Koufonissi (visto che c'è anche Kato, praticamente disabitata) è stata una vera scoperta. Un paesino piccolo piccolo, bianco e blu, quattro taverne, due supermercati, tre negozi di artigianato e di souvenir, e poi quattro spiagge meravigliose: quella del porto, Finikas, Fanos, Atlantida e Pori.

Mare cristallino, caraibico praticamente ovunque, calmo nonostante un vento che spira giorno e notte.
Una luce straordinaria che cattura l'occhio e l'obiettivo fotografico ad ogni angolo. Cucina non esattamente leggera, ma certamente gustosa.

Ovunque non troppa gente (a luglio però!), forse un po' troppi italiani per i miei gusti, ma anche moltissimi turisti locali e molti dal Nord Europa. Presenza di hippie del passato riconvertiti e di nuovi hippie innocui e folckloristici.

Certo, il turismo avanza anche qui e la nostra albergatrice ci dice che ci sono amanti dell'isola che non vengono più perché ormai è troppo urbanizzata e c'è troppa gente (figuriamo cosa doveva essere qualche anno fa!).

Le tipiche casette greche spuntano in ogni dove e nascono strutture ricettive poco adatte a un'isola che dovrebbe secondo me mantenere uno stile rustico e poco modaiolo.
Ma è inutile recriminare, sono gli inevitabili effetti collaterali della globalizzazione.
E certamente questo mio post (che presunzione!) non farà altro che contribuire alla perdita di verginità di questo luogo, attirando altri turisti ed altre curiosità.



Eppure, conservo la speranza che chi cerca certi posti ci vada non per cannibalizzarli e per farli diventare come casa sua, ma per respirarne l'aria e per vivere un momento di sospensione rispetto alla propria vita quotidiana.

Io una mia dimensione in questa vacanza l'ho trovata... e ho anche imparato a stare in silenzio, a guardare il mare, ad assorbire i colori, a non pensare al caos della vita e alle tempeste interiori.

Peccato che il ritorno abbia fatalmente interrotto la magia. Forse la cura greca dovrebbe continuare più a lungo per poter diventare stile di vita e naturale disposizione d'animo.

Ecco perché, con un po' di amici coltiviamo il sogno - non troppo segreto - di ritirarci insieme in un'isola greca e di poter cantare insieme Dancing queen dall'alto di una scogliera come questa! ;-))

martedì 4 agosto 2009

Scatti di guerra / Scuderie del Quirinale

Approfittando di un sonnacchioso pomeriggio agostano mi sono finalmente decisa ad andare a vedere la mostra di fotografia attualmente in corso alle Scuderie del Quirinale (aperta fino al 30 agosto).

La mostra Scatti di guerra, a cura di Marco Delogu e Umberto Gentiloni, è dedicata a due fotografi molto diversi, Tony Vaccaro e Lee Miller, accomunati dal fatto di aver documentato con le loro fotografie quella fase della seconda guerra mondiale che comincia con lo sbarco in Normandia.

Lo sguardo dei due è profondamente difforme.
Tony Vaccaro è un giovane soldato italo-americano che partecipa allo sbarco e che racconta poeticità e prosaicità della guerra, cercando - anche attraverso la sperimentazione di una nuova tecnica fotografica - di cogliere l'istante dell'espressione.
Elizabeth "Lee" Miller inizia la sua carriera come modella, diventando musa e compagna del grande artista e fotografo Man Ray e frequentando gli ambienti culturali più significativi dell'Europa dell'epoca. Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, riesce a partecipare, come corrispondente di guerra per conto dell'esercito americano, alle azioni militari che vanno dallo sbarco in Normandia alla scoperta dei campi di concentramento.

La mostra è ben allestita, collocando le foto dei due fotografi su due pareti affrontate, perché sia più evidente il confronto, sebbene in alcuni punti non sia del tutto chiaro a chi attribuire le fotografie.

Personalmente ho trovato il percorso interessante, sebbene una più approfondita contestualizzazione delle singole foto avrebbe certamente aiutato la lettura.
Da un lato ho scoperto la straordinaria figura di Lee Miller che non conoscevo, personaggio affascinante e che merita certamente qualche approfondimento.
Sul piano fotografico, mi hanno però emozionato soprattutto le foto di Vaccaro, di cui mi ha colpito lo sguardo giovane e ingenuo. Alla nitidezza ed estrema professionalità delle foto della Miller (pur interessanti) ho preferito la sgranatura e lo sfocato che caratterizzano molte foto di Vaccaro. Ma - è chiaro - sono gusti del tutto personali.

Consiglio dunque certamente la mostra sia a chi ama la fotografia (visto che di mostre fotografiche classiche e di buon livello non se ne vedono molte in giro) sia a chi ha un gusto più documentaristico e vuole leggere da un altro punto di vista questo importante pezzo di storia.

Solo un appunto finale: qualcuno dovrebbe dire ai responsabili delle Scuderie del Quirinale (ma la stessa cosa vale per il Palazzo delle Esposizioni, dove ero andata a vedere il - a mio parere - poco convincente Festival internazionale della fotografia), che non è possibile sottoporre i visitatori alla tortura di un'aria condizionata che richiederebbe una bella giacchetta pesante in piena estate ;-))
Impossibile godersi con calma foto (o installazioni) in queste condizioni!
Voto: 3/5

domenica 2 agosto 2009

La famiglia Winshaw / Jonathan Coe

La famiglia Winshaw / Jonathan Coe; trad. di Alberto Rollo. Milano, Feltrinelli, 1996.

Approfittando della mia ultima vacanza ho ripreso in mano un libro che mi è stato regalato circa una decina di anni fa, ma che non avevo mai avuto voglia di cominciare a leggere, nonostante Jonathan Coe mi piaccia e abbia adorato il suo libro La casa del sonno.
Mi ha convinto il sentore che si trattasse di una saga familiare e invece nel libro ci ho trovato molto molto di più.
In realtà, La famiglia Winshaw è, infatti, il ritratto di un paese, la Gran Bretagna, durante il periodo thatcheriano, e del suo processo di decadimento sociale e morale, ritratto che non riconosciamo come desueto, ma assolutamente e tristemente attuale.

Sul piano letterario, il romanzo riesce a tenere il lettore incollato alle pagine, grazie a una struttura narrativa in cui si intersecano passato e presente, e in cui i ritratti dei personaggi e gli eventi sono messi in connessione da indizi che l'autore lascia qua e là consentendo al lettore di riallacciare i pezzi della storia. Anche dal punto di vista dei generi, il romanzo ne propone diversi, presentandosi a tratti come romanzo biografico, a tratti storico, nonché thriller, horror e saga di costume.
Numerosissime le citazioni letterarie e cinematografiche: è la scena di un film a fare da filo conduttore alla storia e il titolo originale What a carve up! non è altro che il titolo di quel film (in italiano Sette allegri cadaveri).

Le invenzioni non mancano e il quadro complessivo tiene fino in fondo.
E Coe riesce a rappresentare, attraverso i Winshaw, che nel giro di un paio di generazioni conquistano tutte le posizioni di potere (politica, economia, media, sistema bancario ecc.), la degradazione di ogni valore, l'avidità e la ricerca del successo senza alcun tipo di scrupolo, la cui follia sarà il germe dell'autodistruzione.
Durante la lettura del romanzo si ride (e anche molto!), ci si commuove, ci si indigna e, infine, si teme - condotti per mano dall'autore - che non ci sia salvezza né riscatto per alcuno.

Non c'è ottimismo nel libro di Coe, solo catarsi senza gioia. Del resto, il libro non è solo il ritratto dell'epoca thatcheriana, ma quello di una generazione disillusa e disorientata e di un'età, l'età adulta (Coe aveva 34 anni quando pubblicò il romanzo), che segna la fine degli ideali, dei facili entusiasmi e della speranza di futuro.

Peccato che questo libro abbia avuto poco successo in Italia. Credo potrebbe essere ora di riscoprirlo e di riconoscerlo a tutti gli effetti come un grande romanzo.

Voto: 4/5