domenica 19 aprile 2009

Tutta colpa di Giuda

Bravo Davide Ferrario che ha trasformato quella che poteva essere l’ennesima storia di denuncia sociale dell’ennesimo lacrimevole e prevedibile film italiano in un’opera rock postmoderna che ci sa sorprendere.
E del resto già con Tutti giù per terra e Dopo mezzanotte Ferrario aveva dimostrato di possedere uno sguardo originale sulla realtà, a partire da un affetto tenero e sconfinato per la sua città, Torino.
La storia è molto semplice. Irena (Kasia Smutniak) è una regista di teatro sperimentale che viene chiamata a mettere in scena una rappresentazione teatrale con i carcerati di una sezione sperimentale del carcere Le Vallette di Torino. Prima le sarà imposto, poi sceglierà di rappresentare la Passione di Cristo, lei non credente e quindi portatrice di una visione critica, originale, molto umana e a tratti dissacrante.
La postmodernità di questo film è nella fusione e nella mescolanza che ne impregnano ogni aspetto: gli attori professionisti si mescolano ai veri detenuti, la rappresentazione teatrale alla realtà, il documentario alla fiction, il balletto al recitato, la telecamera a mano a quella tradizionale, l’immaginazione all’azione, la fotografia al girato, la musica contemporanea e i suoi vari generi a quella classica, l’ironia alla serietà, il rumore al silenzio.
Bello e intenso anche il tema di fondo, quello della libertà e delle sue ambigue relazioni con la sofferenza e la felicità, ma anche quello del senso della religione e della religiosità. La libertà è sinonimo di vita, e dunque l’antitesi dell’indifferenza e dell’assenza di emozioni che solo la morte può giustificare, ma che in alcuni casi viene imposta anche ai vivi, come accade nel carcere.
Interessante il personaggio di Libero (Fabio Troiano), il direttore napoletano del carcere, a tratti disincantato e cinico, a tratti profondo e sensibile. Sono sue – secondo me – alcune delle migliori battute della sceneggiatura di questo film, come quando, parlando dei detenuti, dice che loro sono costretti “a fare il morto” (come si fa per galleggiare in acqua senza nuotare) allo scopo di sopravvivere e la loro sofferenza è proprio in questa insanabile contraddizione.
E quando Irena gli chiede se, quando si parla di passione, lui non pensi più naturalmente all’amore piuttosto che alla sofferenza, risponde: «Beh, in fondo non sono un po’ la stessa cosa?».
Così, nel tono leggero della “commedia musicale”, pur tra qualche ingenuità e qualche personaggio non del tutto riuscito, ne viene fuori un quadro vivace e stimolante in cui si ergono, allo stesso livello, gli attori non professionisti accanto a quelli veri.
Su tutto si staglia l’idea di un carcere che – come dice il direttore e come viene fuori dalla storia – serve molto più a chi sta fuori come simbolo di controllo sociale che a chi sta dentro, alla cui vita viene tolta qualunque parvenza di senso.
Il tutto ci fa pensare a quante forme di carcere viviamo, a quante mancanze di libertà accettiamo, a quante “passioni” incarniamo, costretti continuamente nella nostra vita a scegliere, quasi sempre purtroppo dolorosamente.
Un’ultima annotazione tecnica: peccato per il suono in presa diretta, che a volte, nel voler rispettare i dati di contesto, finisce in molti casi per produrre un audio di qualità scadente e rende alcuni dialoghi quasi incomprensibili.
Notevole la colonna sonora, che probabilmente meriterebbe una recensione a parte.
Voto: 3,5/5

martedì 14 aprile 2009

Sotto i venti di Nettuno / Fred Vargas

Fred Vargas, Sotto i venti di Nettuno. 2° ed. Torino, Einaudi, 2008

Ho amato questo romanzo della Vargas quasi quanto il mio preferito Parti in fretta e non tornare.
Mi è piaciuta innanzitutto l'ambientazione, a cavallo tra la Francia e il Canada, e il confronto tra l'atteggiamento mentale e culturale dei francesi di Francia e i quebecchesi di lingua francese, con tutte le difficoltà che il traduttore della Vargas deve aver incontrato per rendere in italiano le differenze linguistiche tra questi due gruppi e il portato culturale che queste differenze comportano.
Ho amato i personaggi, la grandezza del tenente Violette Retancourt, la bontà dell'agente quebecchese Sanscartier, e su tutti il confronto a distanza tra il fedele vice Adrien Danglard e il suo commissario Jean-Baptiste Adamsberg.
Due personaggi che nella loro diversità fanno scintille, ma rappresentano, al contempo, le due facce, inscindibili, della stessa medaglia: il logico e colto Danglard e lo “spalatore di nuvole” Adamsberg.
Ma soprattutto mi ha toccato profondamente questo caso che vede Adamsberg a confronto principalmente con se stesso, con i suoi fantasmi, con i suoi demoni interiori, con i suoi pregiudizi e le sue paure.
Di solito il commissario è un personaggio che sento distante da me per la sua tendenza ad affidarsi non alla logica, ma all'intuizione, alla divagazione mentale, ai collegamenti arditi, alla meditazione apparentemente priva di senso, all'ozio creativo. Adamsberg è l'uomo dei tempi lunghi, delle lunghe pause, dei distacchi e dell'indifferenza, dell'almeno appartente assenza di emozioni.
E invece per una volta il nostro commissario si ritrova in balia dei suoi pensieri ossessivi, incapace di comprendere e accettare le verità più semplici, in preda a reazioni istintive e incontrollate, affondato in una melma immobile che si nasconde sotto la superficie tranquilla delle acque del lago.
E questo Adamsberg vulnerabile, senza pelle, capace di ammettere almeno la possibilità dell'errore, inconsapevolmente geloso della donna che lui stesso ha lasciato, lo sento così vicino e profondamente affine a me, in particolare in questa fase della mia vita in cui certe volte ho la sensazione che tutto irrimediabilmente mi sfugga di mano.
La Vargas dissemina il romanzo di metafore e riflessioni davvero illuminanti che io, come il confuso Adamsberg, cerco di afferrare e di non farmi scivolare tra le dita.
E così non posso non apprezzare dialoghi come questo:
«- Perché cerca quel passaggio se è stato lei stesso a chiuderlo?
- Non lo so. Forse perché da lì viene l'aria, e senza aria si rischia l'asfissia o l'esplosione.»
E quanto è bella la metafora del giaccone reversibile che è davvero come la vita: «Dal lato nero sei ben riparato, e la neve e l'acqua ti colano addosso senza che te ne accorgi. E dal lato azzurro ti vedono bene sulla neve ma non è impermeabile. Ti puoi bagnare. Allora a seconda dell'umore, certo momento lo metti in un senso, certo momento lo metti in un altro.»
Come Adamsberg, trovo difficile in questo momento fare i conti con i miei pensieri e ho bisogno di trovare dei punti di riferimento stabili che mi permettano di sorreggermi:
«Uno crede che i propri pensieri sbiadiscano e invece sono piantati lì, in piena fronte, in tre fori allineati.»
«Penso che anche se uno è perso deve trovarsi un posto suo. Io ho scelto questa pietra.»
Perché i gialli della Vargas sono così: con la scusa di un caso di polizia sono lezioni di vita, viaggi interiori e occasioni di riflessione cui non è possibile sottrarsi.
Voto: 4/5

lunedì 6 aprile 2009

Louise-Michel

La storia di questo film è piuttosto semplice da raccontare. In una cittadina della Piccardia, una regione della Francia settentrionale molto vicina al Belgio, una fabbrica viene chiusa all'improvviso lasciando tutte le dipendenti in mezzo a una strada. Una gruppo decide di utilizzare i soldi dell'indennizzo per assoldare un killer professionista allo scopo di uccidere il manager che le ha fatte licenziare. Si incarica di trovare il killer Louise (Yolande Moreau), un donnone dai modi piuttosto brutali, che per una serie di circostanze finisce per rivolgersi al più improbabile degli assassini, Michel (Bouli Lanners).
Ma non vi aspettate un film realistico, nè una tipica commedia francese di denuncia sociale, nè un drammatico film di attualità.
Louise-Michel è un film che viaggia sui binari del surreale e del grottesco, la cui cinica ironia ha una chiara ascendenza nordica, rimescolata - come giustamente ha osservato il mio amico M. - in chiave almodovariana.
In questo film tutto è realizzato per spiazzare, dall'antefatto iniziale privo di un reale collegamento narrativo con il resto del film, alla scelta di temi tutti politicamente scorretti: la confusione di genere e lo scambio dei ruoli sessuali, malati terminali al servizio delle peggiori efferatezze, lo sfruttamento degli immigrati, la ridicolizzazione delle mode biologiche, le ipotesi di complotto e le teorie cospirative in bocca a un pazzo, la perdita di senso della morte, la parodia della guerra.
Il cattivo gusto impera sovrano, ma su tutto questo si riesce a ridere di gusto quasi dall'inizio alla fine del film.
I due protagonisti sono due ridicoli antieroi da tutti i punti di vista. Louise - come qualcuno ha ben detto - è la personificazione di Fiona, l'orchessa compagna di Shrek, brutta, greve e cinica come forse non si era mai visto al cinema. Michel è patetico e vigliacco nella maniera peggiore che si possa immaginare. Eppure entrambi i personaggi ci catturano e finiscono per ispirarci tenerezza e per farci sentire dalla loro parte.
E in questo delirante collage di cinico, surreale, grottesco e politicamente scorretto passano tante verità che un cinema più didascalico non sarebbe mai in grado di veicolare.
Una menzione particolare alle musica e soprattutto alla fotografia. Era davvero molto tempo che non vedevo così tante straordinarie inquadrature in un unico film che pure non dispone di paesaggi mozzafiato e di attori di belle fattezze, a dimostrazione che la fotografia può rendere soggettivamente poetico anche il più prosaico dei mondi.
E se a fine film vi chiederete chi è la Louise Michel di cui vi viene mostrata la foto sbiadita alla fine del film la risposta la trovate qui.
Infine, se lo andate a vedere, abbiate pazienza e aspettate fino all'ultimo dei titoli di coda, perché il film vi riserverà una piccola sorpresa.
Non posso dirvi altro perché il film contiene molto di inspiegabile e inspiegato e molto che trova spiegazione ma che, proprio per questo, non sarebbe giusto rivelarvi.
Voto: 4/5

domenica 5 aprile 2009

Gran Torino

Sarò certamente in controtendenza (ma quando mai non lo sono?!?); d’altra parte, pur apprezzando le molte qualità dell’ultimo film di Clint Eastwood la sensazione che ne ricavo è molto simile a quella che ho provato di fronte a Million dollar baby e a numerosi altri film del grande vecchio americano: un impianto narrativo meccanico, in cui tutto si sviluppa secondo un ordito ben preciso e preordinato e dove anche il colpo di scena è in buona misura prevedibile. Una specie di apologo dai risvolti volutamente didascalici e il cui impianto è costruito talmente bene da implicare inevitabilmente per lo spettatore il sorriso, la tenerezza, la risata, la commozione.
Ed è per questo che dopo aver visto i film di Clint Eastwood esco sempre dalla sala con un senso di parziale delusione e quasi frustrazione, perché mi sarei aspettata una sfida emotiva e intellettuale e invece tutto mi viene presentato in maniera assolutamente piana e comprensibile. Ed è questo contrasto tra il mondo cinematografico eastwoodiano nel quale non tutto è perfetto (anzi, non mancano la violenza e i cattivi sentimenti), ma tutto è fondamentalmente chiaro e senza particolari sfumature, e il mondo reale, in cui niente è come sembra, tutto è sfumato, nessuno è univocamente interpretabile, che mi indispone.
Ciò detto, la storia che Clint racconta in questo film è interessante e apprezzabile ed è soprattutto l’anziano Clint attore, con le smorfie del suo viso, la sua pelle rugosa, il suo linguaggio colorito, a dare spessore e valore al film.
Il vecchio Walt è un reduce della guerra di Corea che si porta dentro una ferita lacerante e che poco si trova a suo agio in un’America profondamente mutata, nei costumi, nella composizione etnica, nei valori, negli stili di vita. Walt, che ha da poco perso sua moglie e non ha nulla in comune con quella media borghesia insignificante che i suoi figli rappresentano, convive a fatica con i vicini asiatici e in generale gli immigrati di ultima generazione (lui che a sua volta con un cognome come Kowalski è certamente figlio del melting pot americano e grande amico di un barbiere di origine italiana).
La sua Gran Torino, un modello sportivo della Ford anni ’70, resta per lui l’emblema del tempo che fu, intoccabile, perfetta, curata e preservata fino a individuare qualcuno che sia sufficientemente degno di questa eredità.
Sarà infine proprio il suo vicino asiatico, il giovane Tao (Bee Vang), a dargli la possibilità del riscatto della sua vita e di un’America ancora capace di rinascere dalle sue ceneri.
È inevitabile il collegamento mentale con il film dei fratelli Coen, Non è un paese per vecchi, che portava benissimo sullo schermo la disillusione e l’approccio conservatore del romanzo di Cormack McCarthy. Anche lì lo sguardo di un vecchio americano conservatore non può che portare alla luce l’immagine di un’America il cui tessuto sociale è disgregato, in cui la conflittualità etnica - e non solo - è ai massimi livelli, in cui i valori morali si sono dissolti e il male regna sovrano.
La differenza sta nella prospettiva: assente nel film dei Coen, totalmente ripiegato su un pessimismo senza vie d’uscita; possibile – sebbene a caro prezzo – nel film di Eastwood attraverso la comprensione dell’universale principio che violenza genera violenza e, in un mondo privo di regole, anche la violenza finisce per essere incontrollata e incontrollabile.
Eppure, anche in questo caso, per quanto catartico e liberatorio sia il finale eastwoodiano, finisco per preferire l’irrisolutezza e la mancanza di redenzione dell’approccio di McCarthy; preferisco un cattivo che quasi ci affascina agli odiosi bulletti di periferia, preferisco la morte insensata a quella sacrificale. Perché ci piacerebbe che la vita ci offrisse sempre la possibilità di un riscatto, ma ho la sensazione che il non senso sia spesso la più forte chiave interpretativa della realtà.
Voto: 3,5/5