venerdì 27 febbraio 2009

La trilogia Millennium di Stieg Larsson

Stieg Larsson, Uomini che odiano le donne, trad. di Carmen Giorgetti Cima. Venezia, Marsilio, 2007.

Id., La ragazza che giocava col fuoco, trad. di Carmen Giorgetti Cima. Venezia, Marsilio, 2008.

Id., La regina dei castelli di carta, trad. di Carmen Giorgetti Cima. Venezia, Marsilio, 2009.

I volumi che compongono questa trilogia sono praticamente già leggenda, in particolare dopo che il loro autore Stieg Larsson è morto di infarto non appena terminata la stesura dell'ultimo volume.
La trilogia, proprio in quanto tale, non è come i volumi di Mankell sull'ispettore Wallander o quelli di Fred Vargas sull'ispettore Adamsberg (sto per leggere Sotto i venti di Nettuno), che pur avendo un filo conduttore si possono tranquillamente leggere non nell'ordine in cui sono stati scritti.
Questi volumi, invece, richiedono una lettura sequenziale e costituiscono le tre parti di un'unica storia di oltre 2.000 pagine. Si può rimanere terrorizzati di fronte alla prospettiva di affrontare tre tomi di tale portata, ma vi assicuro che le dimensioni non rappresenteranno certamente un ostacolo (forse invece i nomi dei personaggi e dei luoghi in svedese invece sì).

La storia tocca un certo numero di generi; semplificando potremmo dire che il primo volume è primariamente un giallo, il terzo un poliziesco incentrato sui servizi segreti, il secondo una via di mezzo tra i due. In tutti e tre i volumi al centro della storia ci sono principalmente due personaggi, Lisbeth Salander, probabilmente il principale motivo del successo di questi romanzi, e Mikael Blomqvist, attorno ai quali ruotano numerosi comprimari, alcuni dei quali ben delineati e che in certi casi producono veri e propri spin-off interni alla storia che poi si riagganciano al tema centrale.
Non si può certo passare sotto silenzio che i romanzi soffrono, in certi momenti, di una fastidiosa ridondanza e prolissità e che praticamente tutti e tre fanno fatica a decollare nella lettura prima di 100 pagine. Non si tratta di capolavori letterari, sicuramente si può parlare di letteratura popolare e forse è anche per questo che piace molto di più a chi legge tendenzialmente poco piuttosto che a chi è un accanito divoratore di libri.
Eppure, Millennium ha dei tratti di originalità che lo rendono particolarmente interessante, e probabilmente questi tratti hanno a che fare con i personaggi, realistici e irreali, capaci di suscitare antipatia e amore allo stesso tempo.

Lisbeth è un personaggio che molti vorrebbero incontrare e che tanti sono convinti che esista veramente da qualche parte. Donne e uomini non possono fare a meno di innamorarsi di lei leggendo questo libro e di sentirne la mancanza dopo averne terminato la lettura.
Mikael è un amico e un amante cui molti si legherebbero, nonché un giornalista come vorremmo ce ne fossero.
Io personalmente ho amato in modo particolare il secondo volume della serie, quello incentrato su Lisbeth e che più degli altri mi ha tenuto incollata alla lettura. Il primo l'ho trovato avvincente, il terzo un po' più debole, ma pur sempre interessante.
In attesa di vedere materializzarsi sullo schermo cinematografico Lisbeth Salander (è in uscita in Svezia il film tratto dal primo volume e qui e qui potete vedere il trailer) e sperando di non restarne delusi, vi invito a farvi prendere dalla febbre di Millennium, abbandonando per un po' gli snobismi intellettuali e riscoprendo un po' di infantile piacere per le storie e gli intrighi. Buona lettura!!!

Voto: I volume 4/5; II volume 4,5/5; III volume 3/5

giovedì 26 febbraio 2009

Il Museo Nazionale del Cinema di Torino

Nel weekend torinese la mia prima tappa non poteva che essere il Museo Nazionale del Cinema che da quando ho visto il film Dopo mezzanotte con Giorgio Pasotti e Francesca Inaudi non vedevo l'ora di vedere. Il film, carino e ben fatto, è infatti come un gigantesco spot del Museo ospitato nella Mole Antonelliana, e ce ne fossero di spot di tale qualità...
Il piano di ingresso del Museo è una presentazione interattiva dei segreti dell'ottica che sono alla base della tecnica cinematografica e della storia del cinema dalle origini ai giorni nostri. La rampa elicoidale che di solito ospita manifesti e foto di scena non era accessibile causa allestimento di una mostra su Rodolfo Valentino. Il piano superiore si concentra sui vari soggetti e oggetti del cinema, i produttori, i registi, gli attori, le scenografie, i costumi.
La piazza centrale della mole è invece un'enorme cinema in cui ci si può comodamente sdraiare (letteralmente) in poltrona e sentire dalle casse personalizzate l'audio senza disturbare i vicini. Tutt'intorno ricostruzioni di un laboratorio per la lavorazione dei film e di ambientazioni cinematografiche classiche, la casa americana anni 50, la taverna del vecchio West, la casa dell'orrore, la sala anni 20 e così via...
Tutto questo sviluppato attraverso un approccio innovativo e affascinante in cui il visitatore non è soltanto uno spettatore, ma è protagonista, in quanto coinvolto in una serie di esperienze interattive attraverso le quali tocca con mano le cose e comprende dall'interno i fenomeni. La visita nel museo comunica un grande senso di libertà, non ci si sente di disturbo in un tempio laico, ma parte dello spettacolo. E investiti della massima fiducia in tutto il percorso.

La visita termina degnamente con l'ascesa, mediante l'ascensore di vetro che attraversa tutta la Mole, alla terrazza panoramica che offre una vista mozzafiato sulla bellissima città di Torino e sulle sue splendide colline.
Alcuni manifesti pubblicitari in giro per la città recitano "Torino è sempre + bella" e, tutto sommato, mi pare davvero così...
Voto: 4/5

mercoledì 25 febbraio 2009

La notte degli Oscar


Ed eccoci qui a smaltire la sbornia della notte degli Oscar e delle sue statuette.
Per una volta è andata quasi esattamente come avrei sperato... Credo che The millionaire meriti le 8 statuette che ha vinto e non ritengo - come qualcuno ha ipotizzato - che la vittoria sia solo legata al vento Obama che spira negli Stati Uniti e all'ottimismo che caratterizza la pellicola (ottimismo che sinceramente mi pare una lettura superficiale del film e dei suoi contenuti).
Peccato che Frost/Nixon non sia riuscito a portare a casa nulla, nemmeno una statuetta consolatoria, ma la concorrenza era veramente forte.
Sono contentissima per la vittoria di Sean Penn, checché ne dica Mark Kermode della BBC. Io ho trovato la sua interpretazione magistrale e secondo me andava premiata più di un risorto Mickey Rourke che in qualche modo si è solo limitato a esporre il suo corpo trasformato.
Altrettanto contenta per Kate Winslet; non ho ancora visto The reader (ma rimedierò al più presto; ecco qui la mia recensione), però quest'attrice la trovo sempre ad altissimi livelli. Certo Meryl Streep era una degna avversaria, però credo che in questa circostanza fosse giusto dare la precedenza alla Winslet. E, con un leggero sadismo, bene che non abbia vinto Angelina Jolie, che personalmente non posso fare a meno di sentire costruita e artefatta.
Per quanto riguarda gli attori non protagonisti, l'omaggio a Heath Ledger tutto sommato era dovuto e, a parte Philip Seymour Hoffman, non vedevo concorrenti; invece, pur apprezzando la scelta di Penelope Cruz, sono curiosa di vedere Marisa Tomei in The wrestler sulla cui interpretazione ho sentito meraviglie.
Non oso immaginare cosa sia il film Departures, miglior film straniero (che ha prevalso su Valzer con Bashir e La classe, tra gli altri), che a questo punto, nonostante qualche avversione alla cinematografia giapponese, spero di riuscire a vedere.
Grandissimo Wall-e che non aveva concorrenti come miglior film d'animazione, anzi personalmente avrei addirittura sperato in qualcosa di più per questo film straordinario.
Invece, d'accordo nell'aver relegato Il curioso caso di Benjamin Button ai premi di consolazione sul trucco e gli effetti visivi, che mi sono sembrati gli unici aspetti veramente degni di nota nel film.
E ora tutti ad ascoltare la colonna sonora di The millionaire.

martedì 24 febbraio 2009

Quando l'immigrazione produce


È ancora in corso (fino all'1 marzo) al Museo di Roma in Trastevere la mostra fotografica dal titolo "Quando l'immigrazione produce", lavoro collettivo di 16 giovani fotografi alle prese con 8 storie di immigrati a Roma, il loro background, le loro occupazioni e i problemi della loro integrazione.
Le foto, organizzate in parte biograficamente in parte tematicamente, intendono raccontare delle storie di persone, inserendole di tanto in tanto in questioni di contesto, i rapporti con la religione, con la musica, con le tradizioni.
Il progetto è certamente lodevole nella misura in cui dà un volto e una specifica collocazione a un'immigrazione di varia provenienza geografica che i media tendono normalmente ad appiattire di fronte alle urgenze della cronaca e alla banalizzazione necessaria per identificare sempre un nemico.
Sul piano puramente fotografico, ho avuto la sensazione di una certa discontinuità, dovuta certamente al numero dei fotografi coinvolti, ma anche a una ricerca quasi esasperata dei tratti di quotidianità, che in molti casi ha tolto respiro alle foto. Alcuni scatti mi sono dunque sembrati di grande interesse e dotati di una qualità elevata sul piano della tecnica e dell'invenzione fotografica, però la maggior parte delle fotografie scivolano via senza catturare l'attenzione dello spettatore.
Non c'è dubbio che l'attenzione sia stata posta sul significato d'insieme, ma anche in questo caso la mostra non è indenne da elementi di retorica e semplificazione.
In ogni caso, tutta la nostra riconoscenza di appassionati di fotografia va al Museo di Roma in Trastevere che è una delle poche realtà capitoline (cui si è affiancato negli ultimi mesi il Palazzo delle Esposizioni) che dedicano costantemente spazio alle mostre fotografiche, altrimenti del tutto trascurate nella capitale.
Voto: 2,5/5

domenica 15 febbraio 2009

Il curioso caso di Benjamin Button


Ebbene, 13 nominations mi sembrano veramente eccessive... Sul piano della tecnica cinemtografica e dei prodigi che la tecnologia permette oggi di compiere non v'è dubbio che si tratti di un film di grande interesse (sebbene c'è decisamente qualcosa di forzato nel personaggio di Benjamin quando ha 7 anni ma ne dimostra 80)... e quindi ok alle candidature di carattere tecnico e probabilmente da questo punto di vista il film merita di sbaragliare gli avversari che certamente non hanno osato così tanto.
Però, candidare David Fincher per questa regia dopo che ci ha regalato film come Seven, Zodiac e soprattutto lo straordinario Fight Club sinceramente mi sembra davvero fuori luogo; è proprio come se Hollywood premiasse i registi quando fanno prodotti mainstream, penalizzandoli invece quando si avventurano su terreni più impervi...
I temi affrontati sono certamente interessanti (la fugacità del tempo, la fatalità del destino, l'imperscrutabilità delle infinità possibilità della vita, il senso dell'esistenza), ma tutto sommato non rappresentano nulla di nuovo, né l'idea che sta a fondamento del film (una vita vissuta al contrario) è realmente originale, visto che lo stesso racconto di Francis S. Fitgerald si ispirava ad una frase di Marc Twain e almeno una volta nella vita ciascuno di noi si è chiesto come sarebbe vivere al rovescio...
Gli attori sono certamente notevoli, ma - a mio parere - meglio Cate Blanchett che Brad Pitt, eppure il candidato all'Oscar è quest'ultimo.
Bella l'idea di raccontare una fetta di storia americana attraverso la vicenda favolistica, e per certi versi dunque quasi esemplare, di questo personaggio, ma anche quest'idea non è nuova, visto che l'aveva fatto già un po' di tempo fa lo stesso sceneggiatore con Forrest Gump.
E la colonna sonora è certamente d'impatto, ma quella di The millionaire è decisamente di un altro livello e certamente meno convenzionale.
Infine, la storia d'amore è affascinante e i due attori sono una coppia eccellente, però alla fine non risulta trascinante né realmente commovente.
Insomma, non è che non mi è piaciuto affatto. Il film ha molti meriti e va visto, ma certamente mi indispettisce il clamore che ha suscitato e che mi pare sinceramente eccessivo.
Voto: 3/5

La caccia


Tratto da un episodio de Le Baccanti di Euripide, La caccia è uno spettacolo teatrale che molto deve alla straordinaria bravura di Luigi Lo Cascio, unico attore sul palco e regista.
Lo spettacolo si caratterizza per una piacevole originalità ed elementi di grande modernità, in quanto alterna a monologhi da teatro classico, proiezioni sul fondale nero che inglobano quanto avviene sulla scena e sono parte integrante della storia, brevi interruzioni con proiezioni su schermo televisivo e la presenza di un attore-bambino che compare solo in immagini filmate ma interagisce con il protagonista.
Lo spettacolo ha un'atmosfera onirica che avvolge lo spettatore e lo trascina prima nella pazzia poi nel triste destino del protagonista, Penteo, tiranno di Tebe.
Le componenti dello spettacolo, diverse sul piano dei registri linguistici e degli strumenti di comunicazione e apparentemente slegate o discontinue, sono in realtà tenute insieme da un filo conduttore, che è chiaro solo alla fine: la seduzione.
La caccia è una metafora della seduzione nella quale anche quando pensiamo di essere noi i cacciatori ci accorgiamo spesso di finire per diventare delle prede... La seduzione è un potente magnete che ci richiama in mille modi diversi, la curiosità del nuovo, la promessa della felicità, la ricerca del benessere, la fascinazione del potere... E altrettanto magnetico è Luigi Lo Cascio con la sua voce suadente, il suo sguardo allucinato, il suo corpo sinuoso, la sua capacità di trasformazione.
E tutto questo attraverso il linguaggio antico della tragedia greca, che si fonde e confonde con la modernità banalizzante del linguaggio pubblicitario.
Lo spirito critico e la lucidità non sono mai sufficienti in un mondo di cacciatori e prede. State all'erta!
Voto: 4/5

sabato 14 febbraio 2009

Anthony and the Johnsons, The crying light


Disco potente quello di Anthony and the Jonhsons, The crying light.
L'ho comprato lunedì e nel corso di questa settimana devo averlo ascoltato almeno una quindicina di volte, senza mai annoiarmi.
Eppure non si può certo dire che si tratti di musica ruffiana ed orecchiabile. Però, Kiss my name (il mio brano preferito) mi continua a risuonare nella testa come un mantra.
Il CD ha una coerenza e compattezza notevoli e trascina inevitabilmente l'ascoltatore nel suo lirismo e nella sua vena quasi epica fino a conquistarlo.
La voce di Anthony è magnetica, gli archi e il flauto danno rispettivamente respiro e intimità alla musica, le dissonanze e le brusche interruzioni producono movimento e rendono tutto meno scontato.
Una parola per la copertina: dopo aver ascoltato il il cd più e più volte posso dire che la copertina rende perfettamente il contenuto, un lirismo distorto e a tratti inquietante. Leggo che si tratta del ballerino Kazuo Ohno, cui è dedicato il cd.
A questo punto non mi resta che comprare il precedente cd I am a bird now.
Voto: 4,5/5

giovedì 12 febbraio 2009

Frost / Nixon: Il duello


Il film è molto bello, nonostante il fatto che la seconda metà sia interamente giocata sul duello verbale (e non solo) tra David Frost e Richard Nixon, e quindi praticamente recitata da soli due attori. Gli attori principali, Michael Sheen e Frank Langella sono a dir poco strepitosi e anche i comprimari se la cavano splendidamente. E tanto più per questo mi sarebbe piaciuto vedere il film in lingua originale, perché probabilmente si sarebbe potuta apprezzare di più la recitazione.
Come spesso mi accade, alla fine del film ne vedo chiaramente i due livelli di lettura:
- quello apparentemente documentaristico che racconta come un presentatore di talk show riuscì a far ammettere a Nixon le sue colpe riguardo al Watergate, dando una risposta alla forte protesta suscitata nel popolo americano dalla vicenda e dal fatto che Nixon era stato istituzionalmente perdonato e non aveva dovuto subire alcun processo (evidentemente, la vicenda richiama, più o meno esplicitamente, similitudini ed eventi della recente storia americana);
- quello più sottile del ruolo della televisione, della spettacolarizzazione della politica e del potere, della seduzione politica e mediatica.
Ovviamente, mi interessa molto di più questo secondo livello di lettura, esplicitato nell'ultima parte del film dalla testimonianza di James Reston Jr (Sam Rockwell), e confortato da quanti dicono che in realtà l'ammissione di Nixon fosse stata addirittura da lui concordata con Frost in cambio di una percentuale degli enormi guadagni che l'intervista fruttò.
Mi ha colpito il fatto che, nonostante l'enormità di quello che aveva fatto il Presidente, l'intervista - spesso proposta allo spettatore attraverso la telecamera della troupe televisiva (classico esempio di meta-cinema)- susciti progressivamente pietà e quasi commozione per quest'uomo che accetta di fornire delle pubbliche scuse per i suoi errori. L'espressione di Nixon/Langella, il suo primo piano nella telecamera è quella propria di un attore che deve esprimere contrizione...
Insomma, Frost ha vinto il duello, oppure non sarà che Nixon ha realizzato con questa intervista il suo massimo capolavoro sfruttando la televisione e il suo potere per dare una diversa immagine di sé? Forse, Nixon, dandosi in pasto al popolo americano ha esercitato la sua ultima grande seduzione... e ha potuto ritirarsi - ancor più sereno - nella sua Casa pacifica in California.
Non so, probabilmente mi manca qualche elemento di lettura: il rapporto del popolo americano con il loro presidente (credo senza paragoni in altri stati occidentali), il clima che si viveva in quegli anni, il grado di effettiva portata dell'opposizione a Nixon, il significato del Watergate, il rapporto che si andava creando in America tra televisione e politica...
Ma il film è bello perché ci fa riflettere su tutto questo. E la telefonata notturna tra Frost e Nixon (che mi chiedo se sia fiction o realtà) è un monologo straordinario e che fa saltare in piedi sulla sedia.
Un bravo quindi anche a Ron Howard, che alterna grandi prove registiche a scelte non esattamente condivisibili.
Voto: 3,5/5

martedì 10 febbraio 2009

Lisbona together



Ed eccoci a Lisbona, una strana compagnia, che ha molte forme e molte formazioni. Si aggrega e si disperde all'occorrenza, ma dimostra una grande e inaspettata coesione all'insegna della libertà e del divertimento.
Bella questa città che mi dà la possibilità di fare uno dei servizi fotografici di cui vado finora più fiera... forse sono migliorata io, oppure la compagnia e la città mi ispirano...
Varia questa città che ci mostra il suo lato luminoso sabato e quello cupo domenica, ma che non finisce di stupirmi.
Mossa questa città che ci fa andare su e giù per Chiado, Alfama, Baixa , Rossio e Bairro Alto, a piedi, con le funicolari, con i piccoli tram gialli... Che bella sensazione di stanchezza e di pace!
E poi ce n'è per tutti i tipi e per tutti i gusti:
- prima l'incidente ispano-portoghese brillantemente risolto da parte spagnola, grazie anche all'educazione portoghese;
- poi i pasteis de Belem... mai ci fu cosa più buona...
- e l'infinita ironia e le risate di cuore
- e il sentirsi incredibilmente a casa.
Grazie a tutta la compagnia! E al prossimo vagare "non inquieto"...

mercoledì 4 febbraio 2009

The Millionaire


Innanzitutto, perché non "Slumdog millionaire" come il film si chiama nella versione originale? Avrebbe reso meglio il forte contrasto tra la provenienza del protagonista, Jamal, e il suo straordinario successo al programma "The millionaire".
Dal regista di Trainspotting, Danny Boyle, ex ragazzo cattivo del cinema ora candidato all'Oscar per questo film, la storia di un giovane indiano che partecipa a "Chi vuol esser milionario" e stravince. La storia è tratta dal romanzo di Vikas Swarup, Le dodici domande (nell'originale Q&A), pubblicato in Italia da Guanda.
Due le cose più straordinarie di questo film:
1. Dev Patel, l'attore inglese giovanissimo che interpreta Jamal, la cui aria innocente e un po' triste è assolutamente imperdibile (per inciso, l'attore pur essendo di origine indiana, non era mai stato in India prima di girare il film; è stato scelto dal regista per la sua aria da perdente, che lo rende diverso dagli attori di Bollywood, bravissimi ma tutti con uno stile da eroi);
2. l'uso della struttura narrativa e di alcuni stereotipi tipici del cinema bollywoodiano allo scopo di capovolgerli completamente per raccontare sì una storia d'amore contrastato (con lieto fine), però mostrando le tante facce dell'India e le sue infinite contraddizioni. Non si fa a meno dei balletti, delle musiche e di alcune atmosfere bollywoodiane ma non per rappresentare un mondo parallelo e di evasione, ma per interpretare una realtà, che è fatta di dramma, ironia, speranza, sconfitta.
Credo che sia pretestuosa la polemica mossa contro Danny Boyle da parte di alcuni, ossia di aver falsato l'immagine dell'India. I film sono sempre una rilettura della realtà, non una fotografia. D'altra parte, posso capire che in un impianto tradizionale come quello scelto dal regista è spiazzante trovare un montaggio ardito e un contenuto che non è affatto di intrattenimento, come sono i video musicali indiani che vengono mandati a ciclo continuo nei fast food indiani (per inciso, fantastici i video e i fast food!!).
Una nota di merito: il balletto finale è liberatorio e, senza far dimenticare quello che si è visto, scioglie la tensione e accende la speranza.
Questo film merita certamente qualche riconoscimento alla notte degli Oscar.
Voto: 4,5/5

lunedì 2 febbraio 2009

Revolutionary road


Dall'autore di American Beauty, Sam Mendes, non ci si poteva certo aspettare una scelta diversa dal dimenticato romanzo di Richard Yates, Revolutionary road.
E' infatti nelle corde del regista la riflessione e la critica nei confronti del modello della famiglia borghese americana e delle sue nevrosi. Diciamo che, rispetto ad American Beauty, qui si torna alle origini di quella nevrosi, a quegli anni Cinquanta che, superata la crisi della guerra mondiale, videro un inaspettato benessere economico e una ricerca spasmodica di una tranquillità suburbana, destinata a diventare prototipale dello stile di vita americano.
Il film mi ha ricordato anche Lontano dal paradiso, di Todd Haynes, altro dramma familiare ambientato negli anni Cinquanta, altro regista particolarmente attento alle contraddizioni della società americana.
Il film ha un impianto quasi teatrale, si coglie perfettamente che nasce da un testo letterario. Probabilmente il regista ne ha simbolicamente accentuato il carattere claustrofobico per comunicare il senso di ingabbiamento dei protagonisti.
Bella la rappresentazione di questa borghesia americana vestita tutta uguale, che abita in casette bellissime ma tutte uguali, che prende il treno tutte le mattine allo stesso orario per raggiungere il proprio cubicolo impiegatizio.
Bella la rappresentazione di una società di scontenti che fanno tutti finta di essere felici, e quando non fanno più finta e esprimono il desiderio di qualcosa di diverso vengono additati come pazzi o infantili.
Certo, la sceneggiatura manca un po' della profondità e del carattere introspettivo del testo letterario e per quanto bravi possano essere gli attori il risultato non è sempre all'altezza. Kate Winslet e Leonardo di Caprio, ma anche i comprimari, sono bravi e contribuiscono a creare quel senso di angoscia, a trasmettere quella mancanza di vie di uscita, a far presagire la tragedia fin dalla prima scena.
E alla fine del film ci chiediamo tutti quanti compromessi siamo disposti ad accettare e qual e' il limite da non travalicare per non rinunciare al nostro futuro e alla vita che desideravamo.
Voto: 3,5/5

domenica 1 febbraio 2009

Dubbi a confronto


A distanza di pochi giorni dalla visione dell’opera teatrale sono andata a vedere anche la versione cinematografica de “Il dubbio”, scritto e diretto dallo stesso John Patrick Shanley, autore del testo teatrale. Ciò non è senza significato perché vuol dire che la stessa persona ha tradotto nel linguaggio cinematografico l’essenza vera del testo teatrale e non c’è il rischio di intepretazioni altre o che escano fuori dai confini del testo originale. Va detto che la sceneggiatura è assolutamente fedele al testo teatrale, con cambiamenti minimali imposti dalle caratteristiche del cinema.

Come l’opera teatrale, il film ha la grandezza propria delle storie che non danno risposte e che proprio per questo ti lavorano dentro.

Sul piano dei contenuti le considerazioni non possono che essere simili a quelle fatte a conclusione dello spettacolo teatrale, ossia il fortissimo valore simbolico di questo testo che fa comprendere con le parole e con la storia quanto l’insicurezza, il dubbio e l’incertezza siano condizioni striscianti, talvolta sganciate dalla realtà o innescate da convincimenti e fragilità personali o situazioni esterne che risvegliano le proprie angosce interiori. Come dice padre Flynn nel primo sermone, il dubbio è un vincolo altrettanto potente che la certezza e proprio per questo può essere utilizzato per scopi più o meno nobili. E nel secondo sermone bellissima l’immagine del cuscino e delle piume, che mostra come i germi dell’insicurezza possano raggiungere chiunque se aiutati dal vento. E lo spettatore alla fine del film si accorge di essere diventato parte del gioco, quel dubbio si è impossessato di lui rendendolo altrettanto insicuro, perché tutte le interpretazioni sono plausibili e la risposta è solo in quello che ciascuno vuole credere.

Proviamo a leggere tutto questo applicato all’America – o forse all’intero mondo occidentale – all’indomani dell’11 settembre, proviamo a pensare a tutto quello che è successo, ai processi che si sono innescati… e ognuno tiri le sue conclusioni.

Sul piano stilistico, va ovviamente data per scontata la maggiore ricchezza e le potenzialità espressive su cui può contare il cinema e gli stessi attori che possono sfruttare minimi movimenti degli occhi e impercettibili espressioni del viso per comunicare… A teatro solo la potenza della recitazione è lo strumento su cui gli attori possono poggiare.

Questo spiega forse perché lo spettacolo teatrale l’ho avvertito oscillante tra drammaticità e caricaturalità, mentre il film riesce a mantenere un piano comunicativo intermedio. Suor Aloysius (Meryl Streep) ha la potenza simbolica della certezza quasi respingente, ma riesce a mantenere il realismo di un personaggio la cui ironia si fa complementare all’inflessibilità: Suor James (Amy Adams) non è una macchietta poco credibile come a teatro, ma una suora molto ingenua, ma credibile, che si fa strumento del dubbio. Padre Flynn (Philip Seymour Hoffman) è meno tormentato che nell’interpretazione di Accorsi, ma nella sua apparente calma forse più inquietante.

Che dire? Ottima occasione per un confronto tra due arti così vicine eppure così lontane…


Voto: 3,5/5